Negin Khpalwak, prima direttrice d’orchestra dell’Afghanistan, è riuscita a lasciare il Paese. «Ma i talebani spegneranno la musica»
Nata nel 1997, era diventata la prima bacchetta afghana sfidando le minacce di morte degli zii
Viviana Mazza, Corriere della Sera, 24 agosto 2021
«Ci aspettiamo che i talebani spengano la musica. Non hanno annunciato nulla ufficialmente, ma hanno già cancellato tutti i programmi di intrattenimento dalle tv e dalle radio. L’unica musica rimasta è la sigla dei notiziari». Ahmad Sarmast, il direttore dell’Istituto nazionale di musica dell’Afghanistan, parla al telefono da Melbourne, in Australia, dove si era recato per motivi medici all’inizio dell’estate: spiega che non si aspettava una resa così rapida di Kabul ai talebani. Quando i talebani presero il potere nel 1996 gli strumenti musicali vennero dati alle fiamme. Ma anche dopo la loro cacciata nel 2001 c’era tanta gente che continuava a considerare la musica una cosa immorale.
L’Istituto fondato da Sarmast nel 2010, con i suoi 400 insegnanti, studenti e studentesse, divenne famoso in tutto il mondo grazie all’orchestra femminile Zohra, che suonò anche di fronte a duemila leader mondiali al forum economico di Davos, in Svizzera. Con i loro sitar, rubab, pianoforte, violini, oboe le musiciste alternavano canzoni afghane come Arghavan, che prende il nome dai fiori rosa intenso dell’albero di Giuda, a brani occidentali come la Nona Sinfonia di Beethoven. Con i vestiti dai ricami colorati e i capelli coperti da un velo nero, verde e rosso, i colori della patria, quelle ragazze erano l’esempio di un dialogo possibile tra culture. Tre giorni fa Negin Khpalwak, che grazie a Zohra era diventata la prima direttrice d’orchestra dell’Afghanistan, è stata evacuata da Kabul.
La prima volta che Negin, nata nel 1997, sentì il suono della musica fu a tre anni, nel villaggio di Shinegar, venti case incastonate fra tre montagne nella provincia afghana di Kunar. Non c’era la tv, né la radio. Ma suo padre Ajmal e il cugino possedevano un sitar, e ogni tanto suonavano quello strumento a corda dal lungo collo. Si accompagnavano usando come percussioni delle bottiglie d’acqua, e il suono era così dolce e allegro che la piccola Negin danzava di gioia intorno a loro. Ma il padre di Negin suonava solo con pochi amici, perché la sua famiglia non l’avrebbe accettato; e aveva imparato anche l’inglese ascoltando cassette e cd, il che gli permise di lavorare come interprete per i soldati americani.
Non c’erano scuole a Shinegar, solo una moschea dove si imparava il Corano, e a leggere e scrivere in lingua pashto. Dopo averla frequentata per due anni, le bambine restavano a casa, in attesa di essere date in spose, perché le donne, come si dice da quelle parti, possono lasciare la loro casa solo in un’occasione: quando è tempo di avvolgerle nel telo funerario. Ma il padre portò Negin a Kabul per studiare. Al resto della famiglia, non dispiacque: poteva diventare medico e curare le donne nel villaggio, molte morivano giovani e ce n’era bisogno.
Quando Negin aveva 13 anni, conobbe un’insegnante di pianoforte italiana che lavorava all’Istituto di musica. Per la ragazza fu una folgorazione e l’inizio di una carriera. Ma per la sua famiglia era inaccettabile: gli zii giurarono che l’avrebbero uccisa. Ci vollero sei anni perché, dopo averla vista in tv, capissero che non c’era niente di male e la accettassero. Non è stato facile in questi anni. Nel 2014 Sarmast è sopravvissuto per miracolo ad un attentato: durante un’esibizione dell’orchestra sinfonica al centro culturale francese di Kabul, un diciassettenne si fece esplodere tra il pubblico. Lui, come Negin, aveva creduto nel potere della musica. «Ora l’Istituto è chiuso — spiega —. Il personale straniero era già partito dopo l’annuncio del ritiro americano lo scorso aprile».
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