‘Sono civilizzati’, ‘Non siamo in Afghanistan’: il razzismo di media e politica sulla guerra in Ucraina
Valigiablu.it – Laetitia Leunkeu – 5 marzo 2022
Il conflitto degli ultimi giorni in Ucraina, la cui sovranità è ora ostaggio delle bombe russe, ha costretto centinaia di migliaia di persone a fuggire per cercare riparo nei paesi circostanti. Di fronte alla crisi umanitaria in corso ai suoi confini, l’Unione Europea si è detta pronta a dare una risposta comune, con una serie di azioni volte in primo luogo ad assicurare la sicurezza degli esuli.
La prima prevede uno stanziamento a favore degli Stati europei limitrofi: Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania, verso cui sono diretti i profughi. Somme destinate a coprire aiuti umanitari verranno elargite anche all’Ucraina stessa per far fronte agli sfollati interni. Accanto ai contributi economici si discute dell’istituzione di una “piattaforma di solidarietà” europea, per coordinare le operazioni in collaborazione con le agenzie comunitarie, l’Agenzia europea per l’asilo e Frontex, che si occuperà di tutti gli aspetti della crisi umanitaria.
L’elemento più significativo di questa risposta è certamente la volontà di attivare la procedura della Direttiva 2001/55, un meccanismo che obbliga gli Stati europei ad affrontare collettivamente una situazione emergenziale provocata da un “afflusso massiccio di sfollati” in maniera imprevista da una determinata area geografica del mondo, che non possono essere riportate nel paese di provenienza. Si tratta di uno strumento pensato nel 2001 ai tempi delle guerre nell’ex-Jugoslavia, ma che non è mai stato utilizzato, né allora, né nelle crisi migratorie successive, tra cui l’ultima relativa all’Afghanistan. La direttiva concederebbe un diritto di “protezione temporanea” – anche se, come fa notare Eleonora Camilli, vi sono delle eccezioni: “Secondo la bozza della proposta elaborata dalla Commissione oltre agli ucraini, dovrebbero beneficiare della protezione temporanea i cittadini terzi in possesso di un permesso di lungo periodo e i titolari di protezione internazionale”. Resterebbero quindi esclusi studenti stranieri, migranti e rifugiati.
La positiva prontezza con cui le istituzioni globali stanno affrontando questa crisi non può non farci riflettere sulle modalità attraverso le quali sono state affrontate le politiche migratorie in Europa negli ultimi anni. Per più di un decennio ci è stato detto che accogliere o trovare una soluzione per le migliaia di persone che morivano e continuano a morire nel Mediterraneo o lungo la rotta balcanica non fosse possibile. Ci è stato detto che erano numeri di persone troppo grandi, che i governi non avevano i mezzi per gestirli e che non si poteva “accogliere tutti”. A ogni persona che veniva mandata in un paese europeo corrispondeva un nuovo insidioso dibattito. Le migrazioni sono diventate un argomento spinoso, spesso puramente ideologico e completamente disconnesso dalla realtà della migrazione, fino agli estremi delle teorie cospirazionista a base di invasioni e sostituzioni etniche, ormai perfettamente inserite nel panorama mainstream.
A parole tutti hanno espresso grande dispiacere per quelle morti. Il più noto resta quello del piccolo Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni trovato senza vita su una spiaggia a Bodrum, in Turchia, che sembrava aver scosso le coscienze europeeportando alla realizzazione della portata della tragedia (non senza colpe) in atto nel Mediterraneo. E invece, dal 2014 a oggi sono più di 20mila le vittime. Molti altri sono morti all’interno degli stessi confini europei, chi nei campi-lager, chi nei vari CPR. E le lacrime, abbastanza luccicanti da tenere i riflettori su quella spettacolarizzazione mediatica di corpi (resi) vuoti, sono state velocemente asciugate con un implicito: “Non si può fare nulla”.
Oggi scopriamo che si può accogliere, che anche un flusso di centinaia di migliaia di persone può avere almeno la consolazione di trovare un rifugio sicuro sulle nostre terre, prima che i singoli casi vengano giustamente analizzati. Oggi scopriamo che prima di tutto le persone devono essere messe in salvo, e il resto viene dopo. Ecco allora che una legge, pronta a essere revocata, trova magicamente utilità e funzionalità. Le clausole nascoste, scritte minuscole in fondo alla pagina, come in quei messaggi promozionali che tanto spesso ci puzzano di truffa, richiedevano che i profughi fossero bianchi, occhi azzurri, cristiani, “come noi”.
Così l’ha fatto comprendere al mondo il presentatore di Al Jazeera English Peter Dobbie, che durante una trasmissione domenicale ha detto: «Guardandoli, nel modo in cui sono vestiti, queste sono persone abbienti della classe media. Questi non sono ovviamente rifugiati che cercano di allontanarsi dal Medio Oriente […] o dal Nord Africa. Sembrano una qualsiasi famiglia europea con cui vivresti accanto».
Così traspare dalle parole del corrispondente estero di CBS News, Charlie D’Agata, che ha affermato in onda che l’attacco all’Ucraina non può essere paragonato alle guerre in Iraq e Afghanistan perché l’Ucraina è più “civilizzato”. «Questo non è un posto, con tutto il rispetto, come l’Iraq o l’Afghanistan che ha visto il conflitto infuriare per decenni», ha detto, per poi aggiungere: «Questa è una città relativamente civilizzata, europea – devo scegliere attentamente anche quelle parole – dove non te lo aspetteresti, o spereresti che accada».
