Sui curdi spariamo anche noi
Estreme conseguenze, 8 ottobre 2019
890 milioni di euro negli ultimi tre anni. E’ il valore delle commesse militari italiane in Turchia, armi e sistemi di arma. Elicotteri da guerra. Sistemi di precisione. Armi da fuoco.
Nel dettaglio, il Governo italiano ha autorizzato:
-nel 2015 commesse per un valore di 128,8mln
-nel 2016 133,4 mln
-nel 2017 266,1mln
-nel 2018 362,3mln
Totale: 890milioni di euro. (Fonte: Rete Italiana per il Disarmo. Francesco Vignarca https://www.disarmo.org/)
Armi di calibro superiore ai 19.7mm, bombe, razzi, missili e software per la direzione del tiro, pistole, fucili.
Un export in costante e sicura crescita. La Turchia di Erdogan è uno dei nostri clienti migliori, si piazza al quarto posto per volume di esportazioni dopo Kuwait, Quatar, Pakistan.
Le armi che sparano sui curdi sono anche italiane, sono anche nostre.
IL BUSINESS (articolo del 20 maggio 2019)
La lobby delle armi in Italia è la più democratica del mondo: va a nozze con qualsiasi Governo. E la voglia di allargare le maglie del commercio è tanta.
Il caso RWM
RWM Italia vende all’Arabia Saudita armi che vengono usate nella guerra in Yemen. In particolare, RWM Italia, fabbrica di Domusnovas, Sardegna, vende ai sauditi le micidiali MK80. Sganciate dagli aerei sono in grado di formare un cratere di circa 15 metri di diametro ed 11 di profondità, possono penetrare corazze di metallo di 28 cm o colate di cemento di oltre 3 metri di spessore, spargendo nel raggio di 360 metri schegge e frammenti letali.
Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, da quando l’Arabia Saudita ha cominciato a bombardare in Yemen le vittime civili sarebbero circa 30mila, quasi tutte a causa di bombardamenti aerei.
L’Italia nel 2016 (Governo Renzi) ha autorizzato la fornitura ai sauditi di 19.675 bombe per un valore di oltre 411 milioni di euro.
Quante bambini hanno ucciso le bombe costruite a Domusonvas? Le bombe, purtroppo, non ce lo dicono. Scoppiano e basta.
Perché l’Italia continua a fornire armi a un paese in guerra violando l’articolo 11 della sua stessa Costituzione, la legge nazionale 185, i trattati internazionali sul commercio di armi che come nazione abbiamo firmato?
Abbiamo chiesto una prima risposta al Presidente della Commissione Difesa, Gianluca Rizzo (M5S).
“Le autorizzazioni rilasciate alla RWM – fabbrica di proprietà tedesca e con uno stabilimento a Domusnovas (Cagliari) – sono state decise dal precedente Governo. I carichi di bombe di cui si sta parlando afferiscono a licenze autorizzate nel 2016 e 2017 se non addirittura all’anno precedente. Ora come è noto le competenze sulle autorizzazioni, secondo la legge 185 del 1990, fanno capo al Ministero degli Affari Esteri e non alla Difesa. La revoca di queste autorizzazioni richiederebbe un pronunciamento formale dell’Unione Europea e della Commissione europea in particolare.”
“Il parlamento europeo – dice Rizzo a EC – si è giustamente pronunciato in questa direzione ma ad oggi la Commissione non ha tradotto in atti stringenti quella indicazione politica. Come si vede dal fatto che – anche nella importante mobilitazione dei lavoratori portuali contro questi carichi di sistemi d’arma all’Arabia Saudita – sono coinvolti i porti spagnoli, francesi ed italiani, a dimostrazione che ci troviamo di fronte ad un problema che richiede una soluzione europea. Voglio dire che in Yemen, secondo le agenzie internazionali, siamo già da tempo oltre l’emergenza umanitaria, e ci sono decine di migliaia di sfollati e tantissimi morti e feriti. Fermare la guerra e riportare le varie parti al dialogo per una soluzione negoziale della crisi è per noi una priorità. Quello che posso dire che da quando si è insediato il Governo Conte le autorizzazioni di armi italiane ai sauditi da svariate centinaia di milioni di euro sono crollate a poco più di 10 milioni nel 2018. Capisco che bisogna riconsiderare quelle già autorizzate negli anni passati ma per farlo, come ho detto prima, occorre una cornice giuridica almeno europea.”
Rizzo ha ragione rispetto al fatto che le commesse si sono ridotte negli anni, ma questo era già previsto dalla prime autorizzazioni del Governo Renzi.
Secondo Giorgio Beretta di OPAL le cose poi non stanno proprio così.
“Sono riportate per il 2018 – dice a EC – undici autorizzazioni per l’Arabia Saudita del valore totale di 13.350.266 euro più altre 816 esportazioni effettuate nel 2018 (risultano nell’allegato dell’Agenzia delle Dogane-MEF) per un valore di 108.700.337 euro. Ma, autorizzazioni a parte, cosa si potrebbe fare per fermare questo traffico? Serve per forza una ‘cornice europea’?
