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In agosto eravamo tutti afgani. E ora?

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Melting Pot Europa,  22 gennaio 2022, di Stefano Bleggi Ambasciata Pakistan

Quando il 15 agosto i talebani entrano a Kabul e occupano il palazzo presidenziale, non c’è politico o istituzione che non si dica al fianco delle popolazioni afgane. Terminate le rapide e confuse operazioni di evacuazione che hanno riguardato poche migliaia di persone la grandissima parte delle persone che temono ritorsioni e violenze da parte dei nuovi padroni è rimasta bloccata nel paese. 

A distanza di soli cinque mesi, quella grande attenzione politica e mediatica si è del tutto spenta. Eccetto pochissimi giornalisti, che non hanno mai smesso di raccontarci la crisi afgana e qualche ONG che caparbiamente ha deciso di restare nel paese e di fornire assistenza umanitaria, tutto tace. Gli appelli delle realtà come CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) che in questi anni hanno continuato a sostenere i processi di democratizzazione e di lotta delle donne RAWA  sono rimasti pressoché inascoltati. Stessa sorte è capitata ai rifugiati afgani presenti in Italia che, anche prima della presa del potere dei taliban, non hanno mai smesso di denunciare quanto avveniva in quell’angolo di mondo martoriato da 40 anni di guerre e di occupazioni militari.

Le politiche europee hanno sancito che non c’è posto per altri di loro in Europa, negando dapprima qualsiasi ipotesi di canale umanitario e poi armando le diverse polizie di frontiera attive nei respingimenti sui confini esterni e lungo la rotta balcanica. Dai rapporti di questi ultimi mesi le cifre dei pushback e delle violazioni alle richieste di asilo nei confronti delle persone in fuga sono impressionanti. Una delle poche possibilità che hanno è rappresentata dall’entrare illegalmente in Pakistan o in Iran, e poi mettersi in viaggio rischiando di morire – come già troppe volte è successo – o di essere espulse e deportate. L’Italia si è ben presto allineata, ha fatto pienamente la sua parte rendendo impossibile ai cittadini e alle cittadine afgane la richiesta di visto umanitario e del visto per ricongiungimento familiare. Alcune sentenze, hanno sottolineato come il Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale (MAECI) stia opponendo una strenua quanto inaccettabile resistenza alle richieste di visto umanitario.

Ne è un esempio la storia che ha raccontato a Melting Pot Lara G. di Trieste, compagna di un rifugiato afgano di etnia hazara. Gli hazara sono una minoranza musulmana sciita e di lingua farsi da sempre perseguitata anche quando i talebani non erano al potere. Lara in questo momento si trova a Islamabad in Pakistan: «E’ la seconda volta che parto per il Pakistan in poco tempo, chiudendo il mio negozio e lasciando lì mio figlio di 12 anni, ma non avevo altra scelta», ci dice concitata al telefono.

«La prima volta ci sono stata quasi 3 mesi, dal 3 ottobre fino al 25 di dicembre. Avevamo la famiglia del mio compagno bloccata a Baghlan (è una città situata in Afghanistan settentrionale, ndr), negli ultimi mesi eravamo riusciti a ottenere il nulla osta per il padre del mio compagno, ma soltanto per lui, non c’era modo di portare anche la madre e i quattro fratelli. Abbiamo passato l’estate intera scrivendo e telefonando a tutti: pec, chiamate interminabili con task force negli Stati Uniti, associazioni, amici, anche ai ministeri degli esteri e della difesa italiani, finché siamo riusciti a metterli in una lista con l’Unità di crisi, almeno così sembrava, ma, dopo l’attentato all’aeroporto di Kabul, ci fu detto di avere pazienza. Poi il nulla, mai ricevuta più una risposta».

Lara ha parlato della sua storia di ostacoli e richieste inevase ad altri amici afgani residenti in Italia, trovando le stesse preoccupazioni e lungaggini burocratiche, i silenzi insopportabili delle autorità rispetto alle procedure da seguire per il rilascio dei visti e soprattutto per mettere al sicuro i propri familiari.
Nel giro di poche settimane avevano una lista di 34 persone bloccate in Afghanistan o che erano riuscite a fuggire in Pakistan, ma che lì si trovavano in una situazione di ingresso irregolare e quindi anche loro a rischio di espulsione.

