Imprenditori, uomini d’affari, contractor: chi ha vinto davvero la guerra in Afghanistan
Open, 1 gennaio 2022
Un’inchiesta del Wall Street Journal parla di una spesa di 14 trilioni di dollari da parte del Pentagono. Molti finiti nelle tasche di produttori di armi e appaltatori. Il caso degli interpreti
L’Afghanistan, si sa, è stata la notizia dell’anno di esteri del 2021. Da agosto a oggi, è tempo per gli Stati Uniti di bilanci. Di capire cosa è rimasto della loro ventennale presenza nel paese degli aquiloni, ma soprattutto della loro ritirata ad agosto scorso. Ritirata che ha lasciato spazio ai talebani e che oggi vede in Afghanistan non solo la sospensione dei diritti umani con particolare accanimento su quelli delle donne, che però lottano ancora, ma anche una crisi economica e umanitaria feroce, un vero e proprio baratro. Nel frattempo un’inchiesta del Wall Street Journal racconta chi sono i veri vincitori che hanno beneficiato dei soldi del governo Usa: produttori di armi, imprenditori, uomini d’affari, appaltatori.
I vincitori
Il WSJ racconta la storia di una piccola impresa avviata da due guardie nazionali dell’esercito dell’Ohio diventata uno dei principali appaltatori dell’esercito, raccogliendo quasi 4 miliardi di dollari in contratti federali. Quella della dipendenza dagli appaltatori sul campo di battaglia e come ciò si aggiunga ai costi della guerra è, si nota da più parti, una lezione che gli Usa dovrebbero imparare dall’Afghanistan. A cominciare dall’11 settembre 2001, scrive il quotidiano, l’esternalizzazione militare ha contribuito a far salire la spesa del Pentagono a 14 trilioni di dollari, creando opportunità di profitto mentre le guerre in Afghanistan e in Iraq diventavano sempre più gravi.
Ebbene la metà di quella cifra (il range è tra il 30 e il 50%) sarebbe andata agli appaltatori, con cinque società della difesa – Lockheed Martin Corp., Boeing Co., General Dynamics Corp., Raytheon Technologies Corp. e Northrop Grumman Corp. – che hanno portato a casa 2,1 trilioni di dollari per armi, forniture e altri servizi. A dirlo è il Costs of War Project della Brown University, portato avanti da un gruppo di studiosi ed esperti legali che mira ad attirare l’attenzione su quello che definisce l’impatto nascosto dell’esercito americano. E poi c’è la miriade di aziende più piccole che pure ha guadagnato miliardi di dollari tra formazione di agenti di polizia afghani, costruzione di strade, creazione di scuole e sicurezza dei diplomatici occidentali.
La politica
Negli ultimi due decenni, nota il Wall Street Journal, sia le amministrazioni repubblicane che quelle democratiche hanno visto nell’uso di appaltatori un modo per mantenere basso il numero delle truppe e delle vittime tra il personale in servizio, spiegano alcuni funzionari di oggi e di ieri. Quando si combatte una guerra con un esercito di soli volontari più piccolo rispetto ai conflitti passati e senza una leva, «devi affidare così tanto ad appaltatori per svolgere le tue operazioni», spiega Christopher Miller, impiegato in Afghanistan nel 2005 come berretto verde e poi segretario alla Difesa ad interim negli ultimi mesi dell’amministrazione Trump. Le ingenti somme di denaro spese per lo sforzo bellico e per la ricostruzione dell’Afghanistan dopo anni di conflitto hanno messo a dura prova la capacità del governo degli Stati Uniti di controllare gli appaltatori e garantire che il denaro fosse speso come pianificato, si legge ancora sul Wall Street Journal. L’ispettorato generale statunitense per la ricostruzione dell’Afghanistan, creato per monitorare i quasi 150 miliardi di dollari di spesa per la ricostruzione del Paese, ha catalogato in centinaia di rapporti lo spreco e, a volte, le frodi.
I soldi
Un sondaggio pubblicato dall’ufficio all’inizio del 2021 ha rilevato che, dei 7,8 miliardi di dollari dei progetti esaminati, solo 1,2 miliardi, quindi il 15%, sono stati spesi come previsto per nuove strade, ospedali, ponti e fabbriche. Almeno 2,4 miliardi di dollari, secondo il rapporto, sono stati spesi per aerei militari, uffici di polizia, programmi agricoli e altri progetti di sviluppo che sono stati poi abbandonati, distrutti o utilizzati per altri scopi. Un esempio? Il Pentagono ha speso 6 milioni di dollari per un progetto che ha importato nove capre italiane per incrementare il mercato del cashmere in Afghanistan. Il progetto non ha mai raggiunto la soglia stabilito. E ancora: l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale ha donato 270 milioni di dollari a una società per la costruzione di 1.200 miglia di strada sterrata in Afghanistan. L’Agenzia ha dichiarato di aver annullato il progetto dopo che la società ha costruito 100 miglia di strada in tre anni di lavoro con la morte di oltre 125 persone negli attacchi dei ribelli.
