Una rivoluzione palpabile da difendere con ogni mezzo necessario
Ret Jin – 24 gennaio – 2019
Dalla Brigata Maddalena in Rojava
Erdogan minaccia di invadere il Rojava, una striscia di 10 km oltre la frontiera turcosiriana, che sulla carta sembrano niente ma nella realtà significa tutto, significa Jinwar, Kobane, il castello antico di Saladino, un lembo di terra liberato con passione e sacrificio, dove arabi, curdi, assiri, turcomani, ceceni, e molti altri ancora cercano di costruire un’alternativa rivoluzionaria ma allo stesso tempo antica, fatta di comunitá diverse, donne libere, cooperative e assemblee.
Il Rojava non è perfetto, non è finito, ancora è tanto il lavoro da fare, le contraddizioni, la società patriarcale, i piccoli poteri, l’esercito americano; eppure è proprio per questo che il Rojava non puó perdere. Perché è una possibilità.
Se vinciamo in Rojava ogni sogno di rivoluzione sarà forse ovunque possibile.
Per questo va difesa con ogni mezzo necessario, per questo bisogna spezzare il silenzio assordante e dire che questi 10 km di terra esistono, palpabili.
Noi li abbiamo qui davanti, nell’inverno più piovoso degli ultimi 10 anni, sembra di essere in Irlanda. Abbiamo davanti villaggi che sembrano usciti da un documentario, pecore e galline ognidove, abbiamo davanti le ragazze delle forze speciali, nella loro liberazione collettiva e personale fatta di tanta vita insieme ad altre donne, kalashnikov e risate, abbiamo davanti la gentilezza di molte persone che ci accolgono nelle loro case come fossimo le loro figlie, un chai e uova strapazzate, le mille strutture di donne organizzate e di uomini che cercano di capire.
Il Rojava non ha alberi, le costruzioni sono brutte, la plastica è ovunque. Eppure più passano i nostri giorni qui più ci sembra incredibile e a suo modo meraviglioso.
Siamo state giorni in una casetta in mezzo a un paesino di meno di 1000 abitanti, dentro un’unica stanza riscaldata, prendendo ogni tanto aria tra le viti del giardino e la cucina. Abbiamo letto, discusso, scherzato, fatto flessioni e addominali, dormito in un lettone enorme fatto di tanti materassi appiccicati e coperte collettive. Abbiamo pensato al futuro, detto tante stronzate, aspettato con ansia le notizie della sera.
La sera del 21, l’ultimo giorno del nostro anno solare, ci siamo regalate un fuoco. Abbiamo bruciato ognuna un foglietto con quello che vogliamo lasciare indietro, foglie di eucalipto e ulivo, una ciocca di capelli e un desiderio per il prossimo anno. A me veniva da ridere finché non ho deciso che queste cose hippie a volte fanno bene, e poi abbiamo cantato un sacco di canzoni anche stupide, tipo un’estate al mare o l’inno del Napoli.
Così iniziamo a pensare come la vogliamo fare questa rivoluzione, quando torniamo, come ci vogliamo incontrare, riincontrare, organizzare, dove, quando, perché.
Molte siamo anarchiche, alcune vengono dall’autonomia, alcune sono in cerca di sé e delle idee giuste.
Siamo donne, lesbiche, trans, queer, terrone, crucche e contrabbassiste.
Un enorme minestrone con un sacco di potenziale, ma anche una grande scommessa per un movimento che fino ad adesso ha visto partecipare sopratutto internazionalisti uomini tipici nella loro figura di super eroi statici e spesso gonfiati.
Non abbiamo mai litigato, al contrario, siamo diventate ancora più vicine e conosciute, una sensazione che sarà difficile da cancellare.
L’ultima lezione era sulla storia del movimento delle donne curde. Le domande a cui dovevamo rispondere erano: perché credi sia importante la creazione di forze di difesa e autodifesa di donne, come intendi i 5 principi su cui si basa la idea di liberazione della donna (connessione con la propria terra, libera volontà, lotta continua, organizzazione, etica/estetica), che significa essere una donna libera?
Nella lettura e discussione delle nostre risposte ci siamo ritrovate con occhi lucidi a ricordare momenti oscuri e momenti memorabili, ci siamo domandate…ma quale è la nostra terra? E la nostra identità? Come possiamo sentirci incluse in un movimento che parla di donne come figure femminili e materne nelle quali difficilmente riusciamo a riconoscerci? Eppure lo spazio esiste, dobbiamo solo imparare a riconoscerlo con pazienza e rispetto, senza bloccarci alla prima contraddizione, alla prima frase che ci rintrona in testa come campanella di allarme. Possiamo riconoscerci ed ispirarci a questo movimento guidato da un leader in prigione, noi che siamo sempre state contro ogni autorità? La domanda qui diventa un’altra. Possiamo fare finta che tutto questo non esista, tutto questo spazio possibile, questa intensità e passione rivoluzionaria?
No, non possiamo. Allora dobbiamo trovare un linguaggio. Un’altro approccio, che non eviti le contraddizioni, la figura del leader e quello che significa, gli americani, le soluzioni a medio termine come le prigioni “rieducative”, il binarismo di genere di cui ci sentiamo da tempo estranee, la ideologia unica e a volte certe semplificazioni. Dobbiamo capire come accorciare la distanza senza ovviare le differenze perché qui, davanti a questa quotidianità intensa e totale che ci viene offerta e mostrata a cuore aperto, concentrarci su quello che ci stona e non su quello che è assolutamente anche nostro sarebbe un tradimento a noi stesse prima ancora che a questo movimento.
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