Afghanistan, dal gelo di Kabul a quello di Oslo
Enrico Campofreda dal suo Blog 31 gennaio 2022
Norvegia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e poi Russia, Iran, Qatar, Cina, Pakistan. Nei giorni scorsi la delegazione talebana guidata dal ministro degli Esteri Muttaqi, condotta su un aereo norvegese sino a Oslo, ha discusso con tutti i rappresentanti d’un pezzo di mondo interessato alla crisi umanitaria prima che socio-politica dell’Afghanistan.
Alle parole spese bisognerà vedere se seguiranno fatti perché, come in altri colloqui e su altri tavoli, ciascuno avanza propri interessi primari. Che sono: per l’Emirato di Kabul lo scongelamento dei fondi bloccati nei mesi scorsi dagli Stati Uniti; per le delegazioni occidentali garanzie di sicurezza interna nel controllo del territorio da insediamenti terroristici e diritti civili per le donne; per le delegazioni orientali ancora sicurezza rispetto alle formazioni terroristiche che possono trovar riparo sul terreno afghano e insidiare con cellule armate alcune nazioni. Ciascuno avanza suoi intenti, solo i delegati Onu e di certe Ong attive nel Paese, hanno richiamato l’attuale emergenza primaria: la carenza di forniture alimentari in un inverno durissimo, seguìto a due stagioni di siccità spaventosa che ha azzerato la produzione agricola interna, già sotto dimensionata per i conflitti locali. Ma c’è chi ricorda che i taliban, ora vestiti con le mimetiche dell’imploso esercito di Kabul, operano vendette, in questi mesi hanno fatto fuori un centinaio di ex militari fedeli a Ghani nonostante avessero promesso un’amnistia. Hanno compiuto una cinquantina d’esecuzioni a sangue freddo di miliziani, o sospetti tali, dell’Isis Khorasan privandoli di processo; hanno effettuato esecuzioni capitali per impiccagione di persone accusate di furto. Hanno chiuso scuole femminili, sebbene il portavoce governativo Zabihullah dichiari che dal prossimo febbraio verranno riaperte. E ancora: restrizioni al lavoro femminile e alla stessa circolazione per via senza un uomo di famiglia, oltre alle bastonature di manifestanti e dei sempre odiati giornalisti.
Alcune esponenti afghane ammesse agli incontri norvegesi ribadiscono come la sostanza talebana non sia cambiata, osservatori ne notano l’accresciuta diplomazia e la disponibilità al dialogo, seppure quest’ultima sia legata alla prima che mira a trovare alleanze evitando l’isolamento internazionale. Anche perché alla diffusa ostilità di una parte della popolazione, soprattutto dei centri urbani, che non tollera il reiterato fondamentalismo, s’aggiunge la concorrenza politico-militare dei dissidenti che da anni si propongono con la sigla dello Stato Islamico, insidiandone la supremazia nelle aree rurali e mettendo a nudo la presunta capacità talib di controllare ogni angolo del Paese. Non è stato così durante il tragico quinquennio dei reiterati attentati che dal 2016 hanno tracciato lunghissime strisce di sangue un po’ ovunque. Al Gotha talebano – che col premier Akhund, Sirajuddin Haqqani ministro dell’Interno, Yaqoob della Difesa – s’è spartito il potere incentrato sulla forza, mancano le forze tecniche per condurre economia e amministrazione. Si tratta di due settori resi spettrali dal ventennio dell’occupazione Nato e dai governi fantoccio che ne hanno accondisceso il conseguente vuoto di orizzonti, ma questo non salva i turbanti dal ruolo assunto, anzi ne complica la prassi come dimostrano i sei mesi finora trascorsi. Condurre a una sorta di normalità una popolazione abituata a vivere di promesse e sussidi, resa succube da intenti di dominio interno ed esterno dovrebbe prevedere una rifondazione cui il clan talebano e i vecchi clan che nuovamente si ripropongono, è di questi giorni l’autocandidatura dello spolpatore Karzai, non possono né vogliono praticare. Tacendo i progetti degli stessi interlocutori del tavolo di Oslo, in gran parte interessati solo alla propria agenda.
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