“Sia il trattato internazionale sul commercio delle armi, cui l’Italia aderisce, sia la legge 185 offrono tutti gli strumenti giuridici per fermare da subito questo commercio – dice ancora Beretta – ma è vero che deve essere il Ministero degli Affari Esteri a fare la prima mossa. L’annuncio di Conte di un blocco alle forniture dello scorso dicembre è stata una mera dichiarazione di intenti. Nel frattempo Germania, Svezia, Norvegia, Belgio, Olanda hanno sospeso le forniture di armi sistemi militari che l’Arabia Saudita potrebbe utilizzare nel conflitto in Yemen”.
Prosegue Beretta: “Ci sono anche diverse risoluzioni del parlamento Europeo che hanno chiesto alla Mogherini (Alto rappresentante Affari Esteri della UE) Di attivarsi per dare vita a un vero e proprio embargo nei confronti dell’Arabia Saudita per i gravi crimini accertati nella guerra in Yemen, fatti comprovati dalle Nazioni Unite. Insomma, il quadro internazionale offre in realtà già ora tutte le possibilità giuridiche per bloccare le forniture di bombe. Ma nulla accade. Il problema centrale non sono le eventuali penali da pagare alle aziende, bensì l’interesse a non compromettere futuri affari militari con i sauditi. Sospendere le esportazioni di bombe della RWM è considerato dall’industria militare, e anche da diversi ambienti politici, come un rischio perché potrebbe significare precludersi per il futuro la possibilità di vendere a Riad altri armamenti e sistemi militari. Ribadisco – continua Beretta – il Trattato Onu sulle armi prevede la possibilità di vietare l’esportazione quando si è a conoscenza che possono essere utilizzati per commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani. E la legge italiana 185/1990 all’articolo 15 permette di revocare e sospendere una licenza di esportazione: è sufficiente un decreto del Ministero degli affari esteri”.
Busseremo a quella porta, dunque.
Ma intanto, che succede a Domusnovas, il paese della Provincia del Sud Sardegna, dove RWM Italia da lavoro a 350 famiglie, in una delle zone economicamente più depresse di tutta Europa?
Il sindaco Ventura non ci ha voluto rispondere.
Emanuele Madeddu è il segretario della FILCTEM CGIl della Sardegna Sud Occidentale.
“Noi siamo totalmente contrari alla produzione di bombe che vadano a uccidere dei civili e dei bambini – afferma a EC – siamo per un embargo europeo nei confronti di questo commercio. Ma è giusto che RWM possa continuare a fabbricare bombe, destinate ad altri committenti e rispettando leggi e trattati, perché è legittimo che un paese abbia una sua industria bellica. Ho sentito tante volte la parola ‘riconversione’ ma di proposte concrete non ne abbiamo mai viste. Parliamo di 350 posti di lavoro altamente specializzati che meritano di lavorare. Qui il problema non riguarda i lavoratori, ma il Governo e le istituzioni europee. Poi, sembra che il problema qui sia solo RWM.. nessuno parla di quello che fa Leonardo o le altre fabbriche di armi in Italia… ripeto, noi siamo per l’embargo totale verso lo Yemen ma la fabbrica deve poter continuare a vivere”.
A Iglesias esiste un attivissimo Comitato per la Riconversione della RWM di cui Arnaldo Scarpa è portavoce e cofondatore.
“Contrapporre il problema etico al problema del lavoro è una forzatura. Lavoro e vita vanno insieme, non devono contrapporsi. Se esiste una contrapposizione allora questo lavoro è sbagliato. Perché qualsiasi lavoro che generi morte e distruzione va considerato tale. Noi la pensiamo cosi. Mi spiace per il Sindacato” dice a EC.
“È vero – continua Scarpa – che quel lavoro porta stipendi a 350 persone ma contemporaneamente porta morte, reale o potenziale, a migliaia di persone. Contrapponendo le due cose si forza un valore fondamentale che è quello della dignità del lavoro. Nel caso di RWM lo sfruttamento avviene prima di tutto da parte del gruppo Rheinmetall (la casa madre tedesca che proprio per i limiti imposti nel proprio paese ha spostato in Italia la fabbricazione delle bombe – NdA) che usurpa un territorio dove, purtroppo, pur di avere lavoro si è disposti a tutto o quasi. In più si trova anche davanti a una classe politica che fa finta di nulla, a livello nazionale come a livello locale. La posizione del sindacato sinceramente mi lascia perplesso. Perché il sindacato non fa lui proposte di riqualificazione invece di aspettare suggerimenti e progetti da altri? Perché il sindacato considera ‘etico’ produrre bombe?
