L’Afghanistan imprigionato tra attendismo e fame
La crisi umanitaria diventa ogni giorno più drammatica. I talebani non sono in grado di governare a causa anche delle loro divisioni interne e di altri gruppi terroristici presenti nel paese. I paesi limitrofi restano in attesa di capire cosa fare. I paesi occidentali che hanno lasciato l’Afghanistan nelle mani dei talebani anche loro attendono nel frattempo gli afghani sono lasciati soli.
L’Indro – 2 dicembre 2021 – di Gabriella Peretto
In Afghanistan il governo dei talebani è sempre più in difficoltà. La crisi umanitaria non fa che diventare di giorno in giorno più drammatica –
l’ONU prevede che più della metà più della metà dei 38 milioni di abitanti dell’Afghanistan rischiano di morire di fame questo inverno-, l’ISIS-K si fa sempre più insidioso, anche perchè la povertà è un fattore che favorisce il reclutamento da parte del gruppo, e la comunità internazionale continua nel suo ‘attendismo‘. Per altro la situazione sociale non fa che implementare la dipendenza storica dei talebani dalla finanza illecita, dal contrabbando e dal clientelismo criminale, poiché il gruppo deve ora gestire un intero Paese e fornire servizi di base, dall’assistenza sanitaria e l’istruzione alla sicurezza e alle forze dell’ordine, a milioni di persone, senza soldi e senza competenze di governo.
Queste reti hanno enormi coinvolgimenti regionali e internazionali, sottolineano gli esperti dell’area.
Ahmed Rashid, scrittore pachistano tra i massimi esperti di Afghanistan, in una intervista a ‘La Stampa‘ ha tra il resto dichiarato: «La crisi umanitaria dilaga e bisogna negoziare per far arrivare gli aiuti prima che monti l’onda profuga, una minaccia per l’Europa e un ulteriore impoverimento per il Paese. Il negoziato non è un riconoscimento politico: urgono medicine, cibo. Gli afgani pagano per quanto i taleban e altri hanno fatto al mondo».
Nei giorni scorsi, mentre l’ennesimo scontro a fuoco tra talebani e miliziani di ISIS-K colpiva Jalalabad -capluogo del Nangarhar, nel sud del Paese-, a Doha, in Qatar, la delegazione talebana ha incontrato i rappresentanti dell’Unione europea, e i talebani hanno chiesto aiuto alla UE per garantire il funzionamento degli aeroporti in Afghanistan. Chiaro esempio della confusione che sta regnando oltre che ai vertici anche e forse soprattutto nelle retrovie, c’è lo scontro a fuoco, il primo dicembre,che si è verificato tra talebani e forze armate iraniane al confine tra Iran e Afghanistan. Tale incidente si tratterebbe di un ‘malinteso’ subito rientrato.
Il 30 novembre, intanto, una notizia apparentemente positiva per i talebani: l’Arabia Saudita ha annunciato la riapertura della sezione consolare nella propria Ambasciata a Kabul. La notizia ha riaperto lo scottante dossier del riconoscimento del governo afgano da parte della comunità internazionale. L’obiettivo perseguito fin dallo stesso 15 agosto scorso dai talebani.
«Diplomaticamente, nessun Paese vuole essere il primo a riconoscere il governo talebano per paura di legittimarlo, e per una buona ragione, dal momento che il gruppo ha ancora molto da dimostrare se vuole essere accettato dalla comunità internazionale. Ma ignorare l’Afghanistan sarebbe un errore catastrofico per due ragioni fondamentali», afferma Harris Samad, vicedirettore del South Asia Center dell’Atlantic Council.
Per quanto riguarda gli aiuti umanitari, la comunità internazionale rimane del tutto scoordinata, i singoli Paesi continuano a lanciare propri programmi di aiuto, senza alcun coordinamento con il resto della comunità di donatori. Più in generale, sottolinea Samad, «la comunità internazionale non riesce a chiarire un quadro più ampio per un impegno a lungo termine basato sui valori con l’Afghanistan e, a sua volta, gli attori internazionali concludono accordi unilaterali con i talebani per servire i propri interessi; la mancanza di coordinamento internazionale senza obiettivi generali e senza definire i valori che dovrebbero dettare un ulteriore impegno,ridurrà la capacità della comunità internazionale di ritenere i talebani responsabili dei propri obblighi ai sensi del diritto internazionale. Per ritenere i talebani responsabili dei propri obblighi ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani, una comunità globale unita deve prima accettare, quindi comunicare, requisiti chiari per il riconoscimento diplomatico».
