Il lessico della guerra che rimane
C’è la fuga da Kabul, ma i semi di un’altra guerra sono gettati. Sfilano le cannoniere davanti Taiwan per dimostrare a Pechino che la potenza americana c’è. Non se ne esce, essa è permanente: è una scia che data dagli anni Settanta ma che trova il suo fondamento nell’89
Tommaso Di Francesco, il Manifesto, 29 agosto 2021
Vale la pena riflettere sul lessico usato per la disfatta occidentale in Afghanistan. L’attenzione va ad alcune parole apodittiche: vendetta, tradimento, disastro e caos. Perché ogni narrazione sta semplicemente rimuovendo la guerra e l’occupazione militare. Mentre Bbc e New York Times raccontano: «Molte vittime all’aeroporto perché i soldati Usa hanno aperto il fuoco», ricordiamo che per 20 anni abbiamo assistito ogni settimana ad una litania di «effetti collaterali», le stragi di civili dei quali non solo i media non si sono occupati ma hanno rilanciato la versione- embeddded: scusate ma era necessario per colpire il terrorismo.
Con un terrore peggiore guidato dalle forze Usa e Nato dall’alto dei cieli, cacciabombardieri o più moderni droni, nel mucchio contro la popolazione civile per fare terra bruciata al nemico. Ma è accaduto il contrario: le vittime civili, la rabbia popolare è stata gestita dai talebani. Mentre qualche titolo sporadico appariva perché magari, come in Germania, il massacro di 146 civili a Kunduz provocò nel 2009 una crisi di governo. Così ieri, a guerra «finita» è scattato dopo la strage dell’aeroporto ad opera dell’Isis-K, la vendetta di Biden con l’uccisione «delle due menti» jihadiste. Con lo stesso termine usato per giustificare la guerra del 2001: era per «vendicare» l’abbattimento delle Twin Towers, che fu opera di terroristi di Al Qaeda in massima parte sauditi.
Ma l’Arabia saudita, base ideologica di ogni integralismo era e resta il cuore delle nostre alleanze. Intanto lasciamo a marcire in un carcere militare americano Daniel Hale, un giovane analista dell’intelligence dell’aviazione Usa, che ha avuto il coraggio di denunciare i criminali raid dei droni contro i civili: solo poche settimane fa, mentre il presidente Usa avviava il ritiro dall’Afghanistan, una Corte si è affrettata a condannarlo a quattro anni di carcere per «tradimento».
Di tradimento si è parlato per il ritiro deciso dalla Casa bianca, in attuazione degli accordi di Doha. Allora, dagli a Joe Biden. Che piange in piena, autorevole conferenza presidenziale, per un’America ferita dagli ultimi 13 marine uccisi a Kabul. Scatenati i repubblicani che chiedono l’impeachment e lo stesso Trump che quell’accordo ha realizzato. Ma dov’è il tradimento? Biden certo non è una mammoletta, è stato per otto anni vice-presidente e di guerre se ne intende, ma non ha avuto peli sulla lingua a dire chiaro e tondo quale era la ragione vera dell’intervento americano: la vendetta e non certo la costruzione della democrazia. Spiazzando gli orfani di guerra nostrani, quegli alleati corsi nel nuovo conflitto “umanitario” in difesa dei valori occidentali. Ma non è forse questo il vero tradimento dei valori occidentali? Pensare che una guerra possa esportate la democrazia – ahimé spesso vilipesa in patria – con i bombardamenti aerei e le vittime civili da annoverare come «effetti collaterali»?
Ormai è chiaro a tutti, perfino al commissario Ue Paolo Gentiloni che la missione Nato «è stata un disastro». E la parola è subito molcita dalla considerazione: «Ora è tempo della difesa comune europea». Doppio imbroglio, giacché nessuno dice che questo disastro dell’Alleanza atlantica, che intanto surroga l’inesistente politica estera Ue, mina alle fondamenta la residua credibilità di questo strumento residuo della Guerra fredda che si è rilanciato solo grazie alle guerre «umanitarie», quelle votate bipartisan, quelle che hanno rifondato la sinistra di governo che ha trovato nella guerra – alla faccia dell’articolo11 della Costituzione – una sua «fase costituente», una prova per la sua legittimazione a governare. La Difesa europea viene proposta non come alternativa ma come spese militari aggiunte.
È il caos, del quale dalle colonne del Corriere della Sera incolpano l’Isis. Ma come, abbiamo lasciato l’Iraq dopo due interventi militari devastanti, in una guerra civile strisciante e nella povertà, abbiamo usato i jihadisti per abbattere Gheddafi, poi li abbiamo riciclati, tramite il baluardo sud Nato della Turchia, per destabilizzare la Siria ridotta in cenere abbandonando i curdi, e alla fine i responsabili del caos sarebbero i talebani? E la vergogna dei profughi afghani? Li hanno scoperti adesso, ma da anni sono milioni, tante donne afghane, bambini e uomini, in fuga dalla guerra – dai talebani certo, ma anche dalle bombe Nato; abbiamo intravisto le loro ombre nella rotta balcanica, abbiamo esternalizzato le loro vite alla Turchia o al Pakistan, eravamo pronti a rimpatriarli, negando fino all’ultimo il diritto d’asilo perché ormai l’Afghanistan era un «posto sicuro», come la Libia.
C’è la fuga da Kabul, ma i semi di un’altra guerra sono gettati. Sfilano le cannoniere davanti Taiwan per dimostrare a Pechino che la potenza americana c’è. Non se ne esce, essa è permanente: è una scia che data dagli anni Settanta ma che trova il suo fondamento nell’89. L’Italia – senza dimenticare la sfilata di premier e ministri in tuta mimetica in questi anni a Kabul – è dentro questa agenda. Spendiamo oltre 70milioni di euro al giorno per armi e difesa per un ammontare di almeno 26 miliardi di euro in bilancio; guideremo la missione Nato in Iraq, stiamo aprendo una base militare in Mali sostituendo la Francia in fuga dal Sahel, attiviamo ogni giorno lo scellerato allargamento della Nato a Est per ritrovarci i Paesi dell’Est iper-atlantici ormai contro i nostri valori; e scoprendo alla fine che il «nemico» come la Russia o la Cina diventano utili nella tragedia afghana. E i 54 soldati morti in Afghanistan per ora sono «eroi», ma se qualcuno denuncerà il governo italiano per esposizioni delle vittime all’Uranio impoverito, vedrete che saranno dimenticati come tanti.
C’è un’ultima parola, giustamente ricomparsa con l’addio a Gino Strada. È la pace. O meglio, come direbbe lui «essere contro la guerra». Nella sconfitta di chi ha voluto la guerra impariamo a leggere anche la sconfitta di chi non l’ha saputa fermare.
Se in questo momento non torna a levarsi alta la voce di chi è contro ogni guerra senza se e senza ma, subito salvaguardando i deboli, le donne e i bambini afghani; se non organizziamo le ragioni di chi individua nel complesso militare-industriale – altro che transizione ecologica – il vero nemico dei valori dell’Occidente; se non organizziamo in un sistema di senso, di nuova informazione – prima vittima di ogni guerra – e di movimento questa volontà, la pace resterà una parola impotente, soffocata dalle rovine.
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