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Afghanistan e LGBT, per cosa lottare (promesse inattuabili a parte)

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Un argomento di cui i media mainstream non si occupano. Sebbene non recentissimo, questo articolo inquadra molto chiaramente la problematica delle persone LGBT in Afghanistan

Ginevra Campaini, Il Grande Colibrì, 30 agosto 2021

afghanistan donne musulmane burqa

All’improvviso l’Afghanistan è caduto sotto il potere dei talebani: l’Occidente è impegnato in un’eroica corsa contro il tempo per salvare le possibili vittime del movimento fondamentalista. Questo è quello che è successo negli ultimi giorni, almeno ad ascoltare tanti media mainstream italiani. La realtà è un bel po’ diversa. Il trionfo talebano, per esempio, è stato più rapido del previsto, ma tutt’altro che imprevisto: è il frutto di negoziati che andavano avanti in Qatar da tre anni e dell’annuncio dell’uscita delle truppe statunitensi dal suolo afgano. E quando sgomberi il campo non sei più un attore decisivo, né per il nemico né per l’alleato (per questo l’esercito afgano si è sciolto così in fretta). Sui grandi giornali internazionali l’esito di oggi era stato descritto già da tempo.

Parole, parole, parole…

Intanto il presidente statunitense Joe Biden, che in campagna elettorale aveva promesso un’America migliore, pioniera del rilancio della democrazia, rivendica la decisione di abbandonare l’Afghanistan, ma un po’ l’accolla a Donald Trump, dicendo di aver trovato un accordo già siglato da lui, e un po’ alla popolazione afgana. “Abbiamo speso più di mille miliardi in vent’anni e abbiamo addestrato ed equipaggiato più di 3 milioni di militari. I leader afgani devono unirsi – ha detto Biden – Migliaia di dipendenti americani sono stati uccisi o feriti. Ora [la popolazione afgana; ndr] deve combattere per se stessa, per la propria nazione“.

Parole “oltraggiose” e “ingiustificabili“, secondo Steve Coll: “La popolazione afgana, generazione dopo generazione, ha sofferto guerre senza fine e crisi umanitarie, una dopo l’altra, e gli Stati Uniti devono ricordare che questa non era una guerra civile che gli afgani hanno iniziato tra di loro e in cui il resto del mondo è stato risucchiato. Questa situazione è stata innescata da un’invasione esterna, inizialmente da parte dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, e da allora il paese è stato un campo di battaglia per le potenze regionali e globali che cercano la propria sicurezza con interventi militari in Afghanistan: lo hanno fatto gli USA dopo il 2001, la CIA negli anni ’80, il Pakistan sostenendo prima i mujaheddin e poi i talebani, l’ha fatto l’Iran coi suoi tirapiedi“. 

Intanto l’aeroporto di Kabul è diventato la porta verso una promessa di libertà che non potrà essere mantenuta: l’Association of Wartime Allies, che riunisce chi ha collaborato con le truppe USA in paesi in guerra, calcola che saranno centinaia di migliaia i collaboratori dei governi occidentali abbandonati in Afghanistan, anche se fino a fine mese ci fosse il massimo sforzo possibile per evacuarli. Ma troppo spesso anche in Occidente lə politichə, i media e le opinioni pubbliche si sono innamorate di questa promessa fasulla. Invece è importante capire cosa si potrà fare realisticamente e iniziare a fare pressioni perché i nostri governi lo facciano sul serio.

La storia dimenticata

Per capire la distanza tra fantasie e realtà, la situazione delle persone LGBTQIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersex e asessuali) è particolarmente significativa, tanto per la narrazione dei media, che parte da presupposti falsi, quanto per alcune “soluzioni” che si basano su scenari irrealistici. Partiamo dalla narrazione dei fatti: se ci raccontano che l’Afghanistan è caduto e che i talebani hanno ripristinato la sharia, si stanno dimenticando gli ultimi vent’anni della storia del paese. Non solo i talebani hanno mantenuto il controllo di una buona parte dello stato (ora sono cadute le grandi città), ma la sharia, in base all’articolo 130 della costituzione “post-talebana”, è rimasta in vigore anche nelle aree controllate dal governo filo-occidentale.

In poche parole, i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso sono sempre rimasti punibili anche con la pena di morte. Le parole del giudice talebano Gul Rahim (“Per gli omosessuali ci possono essere due punizioni: possono essere lapidati oppure essere messi sotto un muro che gli viene fatto crollare addosso. Il muro deve essere alto 2,5 o 3 metri“) fanno rabbrividire, ma non sono molto diverse da quelle di Fazel Hadi Shinwar, primo presidente della Corte suprema dell’Afghanistan “democratico”, che spiegò che gli omosessuali dovevano essere uccisi proprio schiacciati sotto il crollo di un muro. La differenza con i talebani? Il nuovo Afghanistan prometteva “un dettagliato processo legale” (sic!).

