Il rischio di un salto nel buio in Afghanistan
Questo articolo rappresenta, a nostro parere, un modo di vedere con uno sguardo soltanto agli interessi occidentali senza prendere in esame quello che pensa parte della società civile afghana. [N.d.R.]
Huffingtonpost – 2 gennaio, 2021, di Michele Valensise
Nel ventesimo anno dall’attacco alle Torri Gemelle e dall’intervento militare si ragiona sulla conclusione della missione che ha causato un pesante tributo di sangue, anche per l’Italia.
Una lunga guerra, dimenticata, lontana eppure importante per molti. L’Afghanistan, con la sua storia di fierezza e invincibilità, montagne inaccessibili, intrecci di gruppi tribali e di clan, isolato ma al tempo stesso crocevia tra Oriente e Occidente. Lì il fascismo relegava in esilio professionale i diplomatici scomodi per il regime. Ora, entrando nel ventesimo anno dall’attacco alle Torri Gemelle e dall’inizio dell’intervento militare autorizzato dall’Onu per garantire la sicurezza del Paese e impedire nuovi santuari del terrorismo internazionale, alcune domande sui possibili sviluppi restano ancora senza risposta, anche se è chiara la direttrice di marcia verso il rimpatrio delle forze militari straniere.
La missione di stabilizzazione è evoluta negli anni. All’Isaf (International Security Assistance Force) è seguita nel 2015 la missione Resolute Support nel quadro Nato, tra cui circa 800 militari italiani, per la formazione e l’assistenza alle forze di sicurezza e alle istituzioni afghane nel contrasto dei gruppi fondamentalisti. Ma anche in questa seconda fase “no combat”, con un ben minor numero di uomini sul terreno, tra violenze e tensioni il contributo alla stabilizzazione del Paese è stato rilevante. Il punto è di capire se il lavoro possa considerarsi completato. L’accordo di Doha del febbraio 2020, patrocinato dagli Stati Uniti tra il governo di Kabul e i Talebani, fissa per il 1 maggio 2021 il ritiro delle forze Usa a fronte dell’impegno alla cessazione delle violenze talebane, al dialogo intra-afghano e alla liberazione di prigionieri.
L’intesa, la cui firma non ha impedito nei mesi successivi il protrarsi di scontri e attentati sanguinosi, fu molto voluta dal presidente Trump, fedele alla sua promessa elettorale di riportare a casa i militari americani, oltre che scettico sull’effettivo interesse degli Usa alla prosecuzione della missione (America first). Washington condusse la trattativa unilateralmente senza un vero coinvolgimento degli altri Paesi Nato, pur oltremodo interessati alle sorti della missione comune, e il negoziatore Usa, Zalmay Khalilzad, sembrò prendere in contropiede lo stesso Pentagono, che reclamava una più attenta preparazione e una maggiore gradualità del ritiro. Se la missione doveva ispirarsi al principio together in, together out, Trump applicò insomma una sua peculiare idea di coordinamento con gli alleati.
Dopo anni di impegno e un notevole tributo di sangue, pagato anche dall’Italia (53 caduti e oltre 700 feriti), è giusto ragionare sulla conclusione della missione e sul rientro dei militari. L’essenziale è procedere con ordine, senza mosse precipitate, con la consapevolezza dei rischi di vanificare gli sforzi per ricostruire condizioni di vivibilità in un Paese in guerra ininterrottamente da quaranta anni. La pace non potrà essere azionata con un interruttore. Se la violenza continua a far strage di vittime innocenti e a conculcare diritti fondamentali, come quelli della condizione femminile e dell’istruzione, e prima ancora della sicurezza, è bene predisporre tutte le possibili garanzie per evitare un salto nel buio e il ritorno all’integralismo più minaccioso.
Non dimentichiamo da dove tutta la vicenda è iniziata: la risposta a un’offensiva inaudita del terrorismo, che in Afghanistan aveva trovato basi operative, appoggi e connivenze. La storia non dovrà ripetersi, nuove minacce alla sicurezza e agli interessi occidentali dovranno essere debellate. La lotta al terrorismo internazionale e alle sue multiformi ramificazioni deve essere tuttora una priorità dell’agenda globale e un Afghanistan in cui la componente talebana, con le sue temibili contiguità ideologico-religiose, avesse un ruolo preponderante dovrà essere monitorato con grande attenzione.
Resta da verificare l’orientamento dell’amministrazione Biden. Il rimpatrio delle truppe potrebbe essere iscritto tra gli obiettivi anche del governo democratico, occorrerà vedere con che tempi e modi. Mentre si rafforza l’idea che il termine del 1 maggio non sia perentorio e che l’effettivo ripiegamento vada modulato in funzione delle esigenze di sicurezza, non ultima quella degli afghani, si guarda alla riunione dei ministri della Difesa della Nato di febbraio e alle indicazioni che Washington potrà fornire e condividere. A quell’appuntamento anche l’Italia, quarto contributore di truppe in Afghanistan dopo Usa, Uk e Germania, dovrà presentarsi preparata a tutte le opzioni, non solo a quella di un pericoloso “big bang”.
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