L’Afghanistan dietro l’angolo
Enrico Campofreda, 3 luglio 2021
Quanto tempo manca alla caduta del governo Ghani? Sei mesi, due anni? Un conto alla rovescia che appassiona qualche analista cabalista, intento a cercare nei segnali del ritiro statunitense l’Afghanistan che bolle nel pentolone geopolitico. Quanto c’è di conosciuto, mostrato, intuito è sempre utile per talune previsioni. Fra gli occupanti pronti a sloggiare, l’ex super comandante a Kabul, il generale Miller, in una delle ultime conferenze stampa ha riferito che le restanti forze sono sparse fra Kabul e la base aerea di Bagram, il tentacolare rifugio di truppe e contractors diventato il punto d’uscita dal Paese. Il quartier generale Nato è in via di smobilitazione, a guardia dell’ambasciata Usa e dei diplomatici ancora presenti, restano 650 militari. Smobilita pure tanta tecnologia high-tech per le comunicazioni, compresa quella di supporto ai raid aerei contro i talebani per assistere le truppe di terra, e magari massacrare i sanitari di ospedali come accadde durante l’assedio di Kunduz alla struttura di Médecins sans Frontières. E perdonate i retropensieri…
“Mettere in sicurezza la situazione nelle grandi città” – ha affermato Miller. Ma è tanto per dire. In che modo se non sono bastati sette anni sette d’impegno e miliardi di dollari spesi? Da alcuni mesi risultano copiosi i ritiri e gli abbandoni di reparti e ufficiali afghani che vogliono salvare la pelle. Il futuro è ampiamente favorevole agli studenti coranici, come hanno deciso la stessa Casa Bianca e la diplomazia internazionale con gli accordi di Doha. Ghani e il suo governo, snobbati da Washington, odiati dai talebani che li disprezzano come incapaci servitori degli occupanti, penserebbero a rilanciare milizie armate di vecchi e nuovi Signori della guerra. Milizie contro i turbanti. Al pensiero la cittadinanza più anziana rivive lo spettro della guerra civile degli anni Novanta. Sull’ipotesi di attrezzare manipoli Abdullah, l’anti Ghani odiato quanto lui, è stato sibillino, non sapendo nulla dell’impatto bellico su cui gli ennesimi belligeranti potrebbero contare. Per quanto s’è visto negli ultimi tempi i mercenari, d’ogni risma, possono al massimo difendere qualcosa – compound, stazioni, merci, persone in transito – ma il controllo di province è altra cosa. E soprattutto: i guerrieri a pagamento non riescono a contrastare chi è mosso da un piano più ampio, politico, etnico, confessionale.
L’osso duro nel controllo delle strade contro cui i taliban ortodossi hanno dovuto competere, sono gli ex compagni di lotta, i dissidenti del Khorasan, i Tehrik che hanno dato vita alle milizie dell’Isil. Contro cui, comunque, lo scontro è stato indiretto, incentrato sul terrore diffuso a suon di bombe sanguinarie contro la popolazione inerme. Gli studenti coranici hanno continuato a rosicchiare tratti di territorio a un esercito che, come detto, perde pezzi. Ultimo esempio: i distretti settentrionali verso Balkh, Kaldar a loro da sempre ostili, diventano zone ormai controllate dagli uomini di Akhundzada. Il programma di mostrarsi forti anche in aree non pashtun è funzionale alla resa dei conti rivolta ai palazzi del potere di Kabul. Capitale assediata, non solo perché manipoli taliban scorrazzano indisturbati a neppure 60 miglia di distanza, ma perché le stesse arterie d’accesso via terra al di là di quella distanza non vanno da nessuna parte. Da fine giugno la viabilità verso il Tajikistan, l’asse strategico rivolto all’Asia, è roba talebana con la compiacenza di abitanti non pashtun e delle citate defezioni di truppe afghane. Che un meticoloso ufficio propaganda filma e divulga sul web, a totale disonore d’un governo molto più che fantasma.
Il limite talebano si misura se si alzano gli occhi al cielo. Non per pregare Allah. La questione è tecnica: lo spazio aereo gli è stato finora interdetto e nel ritiro statunitense poco e nulla si sa di ciò che accadrà in quella decina di basi unico bottino americano nei vent’anni di guerra. La speranza delle eventuali truppe mercenarie di Ghani d’usufruire della tecnologia americana è legata alla benevolenza della Casa Bianca, che di recente proprio col Biden propugnatore della smobilitazione, ha promesso 40 elicotteri da guerra al governo amico. Ma chi li condurrà? Nei passati scontri avieri afghani non erano all’altezza dei mezzi tecnici di cui disponevano, e comunque per non rischiare i talebani sembra abbiano aperto una caccia a piloti e tecnici locali da eliminare con agguati e imboscate. Questo riferisce l’Intelligence locale, ma forse a un ipotetico governo talebano gli aviatori servono vivi. Tre miliardi e mezzo di dollari l’anno per la sicurezza prima dell’addio, è il regalo promesso dal presidente Usa fino al 2024. Il destinatario può essere un uomo col turbante, e non è detto sia il Ghani di certe comparsate etniche.
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