Se è vero che non ci sono state notizie di condanne a morte di persone LGBTQIA+, nel corso di tutti questi anni le organizzazioni per i diritti umani ci hanno ripetuto che non erano affatto da escludere in un paese dove le informazioni circolavano poco e in cui ogni territorio funzionava un po’ per conto suo. In ogni caso ancora nel 2017 un attivista queer denunciava: “L’uccisione degli omosessuali in Afghanistan è comune e sta aumentando di giorno in giorno, gli uomini vengono attirati con appuntamenti e poi vengono uccisi“. Neppure la bolla di Kabul era sicura, come dimostravano alcuni efferati omicidi: “Kabul è più pericolosa di altre città. Gli uomini gay sono visti come un facile bersaglio per lo sfruttamento da parte della polizia e dell’esercito“.

Il miraggio delle sanzioni

L’analisi del passato mostra come siano semplicistiche alcune proposte per il futuro: se le potenze occidentali non hanno convinto un governo sotto loro tutela a rinunciare alla persecuzione delle minoranze sessuali, come potrebbero farlo con un governo talebano? Di certo la moral suasion non funzionerebbe, ancor meno dopo aver perso ogni parvenza di affidabilità con tutti gli attori in gioco (i talebani, le forze anti-talebane, la popolazione, ecc…) e dopo aver mandato un messaggio politico molto chiaro: per i talebani non fare alcuna concessione è stato molto conveniente.

D’altra parte, in questo periodo il gruppo fondamentalista sembra mostrarsi più “moderato”, per esempio con alcune dichiarazioni sulla questione femminile e sulle minoranze religiose: se è quasi impossibile credere a una vera svolta, questo atteggiamento potrebbe indicare un bisogno di legittimazione internazionale che si potrebbe sfruttare insieme alla necessità di finanziare la ricostruzione del paese. Il dibattito è già aperto e ci si chiede se funzionerebbe di più il bastone delle sanzioni o la carota degli incentivi (intanto molti governi e istituzioni internazionali hanno congelato gli aiuti economici all’Afghanistan, non si sa ancora se in via definitiva o temporanea).

Finanziare un Afghanistan completamente sotto il controllo talebano non sarebbe la soluzione ideale, ma “la questione principale è come aiutare nel migliore dei modi le persone che abbiamo abbandonato, o almeno danneggiarle il meno possibile“, come ricorda Ashley Jackson, esperta di gruppi armati all’Overseas Development Institute (Istituto di sviluppo d’oltremare) di Londra. Secondo Heather Barr, di Human Rights Watch (Osservatorio sui diritti umani), si potrebbero convincere i talebani a permettere iniziative di sostegno ai bisogni fondamentali della popolazione, come l’apertura e il finanziamento di scuole e ospedali. Ma è evidente che da qui a pensare di riuscire a influenzare l’agenda talebana sui diritti delle persone ce ne corre.

Il quadro geopolitico

Ogni scelta di sanzioni e/o incentivi da parte dell’Occidente, inoltre, sarebbe decisamente spuntata, perché probabilmente i talebani riuscirebbero a reggere lo stesso con l’enorme ricchezza accumulata in questi decenni e con i commerci illegali che controllano, tra cui quello degli stupefacenti. Ma soprattutto reggerebbero grazie al sostegno dei ben poco “friendly” paesi confinanti, mossi non solo da interessi economici e geopolitici (esattamente come i paesi occidentali, è bene ricordarlo), ma anche dal terrore che tutta l’Asia centrale finisca destabilizzata.

Pensiamo alla Cina: Pechino ha messo gli occhi da diverso tempo sulle terre rare, un bottino da miliardi di dollari racchiuso nel sottosuolo afgano, ma soprattutto vuole evitare che i talebani diano sostegno al Türkistan İslam Partiyisi (Partito Islamico del Turkestan) e ad altri movimenti indipendentisti uiguri. Il regime cinese teme il caos nella regione dello Xinjiang, dove il partito comunista sta portando avanti da anni un genocidio culturale contro la popolazione musulmana. La Cina vuole anche evitare che il caos travolga il Pakistan, un paese fondamentale per il suo faraonico progetto della Nuove via della seta. 

A proposito del Pakistan, bisogna ricordare che è stato proprio questo paese a dar vita al movimento talebano e a sostenerlo e armarlo per anni. I talebani sono legati a doppio filo con elementi fondamentali delle istituzioni pachistane. Anche l’altro grande stato confinante, l’Iran, potrebbe essere portato ad avere buoni rapporti con i talebani, sia per preservare i traffici illegali che dall’Afghanistan passano per il proprio territorio e portano denaro in un momento di profonda crisi, sia per evitare che il gruppo fondamentalista sostenga una ribellione della minoranza sunnita. E anche la Russia, che pure non confina con l’Afghanistan, teme che il caos travolga le repubbliche ex sovietiche e quindi probabilmente preferirà far buon viso al cattivo gioco talebano.