«L’approccio attuale è miope e, mentre lo Stato islamico-provincia di Khorasan (ISIS-K) continua a minacciare sia l’Afghanistan che i suoi vicini, Washington rischia di tornare a un’agenda antiterrorismo problematicamente ristretta senza alcun piano più ampio per ciò che vuole dall’Afghanistan. Le crisi intersecanti dell’Afghanistan -un imminente collasso economico, la pandemia di COVID-19, un deterioramento della situazione della sicurezza e diffuse reti di finanziamento e contrabbando illecite, solo per citarne alcuni – rappresentano una minaccia immediata per il Paese stesso, la regione più ampia e la comunità internazionale». Questo non vuol dire, precisa Harris Samad, che gli aiuti umanitari coordinati siano usati come una leva -gli aiuti dovrebbero entrare indipendentemente dalla situazione politica- ma piuttosto che «i talebani siano costretti a fare i conti con l’idea che, affinché il loro governo sia ulteriormente integrato nella politica globale, deve assumere impegni chiari e verificabili ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani. Gli aiuti non devono essere politicizzati; il riconoscimento e l’impegno diplomatico, d’altro canto, dovrebbero esserlo.
Ancora più importante, standard chiari e incentrati sulla sicurezza umana per il riconoscimento diplomatico comunicherebbero che coloro che i talebani vedono come potenziali partner internazionali sono allineati su tali valori e che il gruppo deve almeno esplorare queste idee se c’è qualche speranza per un impegno diplomatico con la comunità internazionale. Tuttavia, utilizzare questa leva per ritenere il gruppo responsabile è possibile solo se le parti interessate esterne hanno una visione condivisa di come dovrebbe essere l’impegno politico con l’Afghanistan».
Scott Lucas, docente di politica estera statunitense, prova analizzare la situazione attuale. Poiché i talebani devono ancora stabilire un governo funzionante, anche i loro più grandi sostenitori -come il Pakistan- sono cauti nel riconoscere il governo dei talebani come legittimo. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, non riconosceranno i talebani nel prossimo futuro, ma non cercheranno nemmeno di rimuovere i talebani dal potere come hanno fatto nel 2001. E quando lo hanno fatto allora, non è stato per la situazione interna afgana, ma per la loro guerra al terrore. Quando gli americani sono andati a incontrare i talebani in Qatar, nell’ottobre di quest’anno, probabilmente hanno cercato un accordo per collaborare contro la minaccia comune dello Stato islamico-provincia di Khorasan. Anche se i talebani si sono rifiutati di impegnarsi pubblicamente in questo senso, dietro le quinte ci sarebbero stati cenni del capo e strizzatine d’occhio. Non per niente, i talebani hanno rilasciato una dichiarazione pubblica (e lo hanno fatto molto rapidamente) in cui hanno accolto con favore l’impegno degli Stati Uniti per un aiuto umanitario limitato. In breve, se i talebani affronteranno la minaccia terroristica, non saranno troppo aggressivi in termini di politica estera e non si avvicineranno troppo a Russia e Cina, gli americani li tratteranno come il gruppo al potere. Ma il popolo afghano sembra essere sacrificabile in questo, così come i diritti delle donne, i diritti delle comunità LGBTQ e i diritti inerenti all’istruzione, all’assistenza sanitaria e alla partecipazione politica. L’Amministrazione Biden è, in parte, responsabile di questo. A parole sostiene i diritti umani, ma di fatto li ha relegati. Quando Joe Biden decise che le forze statunitensi dovevano ritirarsi dall’Afghanistan nell’aprile 2021, l’impegno degli Stati Uniti nei confronti del popolo afghano è terminato».
Kambaiz Rafi, ricercatore di economia politica si chiede se c’è un modo per l’Occidente di offrire sostegno umanitario agli afghani senza riconoscere ufficialmente i talebani. «Credo che ci sia, dopo tutto, tra il 2002 e il 2021 gran parte degli aiuti all’Afghanistan non sono passati attraverso la macchina statale afghana. Prima della conquista del Paese da parte dei talebani, la sanità e l’istruzione, come molti altri servizi statali, erano ampiamente sovvenzionati dall’assistenza internazionale. Questo potrebbe essere riproposto su scala ridotta. Ma dubito fortemente che lo stesso ammontare di finanziamenti affluirà in Afghanistan.
Ci sono certamente potenziali rischi nel riconoscere i talebani. Farlo in questo momento, mentre l’elemento ideologicamente fanatico è ancora molto dominante nel gruppo, potrebbe contribuire a rafforzare la concezione che i talebani hanno di se stessi come leader di qualche missione messianica nella regione».
L’insidia nel riconoscimento Rafi la delinea dal punto di vista culturale. «Per riferirsi al loro leader, Hibatullah Akhunzadah, usano ancora il titolo ‘Amir-ul Momenin’, che significa ‘capo dei fedeli’ -titolo rivendicato anche dal leader dello Stato Islamico Abu Bakr Al-Baghdadi. Il significato implicito è che ‘l’Emirato islamico dell’Afghanistan’ è solo una parte della totalità della popolazione musulmana e il leader talebano è, in effetti, il leader di tutti i musulmani. Anche se i talebani non sostengono apertamente la jihad globale -un termine che può indicare una lotta interna o armata, o lo sforzo necessario per costruire una buona società musulmana-, tuttavia conducono le loro comunicazioni in un modo che placa i jihadisti globali. Hanno anche stretti legami con al-Qaeda e altri movimenti jihadisti globali che non riconoscono i confini dei giorni nostri e si sforzano di stabilire un dominio per le popolazioni musulmane sulla terra chiamato Califfato. Finora i talebani non sono stati del tutto onesti nei loro rapporti sia con gli Stati Uniti che con l’ex governo afghano: concedere il riconoscimento a un gruppo come questo, a cosa potrebbe portare? Dato che il Pakistan, una potenza nucleare, è proprio accanto, i rischi per la sicurezza di un’ambizione jihadista sfrenata potrebbero rapidamente sfuggire al controllo».
