Migranti afghani gettati nel fiume dai poliziotti iraniani.
Il Manifesto – 7 maggio 2020, di Giuliano Battiston
Frontiere. Almeno 23 sarebbero annegati, ma testimoni parlano di 70 morti. Kabul denuncia, Teheran nega: non è successo sul nostro territorio. Tra gennaio e aprile in 240mila sono tornati in Afghanistan dall’Iran, uno dei paesi più colpiti dal Covid-19, suscitando timori per la tenuta del fragile sistema sanitario.
Interrogati, picchiati, torturati dalle guardie di frontiera iraniane e poi spinti nel fiume, dove molti di loro sono affogati. È la storia di decine di migranti afghani che, dopo aver cercato di attraversare illegalmente la frontiera con l’Iran, sono stati catturati dalle forze di polizia iraniane e spinti verso la morte: secondo le ricostruzioni dei sopravvissuti e le denunce delle organizzazioni per i diritti umani, almeno 23 sarebbero affogati dopo essere stati costretti ad attraversare il fiume Harirud, che parte dal Turkmenistan, scende in Iran e poi attraversa l’Afghanistan.
Secondo fonti del ministero della salute afghano, sarebbero almeno 12 i corpi ritrovati finora, ma i testimoni parlano di cinquanta o settanta persone prima torturate, poi derise e ricacciate nel fiume. Il governo di Kabul ha chiesto un’inchiesta indipendente, ma dal ministero degli Esteri di Teheran fanno sapere che l’incidente non sarebbe avvenuto su territorio iraniano, pur dichiarandosi disponibile a collaborare.
Il lungo confine tra Afghanistan e Iran è uno dei più porosi del mondo. Tra gennaio e aprile, e soprattutto dopo la diffusione del Covid-19 in Iran, 240mila afghani hanno fatto ritorno a casa. Da allora è alta la preoccupazione del governo afghano, che oggi registra la presenza del virus in 29 delle 34 province. I numeri sono ancora bassi, ma il timore è che possano alzarsi in fretta, aggravando la situazione di un Paese con un sistema sanitario molto fragile, dove un quarto della popolazione dipende dalle agenzie umanitarie. E dove il confitto continua, tanto da spingere molti migranti economici a riprendere la strada per l’Iran.
Martedì il segretario della Difesa Usa, Mark Esper, ha dichiarato che i Talebani non stanno contraddicendo gli impegni assunti con il trattato firmato il 29 febbraio a Doha con l’inviato Usa, Zalmay Khalilzad. Quel trattato impegna i Talebani a ridurre la violenza contro le forze straniere, che hanno cominciato il ritiro, non contro quelle afghane, ha ricordato Esper rispondendo a quanti criticano l’attivismo militare talebano: 4.500 attacchi nei 45 giorni successivi all’accordo.
L’accordo con gli Usa è preliminare al negoziato vero e proprio tra Kabul e Talebani. Avrebbe dovuto iniziare prima del 10 marzo, ma si fatica a trovare il passo giusto. Eppure di settimana in settimana aumenta il numero di detenuti rilasciati dall’una e dall’altra parte. Per i Talebani si può cominciare a negoziare solo dopo il rilascio di 5mila studenti coranici.
Nel frattempo, a Kabul il presidente Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah assicurano che i colloqui per porre fine alla diatriba sul risultato delle elezioni presidenziali del settembre 2019 proseguono. E che la soluzione è vicina. I due favoriti alle presidenziali, già alla guida di un governo di unità nazionale instabile e conflittuale, hanno dichiarato entrambi vittoria. Ma il dipartimento di Stato Usa ha minacciato di tagliare un miliardo di dollari nel 2020 e un altro nel 2021 se non trovano un accordo.
Le ultime notizie lasciamo intendere che l’accordo potrebbe essere vicino. Ma quello con i Talebani sarà molto più difficile da trovare. L’accordo firmato con gli Usa gli ha concesso una patente di legittimità politica, oltre alla consapevolezza che a Washington preme il ritiro, prima della stabilità del Paese.
Gli studenti coranici possono permettersi di tergiversare. E perfino di rifiutare come «inopportuno» l’appello del segretario dell’Onu Guterres per un cessate il fuoco umanitario.
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