La grande trappola afghana
Ilmanifesto.it – Giuliano Battiston – 7 novembre 2021
«Non c’è speranza qui. L’unica è andarsene». Siamo in un appartamento a Omid Sabs, quartiere-satellite di Kabul costruito negli ultimi 10 anni. Per parlare liberamente serve un posto sicuro. In questa «cittadella» le case costano tanto. Costavano. «C’è chi ha venduto a 50.000 dollari appartamenti comprati per il doppio del valore».
Gli «evacuati». Interi edifici pensati per gli impiegati pubblici, per la classe medio-alta, vuoti. Proprio in quest’area alcune ambasciate hanno trasferito centinaia di persone, prima di fargli raggiungere l’aeroporto di Kabul. Era metà agosto. I giorni dell’evacuazione. Della fuga. Oggi è un esilio lento. Sottotraccia.
Sul futuro del Paese c’è un grande punto interrogativo. «C’è modo di venire da voi, in Italia?». No, non c’è modo. «Allora vengo a farci la guerra!», fa scherzando un militante. Lo incontriamo con i suoi compagni – giovani sbarbati con mimetiche militari e colori chiari – che passeggia nei giardini esterni del santuario di Hazrat Ali, la moschea blu simbolo di Mazar-e-Sharif. Vengono tutti da Samangan. Sono soddisfatti, sì. In posa per la foto.
Più avanti ci ferma un uomo: dice che lavorava per il governo degli Stati uniti, che aveva passato tutti i test per essere espatriato. Qui rischia, deve partire. Special Immigration Visa, SIV, P2, LPR, etc, etc. I codici amministrativi ricevuti per email sono l’ultimo appiglio con l’esterno. In Qatar e nelle basi militari americane decine di migliaia di afghani sono nello stallo.
In città, ci si organizza. Due settimane fa, da Mazar-e-Sharif una rete di israeliani ha fatto evacuare 180 persone via aerea. Piano d’emergenza segreto. «C’è gente in attesa a Mazar da più di un mese», ci dicono. «Vivono nelle guesthouse e aspettano la chiamata».
Reti sotterranee. Possono rivelarsi trappole: secondo alcune ricostruzioni, Foruzan Safi, l’attivista di Mazar ritrovata morta come raccontato dal manifesto, sarebbe stata attirata in una trappola. Un falso via libera per la Germania. Un agguato.
Non ne teme Abassin, lunghi capelli neri, baffetti, wasqat militare, pantalone corto su scarpe sformate. Il più loquace di un altro gruppo di giovani Talebani al santuario di Mazar-e-Sharif. Viene dal distretto di Chimtal, nella provincia di Balkh. «Abbiamo vinto perché siamo forti come pietre. La guerra era giusta, l’Emirato è giusto».
Tra i suoi compagni uno è in ciabatte di plastica, un piede fasciato, pantaloni e camicione militari, il kalashnikov sulla spalla destra, la kefiah bianca e nera in testa. «Tre giorni fa sono tornato dal Panjshir, poi andrò a controllare l’aeroporto», continua Abassin. «Ho 20 anni. Sono un soldato talebano da quando ne avevo 15».
Nell’appartamento del quartiere residenziale Omid Sabz, a Kabul, entrare nella testa di Abassin è impossibile. «No, non ci possiamo fidare. È un gruppo contro le donne, contro la società intera». Fatima ha 31 anni, ha lavorato per organizzazioni internazionali, seguito progetti per le donne.
«Ne parlo con le amiche e gli amici: che fare? Rimanere? Ha senso farlo?». Nata in Iran, parte della grande diaspora afghana, è tornata nel 2016. È in stallo. Semifinalista per una borsa di studio Fulbright per gli Usa, aspettava l’ultima intervista. «Ma l’accordo vale solo con i governi riconosciuti dal governo Usa». I Talebani non lo sono. Fatima aspetta. «Ci hanno detto: ne riparliamo a dicembre».
Anche la famiglia di Mustapha ha vissuto all’estero, da rifugiata. A Quetta, nel Beluchistan. Sono rientrati nel 2001 in Afghanistan.«Che strada scegliere? Quale opzione preferire? Qualunque arrivi», sostiene questo 27enne, un divorzio e un figlio.