I timori di legittimare i talebani non sono infondati, afferma Harris Samad, «e affrettarsi a riconoscere il gruppo sarebbe sconsigliabile. Detto questo, la resistenza globale al riconoscimento diplomatico dei talebani deve essere una decisione intenzionale e coordinata dalla comunità internazionale piuttosto che un prodotto dell’inazione. La prospettiva del riconoscimento diplomatico dovrebbe quindi essere utilizzata come leva per ritenere i talebani responsabili, sebbene ciò non possa influire sull’afflusso di aiuti di emergenza di cui il paese ha gravemente bisogno. Le ramificazioni di un collasso economico o umanitario in Afghanistan,per non parlare di una guerra civile, andrebbero ben oltre i suoi confini, con un impatto minimo sui quasi due miliardi di persone nell’Asia meridionale».
A questo punto bisogna capire che cosa c’è da aspettarsi in questa situazione ‘attendista‘
Secondo Scott Lucas, «la parola d’ordine in questo momento è cautela. Ci sono Paesi che beneficiano dell’autorità dei talebani. Penso che il Pakistan sia un beneficiario, visti i legami che ha avuto con i talebani. E così è la Cina a lungo termine: se l’Afghanistan fosse stabile, potrebbe entrare a far della Belt and Road Initiative, un importante progetto economico e politico per Pechino. La Russia ne beneficia almeno perché pensano che agli Stati Uniti sia stato fatto un occhio nero. Lo stesso vale per l’Iran. Ma tutti stanno giocando un po’ ad aspettare e vedere, soprattutto mentre prevale la crisi economica».
Kambaiz Rafi, prospetta due scenari. «Uno è quello che io chiamo l‘approccio ‘inclusività basato sul Qatar‘, guidato dall’attuale vice primo ministro afghano, il Mullah Abdul Ghani Baradar. Questo è un prodotto dell’ala diplomatica dei talebani che ha condotto i negoziati con gli Stati Uniti che hanno portato all’accordo di Doha del febbraio 2020. Questa ala sembra essere meno estremista e più suscettibile di concessioni politiche. Ha promesso di formare un governo inclusivo in cambio del riconoscimento internazionale e dell’assistenza umanitaria. L’altro scenario, più pessimista, è uno più estremista, radicato nella capitale spirituale originaria del gruppo, Kandahar. Dopo aver sconfitto gli Stati Uniti, la più grande forza crociata nella mente dei talebani, i partecipanti più intransigenti del gruppo potrebbero pensare di poter assicurare la vittoria totale contro i restanti oppositori interni al loro governo. Ma quest’ultimo approccio confonde l’insurrezione con il governo. Ora i talebani sono gli agenti di polizia. Sono loro i responsabili del compito molto più difficile di stabilire l’ordine. Sono il bersaglio di gruppi che potrebbero voler interrompere il loro governo. Penso che, per lo più, i talebani non comprendano appieno la differenza significativa tra l’essere un gruppo di insorti e l’essere un governo in Afghanistan -un Paese che è altamente stratificato in termini di etnia, appartenenza tribale e geografia politica. Un paese letteralmente tagliato in due da un’immensa catena montuosa. Se i talebani perseguono una linea più estremista, potrebbero non essere in grado di far fronte, ad esempio, al graduale esaurimento delle risorse attuali, come il degrado delle armi e il deterioramento dei veicoli. Entro un anno o due, potremmo vedere altri gruppi militanti, tra cui il Fronte di resistenza nazionale, un’alleanza militare di ex membri dell’Alleanza del Nord e altri combattenti anti-talebani, e la provincia dello Stato islamico del Khorasan, approfittare della posizione più debole dei talebani.
Nel frattempo, non sarebbe troppo inverosimile pensare che i Paesi vicini e le potenze regionali potrebbero a un certo punto iniziare a sostenere i gruppi anti-talebani con denaro e armi, se lo ritengono strategicamente importante. Ad esempio, la Russia potrebbe prendere in considerazione l’idea di aiutare il Fronte di resistenza nazionale, se preoccupata per una ricaduta dell’estremismo dall’Afghanistan al Tagikistan, all’Uzbekistan e ad altri Paesi dall’altra parte del fiume Amu».
A quel punto, non solo non si porrà più il problema del riconoscimento, soprattutto il popolo afgano sarà già ‘svanito‘, o, per dirla con Ahmed Rashid, «L’Afghanistan è geostrategico, non svanirà dai radar. Svaniscono però gli afghani».
Lascia un commento