Gli Stati Uniti che boicottano le indagini sull’Afghanistan hanno perso il loro ruolo guida.
WIRED.it – 3 settembre 2020, di Simone Cosimi
Il ruolo di guida internazionale degli Stati Uniti è tramo ntato, e d’altronde gli stessi Usa, con Donald Trump alla Casa Bianca, hanno dimostrato di non saper più guidare nemmeno se stessi, evitando anche di rimarginare le ferite più profonde della loro storia.
L’ultima decisione, senza precedenti, non guadagnerà le prime pagine dei giornali – anche perché in Italia le questioni internazionali un po’ più complesse vengono relegate all’oblio – ma spiega con preoccupante precisione la strategia dell’amministrazione in scadenza: il bullismo internazionale travestito da isolazionismo, con punte di arroganza post-coloniale.
Ieri il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha annunciato che l’amministrazione Trump imporrà sanzioni specifiche e personali a Fatou Bensouda. Si tratta di una giurista ghanese, procuratrice capo della Corte penale internazionale dell’Aia a cui fa riferimento l’inchiesta in corso sui possibili crimini di guerra compiuti in Afghanistan dalle forze statunitensi a partire dal 2001. La Corte non è propriamente un organo dell’Onu, anche se dalle Nazioni Unite può ricevere le situazioni da trattare ed è nata nel suo alveo, e non va confusa con la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite.
Ancora oggi – nonostante l’avvio del ritiro delle truppe deciso lo scorso febbraio dopo il controverso accordo di Doha, in Qatar, con i talebani – ci sono soldati a stelle e strisce sul suolo afgano. Anzi, non ci sono solo statunitensi: la pace prevede infatti il ritiro entro 14 mesi di tutte le truppe americane e della coalizione internazionale messa in piedi dopo gli attacchi dell’11 settembre. Entro la fine di novembre, ha spiegato di recente il segretario alla Difesa Mark Esper, gli uomini saranno meno di 5mila. Al momento però sono ancora 7mila. Ai tempi dei generali David Petraeus e John Allen, intorno al 2011, erano 100mila. Secondo alcuni pareri, come quello dell’influente Brookings Institutions, quei 5mila non se ne andranno mai. Almeno, non finché il paese non sarà davvero pacificato con un accordo fra i talebani e il presidente Ashraf Ghani.
Trump ha deciso che Bensouda va colpita con ogni mezzo. Non potrà ovviamente entrare negli Stati Uniti e i beni che possiede nel paese potrebbero essere sequestrati. Insomma, non potrà fare indagini e interrogare persone informate dei fatti e testimoni, né accedere ad archivi e documenti: i confini americani diventano off-limits per una delle più importanti personalità del diritto internazionale e della cooperazione giudiziaria. Con lei, allo stesso modo, è stato colpito Phakiso Mochochoko, importante funzionario del tribunale con sede in Olanda.
In questo modo l’amministrazione Trump tronca sul nascere ogni possibile sviluppo dell’inchiesta avviata lo scorso marzo, sulla base di un ordine esecutivo firmato a giugno che consentiva proprio questo genere di attacchi: sanzionare il personale della Corte, un organismo nato da un lungo processo politico e culturale dell’Onu nel corso degli anni Novanta per indagare crimini di guerra, contro l’umanità e di aggressione e genocidio.
Nulla di nuovo fra i roseti e i giardini della Casa Bianca, in realtà: Washington è da sempre fortemente ostile all’organismo in questione, di cui non riconosce l’autorità (salvo modulare la propria posizione in base alle occasioni) proprio perché è in grado di applicare i diversi accordi e trattati che compongono il diritto internazionale umanitario a paesi dove agiscono le truppe Usa. Senza la Corte, le azioni dei soldati sarebbero coperte dalle conseguenze penali internazionali, dato che basterebbe cavarsela con le legislazioni dei rispettivi territori. Tre anni fa Bensouda – a cui è stato più volte rifiutato il visto americano – era riuscita ad ampliare la portata dell’inchiesta e ad allargarla non solo ai crimini commessi dai talebani e dal governo di Kabul, ma anche dai militari stranieri presenti sul suolo afgano dal 2003.
Se quella di ieri è l’ennesima tappa di una battaglia contro la Corte, rilanciata ancora nel 2018 dall’ex segretario di stato John Bolton, è pur vero che si inserisce in un disegno più ampio di mortificazione e indebolimento delle istituzioni internazionali. Un quadro di cui Unione Europea e altri attori internazionali dovrebbero finalmente prendere atto. Perché l’unico risultato di questa tattica è un pianeta del tutti contro tutti.
Basti pensare al ritiro dagli accordi internazionali di Parigi sul clima, in un mondo che ormai vive una crisi ambientale dagli esiti catastrofici, e quello dall’Organizzazione mondiale della sanità nel pieno della pandemia da Sars-Cov-2. E ancora le continue bacchettate alla Nato, il ritiro dal trattato Open Skies (che fra le altre cose prevede voli di osservazione aerea disarmati per promuovere la prevedibilità e la stabilità strategica oltre che la trasparenza delle attività militari). Nel 2019 gli Stati Uniti hanno stracciato il trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces) con la Russia, firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov per mettere al bando i missili a raggio intermedio. Quella di oggi è un’altra America anche solo rispetto a dieci anni fa.
Isolarsi, ma solo quando conviene. Colpire in modo mirato organismi (e organizzazioni) internazionali che, con tutti i limiti e le necessità di riforma, lavorano per contenere i danni all’ecosistema e favorire la cooperazione contro minacce spesso sconosciute, promuovendo e tutelando la pace e il disarmo e la giustizia degli orrori di guerra. Di nuovo, non è una novità per gli Stati Uniti. Ma forse è davvero ora di ribaltare la dinamica e spiegare che un paese pervicacemente isolato (e alla continua, spudorata ricerca dell’impunità) non può più guidare il pianeta né pretendere di garantirsi le proprie decisioni in virtù di una leadership ormai finita. Perché si è messo fuori gioco da solo.
Lascia un commento