Lungo la “strada del sangue” per stanare la resistenza taleban
La Stampa – 28 settembre 2019 – Francesco Semprini
ARDAK (AFGHANISTAN). Le lingue di fuoco dalla bocca del cannone disegnano un inferno giallorosso che ingoia l’azzurro opaco del cielo sopra Kabul. Il boato di artiglieria pesante squarcia il silenzio della vallata dove, imboscati, i nemici sono pronti a sferrare attacchi su postazioni militari e seggi elettorali. Il cannone da 122 millimetri fa sentire di nuovo la sua voce, la coltre di polvere è accompagnata dall’urlo del colonnello Hamidullah Kohdawani: «Obiettivo centrato». Siamo nella provincia di Wardak epicentro degli scontri tra forze governative e formazioni talebane determinate a trasformare in un bagno di sangue l’appuntamento alle urne per l’elezione del presidente.
È il voto più difficile dall’11 settembre 2001, anche perché è il primo la cui sicurezza è totalmente affidata agli afghani, polizia ed esercito, senza l’ausilio della coalizione Nato che dal gennaio 2015, con il cambio della missione da Isaf a Resolute Support, ha smesso ogni attività “combat” assumendo compiti esclusivi di assistenza e addestramento. Dopo 18 anni però la guerra continua, ogni giorno ci sono combattimenti in circa venti delle 34 provincie del Paese dove almeno 2 mila dei 7 mila seggi rimarranno chiusi per motivi di sicurezza. Macchiato da una lunga scia di sangue e da due rinvii del voto, l’anno delle presidenziali, secondo Unama la missione Onu presente nel Paese, ha registrato nella sua prima metà circa 4 mila tra morti e feriti nella popolazione civile.
Ma è stato luglio il mese nero con oltre 1.500 tra innocenti uccisi e feriti. Sporadici attacchi, sebbene in diminuzione, hanno riguardato anche obiettivi tra Herat e Farah controllati dai militari italiani nell’ambito della missione Nato (895 nostri uomini e donne su un totale di 17.148 militari, di cui 8.475 americani). Forze straniere a cui si devono aggiungere i circa seimila militari a stelle e strisce impegnati nella missione anti-terrorismo di esclusiva titolarità Usa e fuori da ogni sfera di competenza dell’Alleanza Atlantica.
È con il collasso dei negoziati di Doha tra la delegazione Usa guidata da Zalmay Khalizaid e quella talebana guidata dal mullah Abdul Ghani Baradar, cofondatore del movimento delle madrasse assieme al mullah Muhammad Omar, che la minaccia è cresciuta in maniera esponenziale trasformando il Paese e la sua capitale in un “far west”. Nel quale oltre alla compagine talebana, forte di circa 70 mila combattenti in tutto il Paese e una disponibilità inestimabile di armamenti, anche moderni dotati di puntatori laser e visori notturni, si innestano contaminazioni qaediste e 1.400 bandiere nere (Wilayat Khorasan o Isis-k) “ben pagate” e attive soprattutto nelle zone dove proliferano i traffici illeciti.
Bombe contro il silenzio
Al silenzio elettorale gli uomini del terrore hanno annunciato l’avvio della fase più acuta della loro campagna di bombe e pallottole, in una sorta di assedio in cui è stretta Kabul. È per questo che le forze di sicurezza, e in particolare i corpi speciali costituiti da 15 mila uomini, hanno deciso di recidere le arterie percorse dai taleban per confluire nella capitale. A partire dalla NH0101, l’autostrada 1 che collega Kabul a Ghazni, per proseguire verso Kandahar ed Helmand. Zona “nera” per arrivare a ridosso della quale percorriamo un’ora di strada dalla capitale attraverso il Wardak, vestiti rigorosamente con abiti afghani per evitare di dare nell’occhio. La provincia è popolata da tre grandi tribù, due pashtun e una hazara di confessione sciita, per un totale di sette distretti di cui solo i compound governativi sono controllati dalle istituzioni. Per il resto esiste un governatorato ombra dei taleban il cui leader è Wali Jan Hamza e la cui forza coercitiva arriva sino a Ghazni, dove ha imposto la chiusura di 173 su 406 seggi. Gli americani l’hanno soprannominata «bloody line» perché qui hanno registrato diverse perdite dall’invasione del 7 ottobre 2001, tra cui – pare – uno dei Navy Seals che partecipato all’operazione per eliminare Osama bin Laden.
Ed è da Wardak che vengono pianificati buona parte degli attacchi suicidi condotti nella capitale dagli jihadisti guidati dallo spietato comandante Qassam. La capitale Maidan Shar, considerata la porta di accesso a Kabul, è l’unico bastione governativo, attorno al quale si annidano gli «insorti» confondendosi tra la popolazione civile a cui offrono protezione e talvolta reclutamento ben retribuito, anche come kamikaze.
I telefoni detonatori
Ad accoglierci c’è il generale Wais Samimi, capo delle forze di polizia dell’area, i suoi uomini sono continuamente esposti al fuoco nemico, a partire dagli ordigni esplosivi che polverizzano mezzi e vite utilizzando come detonatore telefonini di prima generazione. Bombe che vengono piazzate sul ciglio della strada da ragazzini spesso usati come manovalanza criminale dai taleban così come le donne vengono usate come scudi di copertura per rocambolesche fughe, specie dopo le incursioni su motociclette da enduro.
È giunto l’imbrunire quando alla radio arriva un messaggio proveniente da un’altra stazione di polizia: «Siamo sotto il fuoco nemico». Immediati partono i blindati della polizia diretti verso la Pietra nera, la collina da dove i mortai martellano senza tregua mentre le raffiche delle mitragliatrici fendono le tenebre della notte senza stelle. La pioggia di fuoco prosegue per mezz’ora sino a quando i taleban ripiegano incalzati dal basso dalle unità della Quarta brigata dell’Afghan National Army coordinate da Kohdawani: «Questo distretto è continuamente sotto attacco».
Il punto infuocato è il check point «Pol-e-sark» nei pressi del quale si trova una delle centrali dove vengono prodotti gli ordigni sotto la supervisione di specialisti di al Qaeda: potrebbe essere stata una di queste l’obiettivo del pezzo di artiglieria da 122 millimetri. «Obiettivo centrato», grida il colonnello, dando ordine di procedere via terra. Il blindato su cui siamo a bordo è guidato dallo stesso Kohdawani che arriva a «Pol-e-sark» a rinforzo di unità impegnate in un conflitto a fuoco contro un manipolo di insorti assiepati a qualche centinaio di metri in linea d’aria. I colpi di mitragliatrice pesante neutralizzano pericolosi lanci di razzi, la resistenza viene piegata dopo una decina di minuti ad alta tensione. È il momento di rientrare, incolonnati e ad elevata velocità per non offrire il fianco a kamikaze e cecchini, attenti a schivare le trappole bomba, prima che il buio della notte divori il cielo sopra Kabul scandendo l’inizio della notte più lunga. Oggi, nonostante tutto, si vota.
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