Piccoli fornaciai a Kabul
Dal blog di Enrico Campofreda, 27 settembre 2022
Quanta polvere respirano a cinque, otto, dodici anni i piccoli fornaciai di Kabul? Molta più di quanto ne incamerano girando per le insicure vie della capitale, dove le strade asfaltate restano sempre poche rispetto a quel che non s’è fatto per decenni e davanti al crescente insediamento urbano. C’è chi fugge dai talebani, ma per andar dove? Restare in città significa avere qualche possibilità di racimolare cibo, pur davanti all’angosciante e pilotata crisi alimentare. I baby fornaciai, fotografati in un servizio dell’Associated Press, erano una realtà presente da tempo, sono semplicemente aumentati col dramma delle difficoltà economiche seguite non tanto al ritiro delle truppe Nato, quanto al congelamento dei fondi di sostegno che annualmente giungevano nel Paese. Se ne discute da mesi, di recente qualche segnale di sblocco appare all’orizzonte. Intanto i piccoli lavoratori del fango e della terra hanno lavorato per tutta l’estate nella fabbrica a cielo aperto poco a nord della capitale e proseguiranno finché il meteo lo permetterà. I loro genitori non solo permettono, ma sperano che la faccenda proseguirà per incamerare i pochi, maledetti dollari che servono alle casse familiari. I bambini presiedono sotto la supervisione di alcuni adulti tutto il ciclo produttivo, non vengono esentati dai lavori di fatica. Anzi. Trainare recipienti d’acqua necessari a impastare la terra, sollevare cesti di carbone per il fuoco è un compito che non li esclude. Come trasportare le pesanti forme alle fornaci per la cottura.
Carriola dopo carriola, i manufatti fangosi prendono forma e poi consistenza con la cottura, operazioni ovviamente pericolose oltre che gravose per corpi infantili. Eppure chi li vede all’opera ne sottolinea precisione, pazienza, determinazione qualità da uomini e donne fatte, messe in atto da chi dovrebbe studiare e giocare con gli aquiloni. Per ciascuno giochi pochi e scuola altrettanto. Chi non c’è mai stato, chi l’ha interrotta e vorrebbe riprenderla. Tutti sperano in tempi migliori. Anche perché quei corpicini, soggiogati da pesi e fatica, si fermano dopo ben dieci ore. Dieci ore di dolore. Il panorama in cui si muovono è tetro, sterile, senza vegetazione, solo pietre, fango e mattoni creati dalle fornaci a portata di casa. Lì si susseguono le ventiquattr’ore, perché attorno ci sono i poveri tuguri dove la famiglia vive. I genitori non sono mostri, sono disperati. Alcuni ammettono l’infame condizione, penserebbero anche all’istruzione dei ragazzi ma sopravvivere è il primo passo. Ogni capo famiglia pensa di abbandonare quel luogo e quel lavoro, cercare altro, migliorare. Ma non ora. Ora è impossibile perché non c’è niente attorno e pure a centinaia di chilometri. Quattro dollari per mille mattoni, che un adulto, pure forte e abile, non riesce a produrre. Ci si avvicina: novecento, ma non raggiunge la fatidica cifra, senza la quale non scatta la paga. Se invece ad aiutarlo c’è la prole, i mille mattoni possono salire di numero e diventare addirittura millecinque. E per quel giorno si può mangiare.
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