Biden, il peso del disonore afghano
di Enrico Campofreda, 14 aprile 2021
Via dall’Afghanistan promette Biden e sceglie la data simbolo dell’11 settembre. Quella della ferita inguaribile per la potenza americana, del sangue e del panico diffusi fra gente innocente. Il seguito è noto, una vendetta contro una terra e la sua gente ree – sosteneva la Cia – di offrire rifugio a Osama Bin Laden, il regista della strage nel cuore di New York.
Così tre missioni lunghe vent’anni, milioni di profughi interni e in fuga senza meta pur di scappare dalla morte che ha invece inchiodato mezzo milione di fratelli e sorelle.
Via da un disastro politico che ha definito democrazia l’investitura di gaglioffi: Hamid Karzai, due volte presidente, Ashraf Ghani, suo emulo in tono minore, con le loro corti di faccendieri immorali, criminali di guerra promossi vicepresidenti (Fahim, Khamili, Dostum). Quattro governi fomentatori di corruzione, ruberie, scandali che hanno bloccato e bloccano ogni speranza legislativa.
Via dalla disfatta militare che ha visto il progressista Obama, emulare lo JFK del Vietnam, giù bombe e marines, giunti fino a centomila, praticando dieci anni dieci d’un’intensissima guerra che la Nato pensava di dominare, invece ha perduto offrendo ai talebani la patente di resistenti contro l’invasione straniera. Un’occupazione fatta di bombardamenti sulla gente normale, magari non alla moda come il ceto impiegatizio stroncato dentro le Twin Towers obiettivo di Qaeda, ma contadini e pastori che tornando la sera nei villaggi dell’Helmad, di Balkh finivano sotto missili degli F-16. Pensavano Colin Powell, Petraeus, pensavano gli strateghi della guerra tecnologica d’azzerare l’azione talebana?
Non è andata così. Gli Ied fanno del male quanto i droni e soprattutto in virtù delle Extraordinary rendition delle Task Force 45 e simili, con la partecipazione orgogliosa quanto succube di specialisti d’ogni Paese, i taliban continuano a considerarsi patrioti e reclutare i figli di chi ne ha visti altri crepare sotto le bombe.
Via dallo sfacelo economico con lo sperpero di duemila miliardi di dollari, usati solo per sostenere un autoreferenziale apparato amministrativo-burocratico. Che non ha costruito nessuna strada, nessuna scuola, nessun ospedale. Anzi uno di questi, finanziato da Médecins sans frontières a Konduz, nel 2015, durante un raid antitalebano, è stato bersagliato dai bombardieri dell’Us Air Force, facendo morti e feriti fra il personale sanitario in servizio. Le uniche strutture create sono nove basi aeree che, c’è da giurare, non verranno smobilitate, servono per continuare a vigilare i cieli del cuore dell’Asia dove i nemici e la competizione non mancano.
Un fiume di aiuti internazionali sono stati gestiti dalle Istituzioni pilotate da Washington e dispersi in ruberie degli apparati statali dove i boss sono di casa. Nulla giunge ad associazioni locali di cui abbiamo conosciuto e narrato l’impegno rivolto a orfani, a donne salvate dalla violenza domestica e societaria, ai parenti delle vittime di quelli che l’Occidente definisce “danni collaterali”.
Novemila ne ha contati l’Unama lo scorso anno, tremila i morti, seimila i feriti. E questa era la stagione delle trattative di pace, della firma in calce che doveva cambiare tutto, mentre tutto è rimasto uguale. I vent’anni di buio che statunitensi, alleati Nato, l’apparato servile afghano da essi predisposto fanno pesare sul Paese, si materializza nel soffocamento d’ogni capacità d’impresa. Come accade ad altre comunità tenute prigioniere e succubi, si svendono i beni interni e s’impedisce ogni iniziativa volta a creare un’economia autoctona.
Così si perpetuata una dipendenza cronica da cui non si vede all’orizzonte alcuna emancipazione. L’unico futuro è rappresentato dalle fughe: quella dei giovani afghani che gonfiano le file d’una migrazione forzata dalla guerra e dall’assenza di prospettive. E la fuga-riparo dei militari Nato che evitano di combattere ancora per qualcosa che non ha ragione d’esistere. Eppure resta il vuoto. L’incompiuta finora sui tavoli di Doha e Mosca, con la variante di quello di Ankara chiesto dal Segretario di Stato Blinken, concesso da Erdoğan sempre disponibile su ogni scacchiere internazionale e glissato dai turbanti, deve conciliare un apparato fallito con talebani e fondamentalisti sparsi sul territorio, una maledizione che pesa sulla pelle d’un popolo martoriato.
Da questa mediazione dovrebbe nascere un governo di transizione che forse neppure partirà, mentre l’ipotesi di guerra civile è un fantasma che riappare.
Chissà, dunque, se gli americani faranno un biglietto d’andata e ritorno o ci sarà qualche nuovo gestore del moderno “Grande Gioco”.
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