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“Ora ho uno scopo”: perché sempre più donne curde scelgono di combattere

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Le file delle milizie femminili in Siria si sono nuovamente ingrossate negli ultimi anni con molte donne che hanno risposto alla chiamata alle armi nonostante i rischi

Elizabeth Flock – Rete Jin  – 8 settembre 2021 

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Il 4 settembre abbiamo appreso dal Rojava Information Center che Zeynab Serekaniye, 27 anni, combattente delle YPJ, è caduta martire l’1 settembre a Tel Tamir in seguito a un attacco turco. Qualche mese fa era stata intervistata per un reportage pubblicato su The Guardian, che abbiamo deciso di tradurre in sua memoria.

Zeynab Serekaniye, una donna curda con un ampio sorriso e un’aria mite, non aveva mai immaginato di unirsi alla milizia.

La ventiseienne è cresciuta a Ras al-Ayn, una città nel nord-est della Siria. L’unica figlia femmina in una famiglia di cinque figli, le piaceva fare la lotta e indossare vestiti da maschio. Ma quando i suoi fratelli hanno iniziato a frequentare la scuola e lei no, Serekaniye non ha messo in discussione la decisione. Sapeva che questa era la realtà per le ragazze nella regione. Ras al-Ayn, nome arabo che significa “sorgente”, era un luogo verdeggiante e placido, perciò Serekaniye si è adeguata a passare la vita coltivando vegetali con sua madre.

Questo è cambiato il 9 ottobre 2019, giorni dopo l’annuncio del precedente presidente degli USA Donald Trump di ritirare le truppe USA dal nord-est della Siria, dove da anni si erano alleate con le forze a guida curda. Una Turchia nuovamente in forze, che vede i curdi senza Stato come una minaccia esistenziale, e contro cui i suoi gruppi affiliati sono stati in guerra per decenni, ha immediatamente lanciato un’offensiva sulle città del confine amministrate dalla forze curde in Siria del nord-est, inclusa Ras al-Ayn. 

Poco dopo le 16 quel giorno, Serekaniye racconta, le bombe hanno iniziato a cadere, seguite dal sordo tira e molla dei colpi di mortaio. In serata, Serekaniye e la sua famiglia sono scappati verso il deserto, da dove hanno guardato la loro città andare in fumo. “Non ci siamo portati niente” ha detto. “Avevamo un’auto piccola, perciò come avremmo potuto portare le nostre cose e lasciare le persone?” Mentre fuggivano, ha visto dei cadaveri per strada. Ha presto scoperto che tra di essi c’erano uno zio e un cugino. La loro casa si è trasformata in macerie.

Dopo che la famiglia di Serekaniye è stata costretta a trasferirsi più a sud, ha sorpreso sua madre verso la fine del 2020 dicendo che voleva unirsi alle Unità di Protezione delle Donne (YPJ). La milizia femminile a guida curda è stata fondata nel 2013 poco dopo la sua controparte maschile, le Unità di Protezione del Popolo (YPG), con l’intento di difendere il territorio da numerosi gruppi, tra cui lo Stato Islamico (ISIS).

La madre di Serekaniye si oppose alla sua decisione, perché due dei suoi fratelli stavano già rischiando la vita nelle YPG.

Ma Serekaniye fu inamovibile. “Siamo stati spinti fuori dalla nostra terra, perciò ora dobbiamo andare e difenderla” dice. “Prima, non la pensavo così. Ma ora ho uno scopo – e un obiettivo.”

Serekaniye è una delle circa 1000 donne in tutta la Siria che si sono unite alla milizia nel corso di questi ultimi due anni. Molte si sono unite per rabbia, a causa delle incursioni della Turchia, ma hanno deciso di restare. 

“Nelle discussioni [crescendo], era sempre ‘se succede qualcosa, un uomo la risolverà, non una donna’”, dice Serekaniye. “Ora le donne possono combattere e proteggere la società. Questo mi piace.”

