In salvo in Spagna la giudice Obaida, braccata dai taleban
La giovane, madre di due bambini, ha trascorso più di un anno da profuga in Pakistan. «Se non fossi scappata da Kabul a quest’ora sarei morta o sepolta viva in casa»
Paola Del Vecchio, Avvenire, 24 febbraio 2023
«Ricordo una sera di 22 anni fa. Giocavamo con mia sorella in cortile e guardavamo le stelle. Eravamo felici di vederne tante cadenti, quando nostra madre d’improvviso ci ordinò di rientrare in casa e rinchiuderci in cantina. Io non volevo entrare e insistevo per restare a godermi lo spettacolo del cielo stellato, per cui mia madre mi portò al piano interrato con la forza. Il giorno dopo, quando ci svegliammo e uscimmo fuori, con mia sorella capimmo che quelle che avevamo visto cadere non erano stelle, ma missili e proiettili di mortaio, che avevano ridotto i muri di casa a colabrodi. Purtroppo in Afghanistan, un paese martoriato da decenni di guerra e da un conflitto civile suicida, si impara da bambini che l’eroe della storia è chi sopravvive».
Obaida Sharar Sharify ha oggi 28 anni ed è una sopravvissuta. È una delle 270 giudici donne in Afghanistan (il 10% della magistratura) considerate dai guardiani della Sharia integralista il nemico numero uno da abbattere. Per il solo fatto di essere donna e per le rappresaglie connesse alla funzione svolta.
Obaida è una delle 21 procuratrici e magistrate che hanno trovato asilo in Spagna, dopo essere fuggite in Pakistan ed essere finite nel limbo a Islamabad, senza status di rifugiate, per oltre un anno dopo il ritorno al potere dei taleban, nell’agosto 2021. Hanno potuto uscire dal paese nelle ultime settimane grazie a un intervento dei legali dell’associazione 14 Lawyers di Bilbao, che con l’Union Progresista de Fiscales (UPF) e Magistrados Europeos por la democracia y las Libertades (Medel) è riuscita ad accelerare l’iter per l’asilo ed “estrarle” con un procedimento di urgenza e l’aiuto del governo spagnolo.
Ma, come segnala Ignacio Rodriguez, presidente di 14 Lawyers – organizzazione indipendente che assiste difensori dei diritti umani in contesti ostili – sono 2.500 i magistrati, giudici e avvocati afghani, donne e uomini, perseguitati per aver fatto il proprio lavoro, vivono con famiglie e figli in una situazione di altissimo rischio in Afghanistan. 150 giudici sono riparati nel vicino Pakistan e 120 in Iran, dove vivono nel terrore di essere deportati nel paese d’origine, in condizioni penose, aspettando di ricevere protezione internazionale. Davanti all’impassibilità delle democrazie occidentali.
«Chiedo solo alla comunità internazionale e all’Unione Europea di non lasciarci sole con i taleban, di non tapparsi occhi e orecchi. Vi chiediamo di continuare a stare al fianco del popolo afghano, perché abbiamo diritto di vivere», dice Obaida.
Da fine dicembre vive con il marito, il loro bambino di 6 anni e un fratello minore a Salamanca. È grata per l’accoglienza ricevuta, ma non riesce a gioire pensando ai genitori minacciati in patria e alle colleghe lasciate dietro. Affida a memorie intime il racconto dell’odissea che da magistrata inquirente e difensore della legge l’ha trasformata in preda braccata nella clandestinità, «con la speranza che sia accolta la nostra richiesta di aiuto».
«Le donne afghane hanno molto coraggio, perché devono lottare fin da bambine nella società per convincere l’ambiente familiare, i vicini, la comunità, fortemente patriarcali, di avere diritto a studiare e lavorare. A me interessava studiare Legge per difendere un sistema giudiziario decente». Dopo la laurea e il master in Diritto, nel 2017 Obaida superò l’esame in magistratura. Fu assegnata prima alla Procura specializzata nei reati di violenza di genere nella provincia di Ghowr, nel cuore dell’Afghanistan. Poi, alla Procura generale di Kabul, al dipartimento specializzato in reati contro l’infanzia.
E, infine, nominata direttrice della Procura antinarcotici della capitale, un settore assolutamente inconsueto per una donna in uno stato che basa la sua economia sul narcotraffico. Ma Obadia ha sempre messo in conto i rischi della scelta di fare il pubblico ministero a Kabul. Vivere sotto minaccia e nella paura era la quotidianità. «Andavo in ufficio e lungo la strada vedevo i vigili del fuoco mentre lavavano in strada il sangue degli attentati accaduti due ore prima», ricorda. «Nonostante tutto, eravamo forti e con molte speranze, lavoravamo per ricostruire il sistema giudiziario. Oggi non c’è nessun tipo di controllo sul traffico di droga. Non ci sono giudici né giustizia. In un paese che pubblicamente celebra chi mette le bombe e si immola, perché i familiari ricevano la ricompensa, il regime taleban ospita al governo chi più ha attentato, ucciso e piazzato bombe. Mentre le donne sono state cancellate dalla società civile: non possono studiare, lavorare, fare la spesa o anche solo andare al parco”.
La persecuzione di giuristi, procuratori, avvocati e difensori dei diritti umani è stata costante negli ultimi due decenni, con 66 giudici assassinati soltanto negli ultimi cinque anni prima del ritorno dei taleban, incluse le due donne giudici della Corte suprema, assassinate alle porte del tribunale il 17 gennaio 2021. Dal ritorno al potere dei taleban, nell’agosto 2021, sono stati almeno 24 i magistrati uccisi.