Si è laureato all’American University di Kabul. Obiettivo costante dei Talebani: due docenti, lo statunitense Kevin King, 63 anni, e l’australiano Timothy Weeks, 50, sono stati sequestrati nell’agosto 2016 e liberati nel novembre 2019 in cambio del rilascio di Haji Mali Khan, Hafiz Rashid e Anas Haqqani.
Lo scambio avrebbe dovuto favorire il negoziato. Nell’agosto 2021 i Talebani si sono fatti fotografare all’ingresso dell’università. Gli Haqqani hanno i ministeri.
L’anno zero. Non si gira pagina. Si cambia quaderno. Lingua e vocabolario. Modi e comportamenti. «Ero in auto per arrivare a Darulaman, sono stato fermato. “Sei un dottore, un ingegnere?” mi hanno chiesto. Cercano di capire chi sei, controllano». Mohammed ha lavorato in un ministeri, per un grande gruppo imprenditoriale, poi ha creato la sua compagnia di consulenza. Ora non lavora. Esce poco.
Ha paura. Fa giri larghi per evitare i posti di blocco dei Talebani, a Kabul più presenti che a Mazar. Una parte della popolazione è sotto minaccia. A rischio reale o percepito. Distinguerlo è difficile. Il passato può essere una colpa, una condanna. Lavorato per il governo? Per compagnie, aziende, organizzazioni del vecchio Afghanistan? Un nemico potenziale.
«La cosa che temo di più sono le spie. Nel quartiere, tra vecchi colleghi, tra conoscenti, su Facebook». Anonimato. Una vita da cancellare. Non resta che partire.
Per i Talebani l’Emirato è stabilità. Ma il passaggio di regime porta con sé nuovi conflitti. Politici e identitari: su cosa sia l’Afghanistan, come vada governato, per rappresentare quali gruppi e quali valori. E conflitti materiali: su case e terre innanzitutto. «In molti distretti, a Daykundi, in un paio di distretti di Balkh e altrove, i kuchi pashtun tornano a reclamare proprietà di decenni prima». Con i Talebani al potere, si può fare. »Ci sono famiglie a cui sono stati dati 5 giorni per lasciare la casa di una vita. Alcune sono arrivate a Kabul».
Madhi chiede di vederci in un caffè tranquillo. Anche lui si fa vedere poco in giro. Nell’area che gravita intorno alla rotonda di Pul-e-surkh, a Kabul, la rete di caffè per studenti hazara ben educati è saltata. I gestori all’estero: «Francia, Canada, Germania, Qatar». Chiusi i caffè più conosciuti.
Per Mahdi «i Talebani non sono un gruppo religioso, ma un gruppo tribale». La discriminazione verso gli hazara è sistematica. Parla di «etno-fascismo». Ricorda gli stragisti al potere. L’unica soluzione è uno Stato federalista. O partire.
«Non c’è alternativa ai Talebani. È la migliore soluzione», sostiene convinto Ahmad Wali Akhmadi. Originario di Kandahar, trent’anni circa, studi e viaggi all’estero, buone connessioni, in questi anni si è dato molto da fare: ha fondato una tv privata, aperto un’agenzia di viaggi, lavorato per organizzazioni non governative, gestito progetti con i fondi governativi degli Stati uniti. Il monopolio del potere sta nelle cose, dice, non è esclusiva dei Talebani. «Siamo in Afghanistan. Chi vince prende tutto».
L’egemonia pashtun sta più nella testa degli altri che nella realtà. È una storia vecchia. Il vecchio sistema non poteva comunque più reggere: «Due elezioni con frodi, governi imposti dall’esterno, nessuna sovranità reale». Era «un fake-State. Tutto finto. Dalla democrazia alla società civile. Ecco perché è crollato». Vuole rimanere. «Non temo i Talebani, ma il crollo economico».
«Non ho nessuna intenzione di partire. Sono stato tre anni in Danimarca, dove vive mia sorella. Facevo le pizze, quelle italiane. Poi sono tornato. Non riparto più. Qui ho la mia famiglia, i miei amici», sostiene Amrullah. Lo troviamo sdraiato dietro il bancone del negozio che gestisce nel mercato coperto di Mazar-e-Sharif, il Muttahid. Il migliore in città.
Con Nader Shar gestisce un negozio di hijab: «Prima ne vendevamo 5 a settimana, ora 30. Gli affari vanno bene». Donne e bambini girano tra le clienti, chiedendo qualche spicciolo.
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