Secondo le YPG, un’impennata nel reclutamento è anche stata dovuta all’aumento negli scorsi anni dei respingimenti e della consapevolezza dell’iniquità e della violenza di genere radicata. Nel 2019 la curda Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est ha approvato una serie di leggi per proteggere le donne, mettendo al bando la poligamia, i matrimoni con minori, i matrimoni forzati e i cosiddetti delitti “d’onore”, anche se molte di queste pratiche continuano. Circa un terzo degli ufficiali Asayish, i “servizi di sicurezza” curdi, nella regione sono attualmente donne ed è richiesto il 40% di presenza femminile nel governo autonomo. Un villaggio di sole donne, dove le residenti possono vivere libere dalla violenza, è stato costruito, poi evacuato a causa dei bombardamenti nelle vicinanze, e nuovamente ristabilito. 

Eppure le prove della violenza diffusa che le donne continuano ad affrontare sono abbondanti alla Mala Jin locale, o “casa delle donne”, che fornisce un rifugio e anche una forma di mediazione locale per le donne che ne hanno necessità in tutta la Siria. Dal 2014, sono state aperte 69 di queste case, con il personale che aiuta qualsiasi donna o uomo che arrivi con problemi che sta affrontando, incluse questioni di violenza domestica, molestie sessuali e stupro e i cosiddetti crimini “d’onore”, spesso collaborando con le corti di giustizia locali e le unità femminili dei “servizi di sicurezza” Asayish per risolvere i casi. 

In un giorno soleggiato di maggio, arrivano al centro Mala Jin nella città nord-orientale di Qamishli in rapida successione tre donne scosse. La prima donna, che indossa una pesante abaya verde, racconta al personale che suo marito non è praticamente tornato a casa da quando lei ha partorito. La seconda donna arriva con il marito al seguito, chiedendo il divorzio; la sua lunga coda di capelli e le sue mani tremano mentre descrive come lui una volta l’abbia picchiata finché le ha provocato un aborto. 

La terza donna si trascina pallida e con il vestito slacciato, con cenci avvolti intorno alle mani. La sua pelle è scorticata e nera a causa di bruciature che coprono parte del suo viso e del corpo. La donna descrive al personale come suo marito l’abbia picchiata per anni, minacciandola di uccidere un membro della sua famiglia se l’avesse lasciato. Dopo che un giorno le aveva versato addosso della paraffina, dice, lei è fuggita da casa; lui poi ha assunto degli uomini per uccidere suo fratello. Dopo l’uccisione del fratello, lei si è data fuoco. “Mi ero stancata”, ha detto. 

Il personale della Mala Jin, tutte donne, fanno versi di disapprovazione mentre parla. Scrivono con attenzione i dettagli del suo racconto, le dicono che hanno bisogno di fare fotografie e le spiegano di voler mandare i documenti alla corte di giustizia per assicurare l’arresto del marito. La donna annuisce, poi si stende su un divano esausta.

Behia Murad, la direttrice della Mala Jin di Qamishli, una donna più anziana con occhi gentili che indossa un hijab rosa, dice che i centri della Mala Jin hanno gestito migliaia di casi da quando hanno iniziato e, nonostante sia uomini che donne arrivino con rimostranze, “la donna è sempre la vittima”.

Un numero crescente di donne visita i centri della Mala Jin. Il personale dice che questo non è indice di maggiore violenza contro le donne nella regione, ma che più donne stanno pretendendo uguaglianza e giustizia. 

Le YPJ sono assai consapevoli di questo cambiamento e del suo potenziale come strumento di reclutamento. “Il nostro obiettivo non è soltanto quello di farle imbracciare un’arma, ma di essere consapevole”, dice Newroz Ahmed, comandante generale delle YPJ.

Per Serekaniye non è stato soltanto il dover combattere, ma anche lo stile di vita che le YPJ sembravano offrire. Invece di lavorare nei campi o sposarsi e avere figli, le donne che si uniscono alle YPJ parlano di diritti delle donne mentre si allenano a usare un lanciarazzi. Sono scoraggiate, anche se non hanno il divieto, dall’usare i telefoni o uscire con uomini e viene loro insegnato che la sorellanza [hevalti] con altre donne è ora il centro della loro vita quotidiana.

La comandante Ahmed, dalla voce dolce ma con uno sguardo penetrante, stima che la dimensione attuale della milizia femminile sia di circa 5000. Si tratta della stessa dimensione che le YPJ avevano al picco della battaglia contro l’ISIS nel 2014 (anche se i media hanno precedentemente riportato un numero gonfiato). Se la continua forza delle YPJ è di una qualche indicazione, dice, l’esperimento guidato dai curdi sta ancora fiorendo. 