«E’ allora che mi sono decisa a partire» ci spiega, ricostruendo la sua battaglia. «Abbiamo messo insieme risparmi e piccole donazioni tra amici e con l’aiuto di quelle famiglie, il 3 ottobre, da sola, sono partita per Islamabad per quella che abbiamo denominato, un po’ per darci coraggio e un po’ per trovare un po’ di ironia, ‘Operazione Serpento’.
Il 4 ottobre mi sono presentata all’ambasciata italiana, ma non mi hanno ricevuto, nonostante avessi ampiamente annunciato la mia presenza. Anzi sono stata “accolta” da una persona italiana che mi ha trattato molto male e mi ha detto che qui non mi riceverà mai nessuno, affermando che per prendere l’appuntamento avrei dovuto scrivere a un altro indirizzo email. Tornata in albergo, ho scritto e mi sono accorta che l’indirizzo era fasullo, tutte le mie mail erano tornate indietro. Il giorno dopo sono ritornata nell’enclave dove si trova l’ambasciata, ho rifatto la trafila dei controlli, pagato il biglietto del bus che costa 5 euro e che porta fino al palazzo italiano e nuovamente sono stata respinta. Non mi sono data per vinta e per 2 giorni, dopo essere stata trattata malissimo e minacciata da 6 guardie armate della sicurezza dello shuttle bus, ho deciso di mettermi ben visibile davanti all’ambasciata. Ho dormito 7 ore sulle panchine davanti alle telecamere dell’ambasciata.
La mia protesta silenziosa e pacifica ha portato ad un primo risultato: finalmente l’8 ottobre ho ottenuto un appuntamento dal vice ambasciatore Roberto Neccia».

Inizia così un percorso lunghissimo fatto di promesse, tira e molla, di delusioni e felicità, di altri appuntamenti, di solitudine e responsabilità. Lara scopre che esistono dei termini sia per far legalizzare le persone afgane presenti in Pakistan, sia per far ottenere dei gate pass per attraversare il confine a Tokhram anche per chi è sprovvisto di documenti. Ha la conferma, inoltre, che le procedure dei visti per ricongiungimento sono totalmente bloccate.
Nel frattempo, dall’Italia le arrivano altre richieste di aiuto, si è sparsa la voce tra altri amici che lei si trova in Pakistan ed è riuscita a oltrepassare una prima barriera: quella di farsi ascoltare, di rompere il silenzio. La lista di risposte rimaste inevase aumenta.

«Ho portato all’attenzione del vice ambasciatore la lista di un amico di Roma chiedendogli di aiutare anche loro come stava facendo con le persone della mia lista. Mi ha risposto che non potevano, però, decisione mia, avrei potuto allungare la mia lista e avere rapporti io direttamente con loro, perché erano pieni di casi e non avevano il tempo di confrontarsi con più persone. Prendere o lasciare, ho detto ok.. le persone della seconda lista erano 46. 
Un tuffo al cuore, anche qui bambini e una donna che avrebbe partorito a giorni. In tutto adesso 81 persone. Mi sono sentita questa responsabilità sulle spalle, non potevo dire di no. Per fortuna un’altra donna e le sue due piccole bambine presenti nella lista sono state aiutate dall’ambasciata italiana di Doha e sono state portate da Kabul in Italia attraverso il Qatar.
Il Pakistan ha cambiato più volte le leggi. 
Al 13 ottobre ricordo di aver ballato felice nella mia stanzetta, il dott. Neccia mi aveva chiamata: ‘Lara facciamo passare tutti’, ma il sogno è durato una settimana. 
Mi è stato detto che il governo pakistano si era mangiato la parola, ma che avevano dato due scadenze, una per gli illegali in Pakistan e una per l’emissione dei gate pass entrambe le liste venivano accolte sulla promessa del paese mittente di garantire un visto. 
Come mi è stato chiesto, abbiamo lavorato come dei pazzi, io con gli amici a Trieste e l’amico di Roma per fare le liste, scrivere tutto di tutti, per trovare privati o associazioni che facessero da sponsor per l’accoglienza in Italia. Abbiamo trovato e incastrato tutto e tutti.
Come primo passo sono riuscita a far legalizzare, il 19 novembre, 21 persone afgane che dal 4 novembre risultavano illegali. Significa che non hanno un visto pakistano, ma che hanno la possibilità di lasciare il paese sulla promessa del visto italiano. E siamo riusciti pure a far arrivare in Pakistan il 19 dicembre la famiglia del mio compagno e una bambina di 6 anni sindromica: a Trieste una fondazione la sta aspettando per darle aiuto attraverso l’ospedale.
Dal 30 novembre al 24 dicembre abbiamo terminato le procedure di visto italiano, sono state accolte tre persone al giorno. Cinque di queste persone sono state chiamate il 14 dicembre per ricevere il visto e hanno consegnato i passaporti, poi anche qui, nessuno visto, nessuna notizia.
Dopo  esser stata ricevuta una decina di volte per incontri di una, due ore alla volta avvenuti sempre in estrema cordialità, dal 13 dicembre nessuno ha letto più i miei messaggi sul numero delle emergenze e nemmeno hanno risposto alle email. Il 22 dicembre mi hanno chiamato per la famiglia del mio compagno e la bambina, il 23 ho accompagnato il padre con i documenti di tutti e mi hanno garantito di aver mandato subito tutte le pratiche a Roma. Il 24 dicembre sono tornata a Trieste. A gennaio ho saputo che altre nove persone sono entrate legalmente in Pakistan dall’Afghanistan attraverso il gate di Torkham con visto arrivato dopo 2 mesi. Ed ora aspettano di poter presentare formalmente la richiesta di visto».