A complicare ancora di più il quadro, è il fatto che qualsiasi influenza si riuscisse a produrre sul governo talebano, bisognerà ricordare che il movimento è fortemente decentrato, con ramificazioni locali poco “disciplinate” che a volte hanno interessi divergenti e per questo prendono decisioni diverse da quelle teoricamente imposte dalla gerarchia. Inoltre, l’universo del fondamentalismo islamico è galvanizzato dal fatto che “una nuova banda di guerriglieri afgani ha sconfitto una seconda superpotenza” (gli USA dopo l’URSS) e questo potrebbe renderlo ancora meno incline a cedimenti ideologici. Ogni successo, insomma, rischierebbe di limitarsi a piccole bolle (esattamente com’è successo negli ultimi vent’anni, a dire il vero).

Tutto questo discorso non significa che non bisognerà cercare di fare qualcosa, ma – al contrario – che bisognerà impegnarsi ancora di più, sapendo tuttavia che i risultati saranno con ogni probabilità molto limitati.

Corridoi senza uscita

Molto di più si potrà fare per le persone che fuggono dall’Afghanistan. Come è successo in passato, si prevede che la gran parte delle persone profughe si concentrerà nei paesi confinanti, in particolare Pakistan e Iran (che però sta già facendo di tutto per impedire l’ingresso sul suo territorio). Meno persone che in passato dovrebbero arrivare in Turchia (sia per il blocco iraniano sia per quello turco, con la costruzione di un muro lungo tutto il confine) e da qui in Europa (per tutti i problemi accumulati prima e per il blocco greco, anche qui con costruzione di un muro lungo il confine). La questione, quindi, per la gran parte del problema si riassume nell’aiutare persone in giganteschi campi profughi in Asia.

Peccato che questi campi esistano già da tanto tempo, nell’indifferenza del mondo: l’ondata emotiva ci spingerà a interessarci della popolazione profuga nel mondo o tra qualche giorno torneremo a fregarcene come al solito? Il rischio è che, per mettersi il cuore in pace, ci si limiti a qualche appello che non ha nessuna possibilità di essere realizzato, spesso quasi per fortuna. Pensiamo per esempio alla proposta di corridoi umanitari per le donne: a parte che si parla potenzialmente di milioni di persone, ma non si tiene conto che, ovviamente, le donne hanno relazioni e che magari non hanno nessuna voglia di abbandonare amici, figli, mariti e padri solo perché sono uomini.

Quando si parla di corridoi umanitari per le persone LGBTQIA+, poi, si rischia di creare più danni che altro. Sono persone che fanno una grande fatica a dichiararsi e anche solo a rappresentarsi come appartenenti a una minoranza sessuale anche quando sono al sicuro in paesi che li proteggono… e si immagina che facciano coming out con il personale dell’UNHCR nei campi profughi di Iran e Pakistan, dove questo potrebbe costargli la vita. Ma non solo: la retorica dell’aiuto limitato alle donne e alle persone LGBTQIA+ è un ostacolo nell’aiuto a tutti gli uomini (e a tutte le persone percepite come tali), compresi uomini gay e bisessuali e donne transgender che non vogliono e non possono uscire allo scoperto.

Superare le retorica

Questa retorica produce danni anche nei paesi occidentali, perché rafforza, spesso “da sinistra”, lo stereotipo secondo cui gli uomini eterosessuali afgani sono per la maggior parte immeritevoli di aiuto o addirittura pericolosi. E si finisce così per alimentare la retorica xenofoba della destra. È questo il secondo fronte sul quale dobbiamo impegnarci, anche perché, al di là di belle dichiarazioni e di qualche migliaio di persone salvate con i ponti aerei, questa retorica xenofoba sta trionfando: la risposta dell’Europa a una improbabile “invasione afgana” è fatta di muri, dell’allarmismo del presidente francese Emmanuel Macron, della promessa della cancelliera tedesca Angela Merkel che non si ripeterà la generosa accoglienza vista nel 2015.

Alla retorica, che straborda da ogni lato, dobbiamo impegnarci a resistere ciascunə di noi singolarmente: non facciamoci distrarre da chi cerca la nostra reazione di pancia come da chi cerca la lacrimuccia facile. E, per esempio, quando ci chiedono di applaudire la foto del diplomatico italiano che salva un bambino, proviamo invece a chiedere perché la diplomazia italiana non ha affrontato la questione dei ponti aerei prima della caduta di Kabul: è un caso di immensa incompetenza o di spregiudicata scaltrezza?

Ginevra Campaini e Pier Cesare Notaro
immagini: elaborazioni da Nitin Madhav (CC0) / da kalhh (CC0) / da USAID (CC0) / da PhotoStock (CC0)

Ginevra Campaini: “Mi chiamo Ginevra e non sopporto gli stereotipi delle categorie maschile e femminile. Scrivo per imparare, capire e condividere quello che succede a me e alle persone LGBT+ nel mondo” > leggi tutti i suoi articoli
Pier Cesare Notaro: “Antifascista, attivista per i diritti delle persone LGBTQIA e delle persone migranti, dottore di ricerca in scienze politiche, mi sono interessato da subito ai temi dell’intersezionalità” > leggi tutti i suoi articoli

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