Il numero rimane alto nonostante il fatto che le YPJ abbiano perso centinaia, se non più, di membri nella battaglia e non accettino più donne sposate (la pressione di combattere e mantenere una famiglia è troppo intensa, dice Ahmed). Le YPJ dichiarano inoltre di non accettare più donne sotto i 18 anni, dopo l’intensa pressione dell’ONU e di gruppi per i diritti umani affinché mettessero fine all’utilizzo di bambine-soldato; anche se molte delle donne che ho incontrato si sono unite da minorenni, ma ormai anni fa. 

Guidando attraverso la Siria del nord-est, non ci si meraviglia che così tante donne continuino a unirsi, data l’ubiquità delle immagini di sorridenti donne shahid [termine arabo, in curdo şehid, ndt] o martiri. Donne combattenti cadute vengono ricordate su cartelloni colorati o con statue che svettano orgogliosamente dalle rotonde. Enormi cimiteri sono pieni di shahid, piante rigogliose e rose che crescono dalle loro tombe. 

Lo scontro con la Turchia è una ragione per mantenere le YPJ, dice Ahmed, che parla dalla base militare di al-Hasakah, il governatorato del nord-est in cui le truppe USA sono tornate dopo che Joe Biden è stato eletto. Afferma che l’uguaglianza di genere è l’altra. “Continuiamo e vedere molte infrazioni [della legge] e violazioni contro le donne nella regione” dice. “Stiamo ancora combattendo la battaglia contro la mentalità ed è persino più dura di quella militare.”

Tel Tamr, la base delle YPJ in cui Serekaniye è collocata, è una città storicamente cristiana e in qualche modo sonnolenta. I beduini pascolano le pecore nei campi, i bambini camminano a braccetto tra le vie del villaggio e il lento accumularsi di tempeste di polvere è un evento regolare nel pomeriggio. Eppure, gli interessi curdi, USA e russi sono tutti presenti qui. Sosin Birhat, la comandante di Serekaniye, dice che prima del 2019 la base YPJ di Tel Tamr era piccola; ora, con sempre più donne che si uniscono, la descrive come un intero reggimento. 

La base è un edificio di cemento beige a un piano, una volta occupato dal regime siriano. Le donne coltivano fiori e verdure nel terreno accidentato sul retro. Non hanno campo per i telefoni o energia elettrica per usare il ventilatore, anche nel caldo afoso, perciò passano il tempo nei loro giorni liberi, lontane dal fronte, facendo battaglie con l’acqua, fumando e bevendo caffè zuccherato e tè. 

Vita quotidiana di Zeynab Serekaniye a Tel Tamr.

Eppure la battaglia è sempre nelle loro menti. Viyan Rojava, una combattente più esperta di Serekaniye, parla di riprendersi Afrin. Nel marzo 2018, la Turchia, con l’Esercito Siriano Libero ribelle che spalleggia, ha lanciato l’operazione “Ramoscello d’ulivo” (Olive Branch) per prendersi il distretto nord-orientale, amato per i suoi campi di ulivi. 

Dall’occupazione turca di Afrin, decine di migliaia di persone sono state sfollate – la famiglia di Rojava tra loro – e più di 135 donne rimangono disperse, secondo i report dei media e dei gruppi per i diritti umani. “Se queste persone vengono qui, faranno lo stesso a noi” dice Rojava, mentre altre combattenti annuiscono in assenso. “Non lo accetteremo, perciò imbracceremo le armi e ci opporremo.”

Serekaniye ascolta con attenzione mentre Rojava parla. Nei cinque mesi da quando si è unita alle YPJ, Serekaniye si è trasformata. Durante la formazione militare a gennaio si è rotta una gamba cercando di scalare un muro; ora riesce facilmente a maneggiare il suo fucile. 

Mentre Rojava parla, il walkie-talkie accanto a lei gracchia. Le donne alla base vengono chiamate al fronte, non lontano da Ras al-Ayn. Non c’è molto combattimento attivo in questi giorni, ma mantengono le loro posizioni in caso di un attacco a sorpresa. Serekaniye indossa il suo giubbotto, prende il suo kalashnikov e una cintura di proiettili. Poi entra in un SUV diretto a nord e si allontana velocemente.

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