Le risorse
L’uso degli appaltatori militari, sempre esistito, ha avuto particolare fortuna negli anni ’90, nel periodo della Guerra del Golfo. Quindi la decisione dopo l’11 settembre di perseguire una guerra globale al terrore ha trovato il Pentagono a corto di personale, dopo il ridimensionamento dell’esercito americano dopo la Guerra Fredda. Nel 2008, gli Stati Uniti avevano 187.900 soldati in Afghanistan e Iraq, al picco del dispiegamento delle truppe in quei paesi, e 203.660 dipendenti. Quando il presidente Barack Obama ha ordinato alla maggior parte delle truppe statunitensi di lasciare l’Afghanistan alla fine del suo secondo mandato, nel paese, si legge sul WSJ, c’erano più di 26.000 appaltatori e nemmeno 10mila soldati. Quattro anni dopo, in era Donald Trump, gli appaltatori erano 18.000 e i soldati 2.500.
La direzione sembra sempre la stessa, «indipendentemente dal fatto che ci sia un democratico o un repubblicano alla Casa Bianca», dice Heidi Peltier, responsabile del programma presso il Costs of War Project. E la dipendenza dagli appaltatori ha portato all’aumento della «economia mimetica», in cui il governo degli Stati Uniti camuffa i costi della guerra. Costi che potrebbero non piacere all’opinione pubblica. E più di 3.500 appaltatori statunitensi sono morti in Afghanistan e Iraq, secondo le statistiche del Dipartimento del Lavoro. Numeri che non fotografano interamente il quadro. E più di 7mila membri del servizio americano sono morti durante due decenni di guerra.
Il caso degli interpreti afghani
Soldi, soldi, soldi. Ma non per gli afghani. Sembra essere il caso del Mission Essential Group, società con sede in Ohio cresciuta fino a diventare il principale fornitore dell’esercito di interpreti di zone di guerra in Afghanistan. Nasce nel 2003 quando due guardie nazionali dell’esercito, Chad Monnin e Greg Miller, notano la scarsa qualità degli interpreti utilizzati dai militari e si mettono in testa di fare di meglio. Nel 2007 vince un contratto quinquennale da 300 milioni di dollari per fornire all’esercito interpreti e consulenti culturali in Afghanistan. L’azienda cresce rapidamente. Monnin, che secondo il racconto degli ex dipendenti di Mission Essential era famoso per dormire nella sua auto per risparmiare sulle camere d’albergo, si trasferisce in una casa di 6.400 piedi quadrati da 1,3 milioni di dollari vicino a un campo da golf di un country club. E compra una Ferrari degli anni ’70.
Ma mentre gli interpreti erano ben pagati quando i contratti erano regolari, raccontano ancora gli ex dipendenti di Mission Essential, la paga per gli afghani diminuisce man mano che l’attività si contrae. Quando la missione militare in Afghanistan inizia a ridimensionarsi nel 2012, Mission Essential racconta di pressioni per ridurre i costi e di aver rinegoziato i contratti con i linguisti afgani riducendo la retribuzione mensile media di circa il 20-25%. Il reddito medio mensile dei linguisti afgani è sceso da circa 750 dollari nel 2012 a 500 quest’anno, spiega la società. «Stavano prendendo miliardi dal governo degli Stati Uniti», affonda Anees Khalil, un linguista afghano-americano che ha lavorato per un subappaltatore di Mission Essential per diversi mesi.
«Il modo in cui trattavano i linguisti era davvero disumano». Lui e altri ex dipendenti hanno affermato che alcuni linguisti afgani che lavorano a fianco dei soldati statunitensi nelle parti più difficili del paese sono stati pagati fino a 300 dollari al mese. La società ha affermato di non avere documenti che lo provino. Anzi, afferma che i suoi interpreti sono stati «molto ben pagati rispetto ai redditi medi del mercato» e che l’azienda ha fatto di tutto per aiutare i suoi dipendenti in Afghanistan a sfuggire al dominio dei talebani.
Le cause
Al 2010 risale un episodio drammatico: un interprete afghano di Mission Essential in una base delle forze speciali dell’esercito vicino a Kabul afferra una pistola e uccide due soldati statunitensi. Le famiglie fanno causa all’azienda accusando Mission Essential di non aver controllato e supervisionato adeguatamente l’interprete. E per far sì, spiegano, che il governo affronti quella che definiscono una supervisione inadeguata degli appaltatori. «Questi contratti sono estremamente redditizi e secondo noi le considerazioni finanziarie avrebbero potuto superare la corretta esecuzione dei requisiti contrattuali», spiegano. Le due parti hanno risolto la causa nel 2015.
Quando il presidente Biden ha ordinato alle ultime truppe americane di lasciare l’Afghanistan ad agosto, Mission Essential – che nel frattempo ha affrontato una serie di guai tra proprietà e vertici – aveva ridotto il suo personale a circa mille persone. Quasi 90 dipendenti sono stati uccisi durante la guerra, spiega Miller. Gli ultimi 22 in Afghanistan hanno lavorato a fianco delle forze statunitensi e sono volati via da Kabul con gli ultimi aerei carichi delle truppe americane ad agosto. Da allora la Mission Essential si è riposizionata: si è assicurata un contratto da 12 milioni di dollari per fornire all’esercito interpreti in Africa e acquistato una società tecnologica.
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