11/9, vent’anni di memoria selettiva
Di questi venti anni ricordiamo solo quello che ci hanno voluto far ricordare
Stefano Galieni, Left, 11 settembre 2021
Quasi tutti ricordiamo più o meno esattamente dove eravamo e cosa stavamo faceva l’11 settembre di 20 anni fa, quando le terribili immagini delle twin towers abbattute irrompevano nella nostra vita. Ma chi ha ricordo del 7 ottobre, quando la vendetta Usa piombò soprattutto sulla popolazione civile di uno dei Paesi più poveri del pianeta? Ci riferiamo all’Afghanistan reo di non aver consegnato agli Stati Uniti, la mente dell’attentato.
Quell’Osama Bin Laden, fondatore e capo di Al Qaeda, le cui milizie erano state a libro paga di Washington fino a poco prima dell’attacco. A settembre 2001 i taliban, col sostegno occidentale, avevano già da 5 anni preso pieno possesso del Paese, imponendo la sharia e rendendosi responsabili dei peggiori crimini, soprattutto verso le donne. Il loro regime non aveva accettato di consegnare il fondatore di Al Qaeda, in assenza di prove certe per gli attentati di New York. Un pretesto per proteggere il pericolo pubblico numero uno? Molto probabilmente. Un motivo sufficiente per scatenare un dispiegamento militare di tale portata? Beh difficilmente giustificabile.
Come mai già allora la famigerata intelligence Usa non provò neanche ad intervenire come avrebbe poi fatto nel 2011 quando attaccò e uccise il ricco saudita con una operazione militare chirurgica ad Abbottabad, in Pakistan, a quasi 200 km dal confine afghano?
Eppure mentre l’11 settembre è data simbolo di una guerra asimmetrica che avrebbe visto coinvolte soprattutto vittime innocenti nelle città di mezzo mondo – c’erano già stati in realtà le stragi del 1998 alle ambasciate Usa di Nairobi e Dar Es Salam per complessivi 224 morti e nel 2000 l’attacco alla Uss Cole, cacciatorpediniere della marina americana – il 7 ottobre segna l’inizio di una guerra infinita ben presto scomparsa dalle cronache dei mezzi di informazione.
Soltanto nell’Afghanistan riconsegnato il 15 agosto 2021, con anticipo rispetto al previsto, dopo l’impostura degli accordi di Doha del 2018 e senza colpo ferire, ai taliban, sono morte quasi 250 mila persone, milioni sono gli sfollati interni e i profughi (il 90% si trovano in Pakistan e Iran).
In questi 20 anni di occupazione militare mentre gli Usa spendevano 2.300 miliardi di dollari, la Germania 19 miliardi di euro e l’Italia 8,7 miliardi in Afghanistan è accaduto di tutto: Al Qaeda, ha realizzato proprie strutture in altri Paesi per poi veder lentamente diminuire il proprio potenziale economico e militare; è cresciuta a dismisura la produzione di oppiacei, in particolare eroina – oggi l’Afghanistan è il maggior produttore – è cresciuta la tossicodipendenza, sono aumentate le violenze mentre l’assenza di qualsiasi forma di ripresa economica ha fatto ancor più aumentare il tasso di povertà.
Nella guerra condotta dal 2006 con gli alleati Nato – dove eravamo mentre venne presa tale decisione? – si ebbe l’arroganza di dire che si andava a «liberare le donne dal burka e a esportare democrazia». L’87% di analfabetismo femminile, la corruzione dilagante che ha visto coinvolti i governi sostenuti militarmente ed economicamente dall’occidente, hanno impedito di fatto la realizzazione di qualsiasi infrastruttura che non fosse legata a quella splendida parte della società civile e laica afghana in cui le donne hanno occupato e occupano un ruolo determinante.
Ma nel frattempo quanti altri giorni da terrore sono trascorsi e spariti nella memoria? Ci ricordiamo – ed è giusto – del 12 novembre 2015 (strage del Bataclan) ma di quando, il 20 marzo 2003, in nome di mai ritrovati armamenti chimici e sempre per esportare democrazia, tramite cacciabombardieri, la “alleanza dei coraggiosi”, invase l’Iraq. Obbiettivo la cacciata del dittatore Saddam Hussein – con cui fino a poco tempo prima si erano fatti affari in chiave anti iraniana. E anche in questo caso il risultato si misura in centinaia di migliaia di morti, in un Paese diviso e tutto da ricostruire e, da ultimo, nella nascita di un ennesimo strumento di terrorismo, il sedicente Stato Islamico, dato mille volte per sconfitto ma poi in grado di produrre azioni criminali dal continente africano all’Afghanistan, all’Indonesia, al cuore dell’Europa.
Uno Stato Islamico sconfitto politicamente e militarmente soltanto dalle laiche forze kurde a loro volta poi represse dal regime turco di Erdogan. E a proposito di Isis (uno degli acronimi di detto Stato), chi si ricorda cosa accadeva il 13 aprile del 2017? Presto detto. In una remota provincia afghana veniva sganciata la Moab (Mother Of All Bombs) il più potente ordigno convenzionale mai costruito con l’equivalente di 11 tonnellate di dinamite e il costo di 16 milioni di dollari. Si sono bombardati tunnel utilizzati da terroristi dell’Isis, si disse. In realtà l’onda d’urto prodotta portò alla morte di numerosi e mai contati civili e alla perdita dell’udito per chiunque si trovò a venire colpito dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Un esperimento riuscito, dissero dal Pentagono. Di date da ricordare ce ne sono molte, troppe e molte di queste probabilmente non finiranno mai nei libri di storia in occidente.
Oggi, 11 settembre, una parte di società civile italiana, chiamata dal Cisda, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, proverà a far sentire la propria voce in alcune città italiane come Trieste, Milano, Monselice, Bologna, Fano, Roma, Fiumicino, Messina. Il 25 settembre prossimo, promossa da Rawa (L’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) rimaste a combattere contro l’oscurantismo e la violenza taliban, ha chiesto di mobilitarsi nel mondo occidentale e anche in Italia ci saranno iniziative di cui daremo conto. Piccoli segnali di rivolta per ricordare questa data terribile come l’inizio di un ventennio di terrore che in tanti dobbiamo far terminare. Ma c’è un’ultima data da ricordare per ricominciare.
Il 15 febbraio 2003, in tutto il mondo, contemporaneamente 110 milioni di persone si mobilitarono contro le guerre e contro i terrorismi. Il corteo nazionale di Roma portò in piazza quasi 3 milioni di uomini e donne. La frammentazione, le scelte oscene della realpolitik, operate da molti governi, anche apparentemente di colore politico diverso, hanno fatto sparire quell’immensa e pacifica potenza. Questo ricordo chiude con una domanda: dove sono finiti i tanti e le tante che nella bandiera arcobaleno si riconoscevano senza se e senza ma? Avremo tutti bisogno di risentire le loro voci.
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