E ancora: «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo il fuoco dei missili come se fossimo in Iraq o in Afghanistan, potete immaginare!», ha detto un commentatore di BFM TV, il principale canale di notizie francese, durante una trasmissione in diretta. In un’altra trasmissione di BFM, il giornalista Philippe Corbe ha dichiarato: «Qui non stiamo parlando di siriani in fuga dal bombardamento del regime siriano sostenuto da Putin, stiamo parlando di europei che partono in auto che sembrano nostre per salvare le loro vite». E infine il vice-procuratore capo dell’Ucraina, David Sakvarelidze, che dichiara alla BBC: «È molto toccante per me perché vedo gli europei con gli occhi azzurri e i capelli biondi uccisi». Se il messaggio non fosse abbastanza chiaro, basta spostarsi in Italia e ascoltare le parole della leghista Susanna Ceccardi che, a domanda diretta, spiega quale sarebbe la differenza tra profughi ucraini e profughi africani che scappano dall’Ucraina: siamo ancora a “veri profughi” e non.
Sui più grandi media occidentali, viaggiano con sicurezza e acclamazione il più marcio eurocentrismo e suprematismo bianco. Il nazismo, ha notato lo scrittore Aimé Césaire, viene considerato un sacrilegio nella coscienza europea, poiché è il dispositivo che ha osato ritorcere contro l’Europa stessa le tecniche di assoggettamento e disumanizzazione che il colonialismo aveva attuato nei confronti degli “altri”. «Quello che non perdonano a Hitler, non è il crimine in sé, il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, è l’umiliazione dell’uomo bianco, e l’aver applicato all’Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa». L’uomo bianco nella storia ha fatto della “civilizzazione” la tana nella quale racchiudere e proteggere la sua immagine, mentre dai corpi delle sue vittime si diffondeva e contaminava l’aria il fetore del relativismo morale.
Così si spiega quella dissonanza umanitaria per cui l’UE rimane volutamente indifferente nei confronti del destino e dei diritti delle persone razzializzate. Così si spiega perché un paese come la Polonia, ai confini del quale fino a qualche mese fa si sparava con i cannoni ad acqua e i lacrimogeni sui migranti, ora si è messa al servizio degli ultimi. Ecco spiegato come mai i bombardamenti in Yemen delle ultime settimane passano in sordina, mentre si piange (giustamente) su corpi (ingiustamente) considerati più meritevoli. Ecco che diventa chiaro come il video di una ragazzina palestinese che sfida un soldato israeliano sia diventato virale, perché scambiato per quello di una bambina ucraina alle prese con un soldato russo.
Questa gerarchia dell’inclusione si è fatta sentire anche ai confini ucraini stessi. Diversi cittadini non bianchi, in particolare studenti di origine africana e indiana, hanno raccontato di episodi di razzismo tra le file di chi cercava di lasciare il paese per mettersi in salvo dall’offensiva russa. Secondo varie testimonianze, a Kyiv, al fine di dare la priorità alla popolazione ucraina di pelle bianca, a molte persone sarebbe stato impedito l’ingresso a treni e autobus diretti dal confine polacco.
La conferma – a smentire le false accuse di propaganda russa da parte di chi, come sempre accade, ha cercato di sminuire o negare l’esperienza di quelle vittime di razzismo – è arrivata dalle Nazioni Unite (in particolare dall’Alto Commissariato per i Rifugiati). Sono poi emerse numerose video-testimonianze che documentano l’atteggiamento violento e discriminatorio delle autorità ucraine in diversi punti di controllo. In uno di questi, si vede una donna nera a cui viene impedito di salire sul treno; in altri, centinaia di persone nere, donne e bambini, lasciate al freddo mentre altre persone bianche salgono a occupare i mezzi di trasporto.
«Ci hanno fermato al confine e ci hanno detto che ai neri non era concesso passare. Ma potevamo vedere le persone bianche attraversare», ha detto Moustapha Bagui Sylla, uno studente guineano intervistato da France24. In un’intervista alla BBC, Ruqqaya, una studentessa di medicina nigeriana, ha affermato di aver camminato per undici ore durante la notte prima di arrivare a Medyka, città polacca. “Quando sono arrivata qui c’erano persone nere che dormivano per strada”, spiega Ruqqaya, dicendo inoltre che le guardie armate le hanno detto di aspettare perché prima dovevano essere fatti passare gli ucraini, mentre solo pochi cittadini africani avevano il privilegio di essere sorteggiati dalla coda. E testimonianze simili non smettono di venire a galla.
Tutto questo non è altro che il risultato della continua campagna di disumanizzazione con cui politici e media sono penetrati nella nostra quotidianità negli ultimi anni. Se la gente comune, vicini amabili, colleghi, parenti, accolgono passivamente o addirittura gioiscono della morte dei loro simili, è semplicemente perché non li riconoscono più come tali.
Come se non appartenessero allo stesso mondo, semplicemente perché provengono dall’altra parte del confine. Come se quel confine servisse come linea di demarcazione tra gli esseri umani e gli altri, gli indesiderabili. Quelli di cui parliamo sempre al plurale, denudati da qualsiasi soggettività, per mettere in scena degli oggetti. Coloro che sono accusati di pervertire i nostri valori e la nostra cultura, di creare disoccupazione e insicurezza, ma che dimentichiamo alla prima crisi, come se non esistessero più.
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