Kabul, soliti copioni
Enrico Campofreda – Blog – 3 maggio 2020
Se la pace non cammina, ritorna la guerra. Devono ammetterlo a Kabul: gli attentati riprendono il ritmo di due anni addietro. Non lo dice apertamente il governo, ma gli uomini del Sigar, l’Ispettorato speciale per la ricostruzione. E sono attentati talebani, non dello Stato Islamico del Khorasan che dalle trattative di Doha era escluso e si escludeva da sé.
Peraltro negli ultimi tre mesi coi marines poco schierati nei presidi di terra, l’impatto offensivo ricade tutto sul claudicante esercito locale, sempre in affanno sul tema di vigilanza e sicurezza.
Più efficiente l’apparato statistico che dall’inizio di marzo ha conteggiato un numero di attacchi doppio rispetto all’anno precedente. Trattandosi di una fase dell’anno tradizionalmente scelta dalla guerriglia quale “campagna di primavera”, la notizia non è confortante. Il comando statunitense tuttora presente nella capitale afghana, punterebbe a un’applicazione dei propositi sanciti con tanto di firma in calce a conclusione della trattativa.
Però, per bocca del generale responsabile Austin Miller giunge anche la domanda: “Cosa dovremmo fare noi, restare a guardare questi attacchi?”. In realtà le offensive non sono a senso unico. Proprio Baradar, il mullah che guidava il gruppo talebano negli incontri in Qatar, nelle scorse settimane ha denunciato la ripresa di operazione antiguerriglia da parte dell’esercito di Ghani, con tanto di supporto dai cieli di elicotteri e droni americani. Dunque le accuse s’intrecciano.
Proprio un rapporto Sigar ufficializza che ad aprile, fra una ripresa di attentati e di azioni antiguerriglia, il generalone Usa ha attivato un personale canale d’incontri (finora un paio) coi taliban, per capire come gestire la piazza di Kabul. Gli accordi di Doha non proibiscono ai turbanti di colpire obiettivi del governo definito fantoccio, quest’ultimo è alleato di Washington, ma i rapporti sono ai minimi storici. Ciò che preoccupa Miller è limitare l’impatto della violenza nella capitale, tenerlo basso, controllarlo. Sembra un controsenso, ma è conforme all’agenda sostenuta dal Segretario di Stato Pompeo che ha punito Ghani, boicottatore della concordata liberazione dei miliziani prigionieri, tagliandogli un miliardo di dollari di aiuti.
Comunque i talebani sono infuriati. Ribadiscono che non si può esistere una situazione tranquilla senza punire chi non rispetta gli accordi. Sostengono, poi, d’aver ripreso l’offensiva, ma certi agguati non provengono dalle proprie file. E richiamano, quindi lo spettro dell’Isil che, accordi o meno, per proprio conto tengono vivi gli attentati.
La violenza colpisce la volontà popolare di accettare compromessi e discredita la promessa del processo di pace” ha dichiarato in un’intervista ai media di casa mister Miller. Non chiarendo, però, se per violenza s’intenda anche quella dei suoi reparti di terra e d’aria. Mentre i graduati afghani non cercano voli pindarici, non credono al processo di pace e ritengono che i mesi di trattative abbiano rafforzato i reclutamenti talib in tante province. Loro sono per la guerra e tirano per la giacca i marines, incitandoli a restare e combattere.
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