Ci sono tanti soggetti in Sardegna che potrebbero dare una mano, le istituzioni in primis. C’è l’università. Noi possiamo tirare fuori tante idee e le abbiamo ma se non c’è una volontà politica precisa c’è poco da fare. Abbiamo fatto interi convegni su questo. Circa un terzo delle bombe usate dai sauditi in Yemen viene dalla RWM di Domusnovas. E la Rheinmetall ha più volte dichiarato che se in futuro non si darà la possibilità di aumentare la produzione nello stabilimento sardo, allora l’azienda tedesca è pronta a chiudere e a trasferire altrove. Un doppio ricatto. Se si applicasse la legge italiana la RWM chiuderebbe domani, perché vende armi a un paese in guerra. Nonostante tutte le autorizzazioni del mondo la realtà è questa.
I lavoratori di Domusnovas sono stati illusi, prima gli si è detto che era tutto regolare, ora scoprono invece che è totalmente irregolare. Ci sono tante famiglie che sono in crisi di coscienza. Nessuno ne parla, ed è difficile parlarne, non possono parlarne, lo prevede il regolamento interno, pena il licenziamento. Riqualificare invece è possibile. Parliamo di lavoratori chimici specializzati, scelti da RWM perché hanno esperienza di esplosivi, visto che siamo in zona di miniere. E se parliamo di chimica perché non pensare alle batterie elettriche, lì dove i mezzi elettrici stanno conoscendo e conosceranno sicuramente un grande sviluppo? Parliamo di lavoratori che hanno anche una grande conoscenza di meccanica e che sarebbero perfettamente in grado di produrre batterie per auto elettriche. È una proposta possibile, percorribile. Un segno importante è arrivato dai vescovi della zona. Pochi sanno che i vescovi sardi hanno fatto un documento molto chiaro dove si esprimono contro la produzione di armi e dove hanno anche dato disposizioni alle parrocchie di rifiutare le donazioni di RWM, per esempio per le feste patronali della zona. Le parrocchie i soldi di RWM non li vogliono più” conclude Scarpa.
“Cambiamo la legge”
Come mai l’industria bellica italiana sembra essere così potente, tanto da attraversare serenamente qualsiasi cambiamento politico al vertice mantenendo integre commesse ed affari e anzi, aumentandole?
Come mai gli F-35, che nessuno dice di volere, restano e anzi aumentano. Anche questo Governo ha dato il via a nuove autorizzazioni per altri 28 velivoli entro il 2022.
L’industria bellica italiana da lavoro a circa 150mila persone, direttamente o indirettamente, produce un valore in esportazioni di circa 3-4 miliardi di euro. Quella di utensileria e ferramenta, per dire, esporta annualmente per un valore di 5 miliardi di euro.
E allora?
Ancora Giorgio Beretta: “Non dobbiamo dimenticare che l’industria bellica, nel senso di ‘industria di sistema’ è una delle poche ormai rimaste nel nostro paese. Un’industria a tutto campo, dai sistemi spaziali e satellitari a quelli navali e terrestri, dalle telecomunicazioni agli elicotteri e ai caccia, dai blindati ai sottomarini, insomma un comparto molto ampio. E’ una industria ad alto valore aggiunto, di media e alta tecnologia con una serie di ricadute importanti anche a livello di indotto. Il problema è che Leonardo è oggi, insieme a Fincantieri, una delle pochissime realtà italiane capace di sviluppare sistemi complessi di alta tecnologia. A seguito, infatti, della progressiva dismissione di molte importanti aziende del settore civile, una parte consistente dell’industria civile di alta tecnologia del nostro paese oggi cammina solo insieme a quella militare. Anche per questo negli ambienti del settore industriale-militare c’è una gran voglia di cambiare la legge 185 e renderla meno restrittiva: per dare più ossigeno, dicono, all’industria. Diciamolo chiaro: la legge 185/1990 non è mai piaciuta ai produttori di armi. L’apparato industriale-militare del nostri Paese da sempre chiede di togliere restrizioni e vincoli e oggi propone soprattutto di privilegiare i rapporti ‘G-to-G’, ovvero le trattative dirette tra Governi. In realtà tutte le grosse commesse, come per esempio gli Eurofighter al Kuwait o le corvette e i pattugliatori per il Qatar, già oggi sono possibili solo col il sostegno del ministero della Difesa e del governo. Alcuni ambienti vorrebbero però creare una corsia privilegiata a questi accordi affidando il ruolo di controllo sull’export militare non all’intero Parlamento ma ad un comitato ristretto sul tipo del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR). È il vecchio gioco del controllato che fa il controllore. Puntano a questo per cercare di sottrarre il più possibile questa materia non solo al controllo parlamentare ma soprattutto a quello delle nostre associazioni della società civile. Ci sono sul tavolo, è vero, anche delle proposte di legge per rendere meglio disciplinata l’esportazione di armamenti: mi riferisco, ad esempio, alla proposta redatta da alcuni parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Ma la mia impressione è che oggi aprire ad una discussione sulla legge 185 rischi di diventare l’occasione che taluni ambienti cercano di da tempo, per ridurre i controlli e spalancare le porte agli interessi dell’industria militare. Che non è affatto detto che siano gli interessi di noi cittadini e che men che meno che rispondano alle effettive esigenze di difesa e di sicurezza del nostro Paese”
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