Obadia ha provato a resistere. Ci ha provato per mesi, mentre l’Emirato islamico restaurava la legge fondamentalista, murava vive donne e bambine dietro i burqa e le pareti domestiche, le espelleva da università e scuole e “rassicurava” quelle con la toga – che avevano condannato centinaia di uomini per stupri, violenze e omicidi, perseguito crimine organizzato e terroristi della jihad – di non preoccuparsi, perché non avrebbero subito ritorsioni. E intanto stanava i loro familiari e conoscenti, per sapere dove si nascondessero. La procuratrice antidroga ha tovato ancora il coraggio di scendere in piazza a protestare, ha cambiato casa più volte, mentre i suoi genitori si rintanavano a Kabul e la famiglia politica tentava di sottrarsi alla vendetta fuggendo in Iran. Poi, ha dovuto arrendersi alla realtà, e cercare scampo passando la frontiera per Islamabad, con marito, il figlio piccolo e un secondo in arrivo.
«Se non fossi scappata in Afghanistan a quest’ora sarei morta o sepolta viva in casa», assicura Obadia. Ancora trema al ricordo dei controlli dei taleban alla frontiera, il terrore che scoprissero chi fosse e che lavoro facesse.
«In Pakistan la situazione è molto complicata. Si accalcano centinaia di migliaia di esuli afghani (250mila persone al giugno scorso, secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifigiati, ndr.). Sono disposti a tutto, anche a pagare 4.000 dollari per un visto di soggiorno sul passaporto, in teoria gratuito», spiega il magistrato. «Con l’enorme flusso di rifugiati, il mercato nero la fa da padrone, con in costi moltiplicati per dieci per l’affitto di una casa, per l’accesso alla sanità o a qualuque servizio. Soprattutto dopo la decisione del governo pachistano di rimpatriare, a partire dal 31 dicembre 2022, tutti gli afghani alla scadenza del visto temporaneo di due mesi. Cominciammo a ricevere messaggi sui nostri cellulari in cui ci veniva intimato di lasciare il Pakistan entro fine 2022, pena la deportazione in Afghanistan o tre anni di carcere. Abbiamo vissuto con la paura di essere rimpatriati e consegnati ai nostri aguzzini oppure arrestati. Ed è come vivono attualmente i miei colleghi con le loro famiglie che non sono riusciti a partire. Non possono lavorare, i loro figli non possono andare a scuola, non hanno un tetto, spogliati di ogni diritto umano per aver difeso lo stato di diritto, forzati all’esilio in condizioni drammatiche».
A Islamabad Obaida ha scritto “a quasi tutte le ambasciate dei paesi occidentali e a organismi internazionali chiedendo asilo”, senza ricevere risposta. O, in alcuni casi, ottenendo un appuntamento dopo un anno. “E’ stato grazie all’intervento di 14 Lawyers, venuti in Pakistan a incontrare 150 giudici esiliati, che abbiamo potuto contattare l’ambasciata spagnola e accelerare a tre mesi l’arduo iter consolare”, assicura. “Apportare la documentazione richiesta per l’asilo, perché fosse comprovata la nostra situazione e del nostro nucleo familiare ristretto. La condizione posta dall’ambasciata era che sollecitassimo per nostro conto l’autorizzazione a uscire dal Pakistan, acquistando i biglietti del volo per la Spagna, in cambio del visto sul passaporto. Poi, una volta a Madrid, ci hanno affidati alla Croce Rossa incaricata di trovare un luogo dove alloggiarci”.
Le 21 giudici donne – un primo scaglione delle 32 magistrate afghane in attesa di ricevere asilo nella penisola iberica – sono state suddivise in varie città. Obaida, con le sue colleghe magistrate Farestha Parwani, Shamel Ahmadzai, Farahnaz Sahar, Hussnia Bakhtiyari, Fawzia Salihi, Gulalai Hotak e Fatima Rashidi, ha potuto ringraziare pubblicamente l’accoglienza ricevuta in un incontro al Colegio de la Abogacia di Madrid con le organizzazioni internazionali di magistrati e avvocati che le hanno sostenute. E che reclamano all’Unione Europea e agli stati membri “più volontà politica e risorse nelle ambasciate di Islamabad e Teheran per agilizzare la protezione internazionale di giuristi, avvocati, magistrati o giornalisti, obiettivo prioritario dei taliban, dei gruppi terroristi e del crimine organizzato in Afghanistan”. E, al governo spagnolo, di approfittare del semestre di presidenza di turno della Ue, a partire da luglio, per aumentare la pressione sulll’Emirato islamico e dare impulso agli aiuti ai tanti rifugiati afghani costretti alla clandestinità, vittime della barbarie e dell’oblio.
“Non lasciateci sole con i taleban”, ripete Obaida Sharar. Per lei non è facile ricostruire la sua vita. “Qui in Spagna almeno mi sento al sicuro. Vorrei poter esercitare la mia professione, ma è molto difficile omologare i titoli di studio in Diritto, il master. E’ possibile che debba ricominciare da zero”. Nonostante l’alto prezzo pagato, spera di poter tornare un giorno nel suo paese e riprendere il lavoro dove l’ha lasciato la mattina in cui l’incubo dei ‘barbudos’ del passato è tornato a rimaterializzarsi a Kabul. “Mi rammarico di non aver avuto neanche il tempo di prendere il Codice Penale dal mio ufficio, è il compendio che più mi manca”, assicura la procuratrice sopravvissuta.
Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all’8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l’università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l’appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE
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