Da dove e perché partono: 37 milioni in fuga dalle guerre Usa
Ilmanifesto.it Chiara Cruciati 10 settembre 2020
Conflitti permanenti. Il rapporto della Brown University: dal 2001 al 2019 lo sfollamento forzato da 8 paesi, dall’Iraq alla Siria, fino all’Afghanistan. Numeri al ribasso: allargando al resto dell’Africa, si toccano i 59 milioni, pari alla popolazione italiana. E gli effetti sono duraturi: frammentazione della società, impoverimento, radicalizzazione e fame
«Lo hanno rifiutato in tutti i porti, hanno portato via il suo piccolo amore, poi hanno detto “Profugo!”. Tu che hai piedi e mani insanguinati, la notte è effimera, né gli anelli delle catene sono indistruttibili».
Ai rifugiati di ogni latitudine si rivolgeva con questi versi il poeta palestinese Mahmoud Darwish. Parole che scavano nel dolore intraducibile del dover abbandonare casa propria e che danno, oltre qualsiasi statistica, il costo umano di una guerra. Che è fatta di morti, feriti, infrastrutture distrutte, reti sociali tanto sfibrate da spezzarsi. Ma anche di fughe, individuali e collettive.
I rifugiati – che ancora oggi rischiano la vita per trovare, appunto, un rifugio lungo le coste europee – sembrano arrivare ma non partire. Da dove vengono e perché, per quale ragione lasciano la loro casa, il loro villaggio, le strade familiari e i volti degli amici non interessa.
Per questo dirompente è il rapporto che l’8 settembre la Brown University, nella statunitense Providence, ha reso pubblico intrecciando i dati delle più importanti agenzie internazionali (Unchr, Oim, Ocha, Idcm), raccolti dopo l’11 settembre 2001 fino al 2019: dall’inizio della cosiddetta guerra statunitense al terrore, i conflitti iniziati o partecipati dagli Stati uniti in otto paesi (Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Siria, Yemen, Somalia e Filippine) hanno provocato almeno 36.869.026 tra rifugiati e sfollati interni.
Un numero immane e, come si legge nel rapporto, decisamente sottostimato: è molto più probabile che il numero si aggiri sui 59 milioni. Una popolazione pari all’Italia. Il bilancio salirebbe, spiega il rapporto, considerando i milioni fuggiti dai paesi in cui l’esercito Usa ha impiegato truppe da combattimento, droni, addestramento militare e vendita di armi in conflitti pre-esistenti, in Camerun, Burkina Faso, Ciad, Congo, Sud Sudan, Uganda, Nigeria, Niger, e così via.
Restando sui numeri accertati, quei 37 milioni, il paragone è presto fatto: quattro volte il numero di rifugiati provocati dalla Prima guerra mondiale, tre volte quello della guerra Usa in Vietnam e quasi pari a quello della Seconda guerra mondiale.
Di questi, circa 25,3 milioni sono tornati nel paese di origine (se rifugiati) o nel villaggio di origine (se internally displaced persons, sfollati interni). Se in alcuni casi il ritorno è dovuto a un miglioramento delle condizioni di vita, «non cancella l’esperienza della fuga per la vita e della lotta per la sopravvivenza, non equivale a un ritorno alla normalità».
Gli effetti psicologici individuali e collettivi (il trauma di ritrovarsi senza niente in un paese straniero, il senso di impotenza e di svilimento, l’impoverimento materiale) trasformano le società, in molti casi le frammentano su scala etnica e religiosa come prima non era.
Tra i paesi più colpiti ci sono Afghanistan e Iraq, con numeri record (5,3 milioni e 9,2 milioni), i due paesi che per primi sono stati presi di mira con motivazioni diverse (alcova di al Qaeda e fittizie armi di distruzione di massa) subito dopo l’11/09.
Le ragioni dello sfollamento forzato sono identiche: la violenza diretta della guerra e la distruzione delle infrastrutture fondamentali (scuole, ospedali, interi quartieri) e della rete socio-economica (lavoro e risorse naturali). Senza contare gli effetti «indiretti» delle occupazioni militari, la nascita o la crescita di milizie armate anti-Usa e l’imposizione di nuovi sistemi di potere che hanno provocato la marginalizzazione di intere comunità.
Più recente ma con numeri senza precedenti è la guerra siriana. Il rapporto si è concentrato sulle cinque province dove l’esercito Usa è stato operativo dall’agosto 2014, anno dell’intervento voluto da Obama: 7,1 milioni di persone e la distruzione di un intero paese, a cui hanno preso parte il governo siriano stesso, la Russia, il Golfo e la Turchia. C’è il Pakistan (3,7 milioni di sfollati) della compartecipazione Usa alla guerra contro le organizzazione talebane, a partire dal 2001.
C’è lo Yemen (4,4 milioni) dal 2002 a oggi, prima con l’avvio delle operazioni «mirate» contro al Qaeda e poi con il sostegno all’intervento saudita del 2015. E poi la Somalia (4,2 milioni), anche questa nel mirino della «guerra al terrore» dal 2002, oggi tradotta nei bombardamenti, intensificati da Trump, contro al-Shabaab.
C’è la Libia dell’intervento Nato del 2011 (1,2 milioni), alle prese oggi con l’effetto diretto di quella scelta, ovvero una guerra civile senza fine apparente.
E infine le Filippine (1.7 milioni), il cui governo è stato riccamente sostenuto contro i gruppi jihadisti basati a Mindanao.
Gli Stati falliti: Iraq, Siria, Libia
Tra le conseguenze delle guerre guidate dagli Usa nel XXI secolo, c’è il fallimento degli Stati colpiti. L’Iraq è preda di settarismo interno e corruzione, estrema povertà e abnormi diseguaglianze sociali. La Libia, in piena guerra civile, e frammentata in autorità locali e città-Stato. La Siria è tuttora divisa, tra zone controllate dal governo, una provincia (Idlib) in mano ai jihadisti e il Rojava curdo occupato dalla Turchia.
Fame e miseria: Yemen e Somalia
Il ruolo Usa in alcuni dei paesi analizzati nel rapporto (raid aerei e assistenza militare) si è tradotta in carestie senza precedenti. In Somalia, al 2011, si contavano 250mila morti per fame, nel 2020 1,3 milioni di persone soffrono di malnutrizione. In Yemen 21 milioni di persone (l’80% della popolazione totale) non ha accesso costante e sicuro ad acqua potabile e cibo. Entro la fine del 2020, secondo l’Onu, 2,4 bambini saranno denutriti.
Il costo umano dei conflitti
Nel novembre 2018 la Brown University aveva dedicato un rapporto al numero di uccisi tra Afghanistan, Iraq e Pakistan, nei conflitti nati all’interno della «guerra al terrore» Usa: tra 480mila e 507mila, che non tengono conto delle vittime delle guerre siriana e yemenita. Di questo mezzo milione, i civili sono circa la metà, tra 244 e 266mila morti. Il rapporto, aggiornato a gennaio 2020, calcola 800mila morti tra Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Pakistan.
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