Tra la fine dell’anno e le prime settimane di gennaio Lara prova nuovamente a telefonare, a inviare pec, l’ambasciata arriva a bloccarle il numero su whatsapp. 

«Nessuno si è degnato di rispondermi. Ma altri che hanno richiesto il visto dopo di noi erano arrivati in Italia in tempi straordinariamente magici. Mi è sempre stato detto che non esistono corsie preferenziali e che dovevo avere pazienza. L’8 gennaio, l’unica famiglia che ha ricevuto i visti – e assurdamente l‘unica per cui mi era stato detto non sapevano se la pratica fosse andata avanti senza tutta la documentazione – è arrivata a Roma, sotto i sospiri felici di tutti noi.
Ho deciso di ripartire per interrompere questo silenzio. Anche dall’Italia, dal Ministero degli affari esteri e dal Ministero degli interni, quando ancora riuscivo a parlare con l’ambasciata, mi è stato detto che se ho una trattativa con loro ‘devo parlare con loro’, ed eccomi nuovamente a Islamabad.
Ho bisogno di aiuto e sostegno. Al mio arrivo sono stata di nuovo bloccata allo shuttle bus service e mi è stato detto che l’ambasciata ha comunicato loro che non devono farmi entrare. Ero incredula, sconvolta, le stesse persone che mi hanno accolta e aiutata? Ma, se dovessi trovarmi in difficoltà? Perché interrompere la comunicazione quando hanno solo il mio contatto? Sono stata minacciata ancora una volta dalle guardie dello shuttle service che mi avrebbero fatta a pezzi.
Ieri ci hanno risposto al telefono, a distanza di 40 giorni, dicendoci che non possono dirci nulla a proposito dei passaporti consegnati per attaccarci il visto e che dobbiamo contattarli via email. A quale mail?

Ho bisogno che si sappia quello che succede, che si dica che delle persone che hanno il diritto di uscire dal paese vengono ingiustamente bloccate dalla burocrazia, dall’indifferenza e dalla corruzione. Se paghi qualche agenzia esterna dai 300 ai mille dollari a persona, hai modo di avere in pochi giorni un appuntamento.

Ho bisogno che si racconti che queste persone sono bloccate a casa, che per gli afgani e soprattutto per l’etnia hazara qui non è una passeggiata. 34 sono le persone della lista in attesa in Pakistan di ricevere il visto, 43 sono ancora in Afghanistan. Sono famiglie, tutte di etnia hazara, ci sono tra di loro bambini, donne e persone che necessitano cure. 
Da qui – conclude – non me ne andrò finché non sarò certa che queste persone possano mettersi in salvo».

Lara è consapevole che la sua azione è una goccia in un mare di disuguaglianza, ma se ognuno, come lei, facesse la sua parte si potrebbero salvare migliaia di vite.
Ci tiene a specificare che la loro è una missione dove le persone si muovono per le persone.
Non è accettabile che l’Italia e l’Unione europea continuino a guardare al disastro davanti al loro naso senza far nulla. 

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