IMPUNITI
Cisda – 24 giugno 2020
Un attacco allo stato di diritto americano: così il segretario di stato americano Pompeo definisce la decisione della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia (CPI) di riprendere l’inchiesta sui presunti crimini di guerra in Afghanistan dal 2003, che coinvolge oltre ai talebani e al governo afghano anche gli Usa, la Cia, le truppe straniere. Il coinvolgimento di questi soggetti tra gli indagati, richiesto nel 2017 da una giurista gambiana, era stato bloccato nel 2019 data la mancanza di accesso degli investigatori agli archivi Usa e le restrizioni ai loro visti, e rinviata nuovamente nel marzo 2020.
Adesso, di fronte alla ripresa dei lavori del CPI, Trump autorizza ulteriori restrizioni e sanzioni economiche ai danni dei funzionari della Corte e ribadisce la tesi secondo cui il tribunale non avrebbe giurisdizione sul personale Usa, in quanto gli Usa non hanno firmato lo Statuto di Roma.
Il nodo della giustizia, interna e internazionale, stringe in un’unica morsa Usa e Afghanistan. La liberazione dei più efferati criminali talebani ha fatto parte della posta in gioco nelle trattative “di pace” tra talebani, Usa e governo afghano – espressione, lo ricordiamo, di istituzioni che basano la propria legittimità su una legge autopromulgata di amnistia per i reati contro l’umanità commessi dalle più alte cariche istituzionali.
Un report del consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite e un commentary di Bortolotti per Ispis evidenziano la debolezza intrinseca di queste trattative in cui, di fronte alla fretta di Trump di chiudere la lunghissima guerra prima delle elezioni americane, i talebani non costituiscono un interlocutore unitario e credibile, in quanto non garantiscono il controllo di una galassia diversificata di formazioni, tra frammentazioni e rivalità aggravate dal coronavirus.
Estremamente appropriata quindi, di fronte all’impunità all’interno degli stessi USA per le forze dell’ordine e militari che commettono sistematicamente crimini di stampo razzista contro i neri, gli indigeni, gli immigrati poveri, la risposta di solidarietà alle lotte di Black Lives Matter da parte del partito Hambastagi, espressione delle forze democratiche afghane.
Mentre le cosiddette trattative “di pace” prescindono completamente, in assenza di democrazia, dalla volontà della maggioranza della popolazione afghana, dai diritti umani, civili, politici e delle donne in particolare, le organizzazioni democratiche ignorate dai grandi decisori e radicate in tutti i settori sociali proseguono il loro impegno di liberazione.
La manifestazione di Hambastagi si rivolge, come di consueto, alle popolazioni in lotta in vista di traguardi di giustizia comuni, con la capacità che contraddistingue la resistenza afghana di esprimere fratellanza internazionalista e una visione dei processi in atto di largo respiro.
Un approccio che il movimento democratico afghano condivide con la resistenza curda e con i democratici turchi, in questi giorni ancora duramente colpiti dalla repressione del governo turco con ulteriori arresti dei parlamentari di HDP, terzo partito della Turchia e principale partito dell’opposizione. L’HDP ha reagito accelerando l’organizzazione di una Marcia per la democrazia, libertà, giustizia, lavoro e pane quotidiano: richieste violentemente messe a tacere, adesso anche con questo “colpo di stato”, come lo definisce HDP.
Infine, e ancora in relazione al Black Lives Matter, dal Rojava una lezione di democrazia: come abolire la polizia, esperienza comunitaria in atto, che nella sua piccolezza mette in discussione una questione fondamentale per tutti: “niente giustizia, niente pace”. “Questo fenomeno – recita il documento jin – solleva la questione essenziale su come un sistema profondamente radicato in una storia sanguinaria fondata sulla supremazia bianca, il capitalismo e il colonialismo, possa mai fornire giustizia vera e significativa”. E offre un punto di vista alternativo per leggere le traversie del Tribunale Internazionale.
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