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L’AFGHANISTAN DUE ANNI DOPO. ISPI

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L’Afghanistan a due anni dal ritorno dei talebani

ISPI, 14 agosto 2023  Mercato di Kabul 1024x682

A due anni dalla conquista di Kabul da parte del movimento islamico è il momento dei primi bilanci: l’Emirato regge, ma restano aperte questioni di peso, come la repressione interna e il posizionamento internazionale.

A due anni dalla conquista di Kabul da parte dei Talebani, gli effetti del terremoto innescato dalla caduta della Repubblica islamica continuano a dispiegarsi in ogni settore della vita afghana. La transizione istituzionale, politica e sociale è ancora in corso, ma alcune tendenze sono già evidenti. Crisi umanitaria aggravata, forte contrazione dei diritti, apartheid di genere, stallo diplomatico: un tentativo di bilancio è urgente.

Per i Talebani è mediamente positivo: non ha riconoscimento ufficiale, sconta sanzioni, isolamento e tensioni interne, ma l’Emirato tiene e per gli attori regionali è l’alternativa meno rischiosa. Per la diplomazia euroatlantica, il bilancio è negativo: le richieste ai Talebani rimangono “governo inclusivo, rispetto dei diritti, controterrorismo”, ma sui primi due punti gli islamisti contraddicono ogni aspettativa, violando l’intero quadro normativo internazionale. La popolazione resiste, ma è schiacciata: da una parte le politiche autoritarie delle autorità di fatto che praticano apartheid di genere e repressione del dissenso; dall’altra il disinteresse o l’afonia politica della comunità internazionale. Per uscire dall’impasse, serve una coraggiosa diplomazia dei piccoli passi, dietro le quinte, alla ricerca dell’opzione meno peggiore. L’alternativa – il disimpegno diplomatico in nome del rispetto dei diritti umani – isolerebbe ulteriormente il Paese e porterebbe le autorità di fatto su posizioni ancora più autarchiche e repressive.

L’Emirato islamico tiene

Il cambio di regime dell’estate 2021, radicale e repentino, non ha portato al crollo o alla paralisi istituzionale. Manca ancora un indirizzo chiaro sull’architettura dei poteri statuali e una divisione chiara tra il movimento dei Talebani, con i suoi gruppi di influenza e feudi territoriali, e l’Emirato, con le sue articolazioni ministeriali e amministrative. Ma i Talebani tengono il punto, come spiega nella sua analisi per l’ISPI Antonio Giustozzi. L’ultimo rapporto dello Analytical Support and Sanctions Monitoring dell’Onu prevede che le divisioni tra le fazioni indeboliranno progressivamente il regime e che l’unità di facciata sfoci in scontri armati nell’arco di 12-24 mesi. Ma già in passato i Talebani sono stati dati per spacciati. Tale esito appare prematuro, ora. Nel frattempo, l’Emirato è finanziariamente più solido del previsto e ha raggiunto quell’autosufficienza che gli consente di “gestire uno Stato a bassa capacità e resistere alla pressione delle condizionalità degli aiuti e delle sanzioni”. Può “sopravvivere senza essere messo all’angolo”, continuando ad avere come obiettivo primario la propria sopravvivenza.

Coesione interna, sovranità, istruzione

L’Emirato dunque regge. La transizione dei Talebani da movimento di guerriglia a gruppo di potere politico-istituzionale non ha prodotto fratture insanabili né l’implosione del movimento. Le spinte centrifughe sono state trattenute dalla distribuzione delle risorse e dalla capacità del leader supremo, Haibatullah Akhundzada, di manipolare e rafforzare la propria posizione a Kandahar, lontano dai ministeri di Kabul, come spiega Giustozzi. Un consolidamento che nel prossimo futuro potrebbe riguardare anche gli esteri, portando a politiche più radicali, ma meno erratiche e imprevedibili per la comunità internazionale.

Per alcuni osservatori è proprio la coesione interna – il fattore che ha garantito longevità politica e la “vittoria” sul campo di battaglia – l’elemento più importante per i Talebani. Perfino più del riconoscimento ufficiale dell’Emirato. Oltre che come strumento di sabotaggio dei piani di riavvicinamento all’Occidente tentati dalla componente pragmatica dei Talebani, andrebbero lette in questa ottica anche alcune politiche discriminatorie verso le donne adottate dal leader Haibatullah Akhundaza. Le quali dividono gli alti esponenti dell’Emirato, ma legittimano la leadership e tengono unito il fronte dei militanti di medio-basso rango attorno alla presunzione di un “vero sistema islamico”. Riducendo così l’emorragia verso altri gruppi radicali, i quali non devono superare lo scoglio del passaggio dal jihad combattuto al jihad da ufficio, privo di un nemico riconoscibile.

Alcune scelte sono dettate poi da un impasto di ideologia, interessi pragmatici, rivendicazione di sovranità. Per la leadership talebana il ritorno al potere, dopo venti anni di guerriglia contro un governo considerato asservito agli stranieri, coincide con il dovere di rimettere il Paese in carreggiata, dopo la sbandata liberale e occidentale. Per gli ultraortodossi le politiche di apartheid di genere sono dei correttivi. Servono a purificare la società, a sanarla, dopo che per venti anni è stato iniettato veleno culturale attraverso l’occupazione militare e il suo inevitabile corredo di valori e modelli sociali. “Gli aspetti negativi degli ultimi 20 anni di occupazione legati all’hijab delle donne e alla cattiva guida finiranno presto”, ha dichiarato il 25 giugno 2023, nel discorso con cui celebrava la festività Eid-ul-Adha, Haibatullah Akhundzada. È solo grazie a tali misure correttive che “l’indipendenza dell’Afghanistan è stata nuovamente ripristinata, la fratellanza e l’unità nazionale rafforzate”.

Va letto dentro questa cornice anche il progressivo assorbimento del sistema educativo e il suo rimodellamento secondo i valori dell’Emirato. Come è stato ben sintetizzato, per i Talebani sull’istruzione si gioca una vera e propria “guerra delle idee”. Era in corso già prima, quando combattevano contro la Repubblica islamica, ma è oggi che possono essere sicuri di poter gettare le basi per godere, oltre che del monopolio della violenza, del monopolio dell’istruzione. Da qui, un “costante processo di talebanizzazione, teocratizzazione e strumentalizzazione” dell’educazione che riflette una fekri jagra, o “guerra delle idee”. La quale punisce innanzitutto ragazze e donne: “Il divieto assoluto per le donne di accedere all’istruzione superiore – e per l’istruzione delle ragazze oltre la prima media – sta distruggendo la continuità, la sostenibilità e il significato di tutta l’istruzione rimanente, a qualsiasi livello”.

Persecuzione di genere, crisi umanitaria e crisi dei diritti

Secondo lo Strategic Framework per l’Afghanistan 2023–2025 reso pubblico dall’Onu il 3 luglio 2023, l’Afghanistan è “nel pieno di una crisi su una scala senza precedenti”. Una crisi multipla che ha le sue radici ai tempi della Repubblica islamica ed è stata poi radicalizzata con la restaurazione dell’Emirato. La Repubblica era un Paese-rentier, la cui spesa pubblica dipendeva perlopiù dagli aiuti stranieri. Con l’arrivo dei Talebani, sono stati congelati gli assett della Banca centrale e sottratti a Kabul gli aiuti allo sviluppo. Mantenendo in vigore solo quelli umanitari. Inferiori alle necessità e in diminuzione. La stessa Onu sostiene che la propria capacità di fornire assistenza alla popolazione è condizionata da fattori esterni, “in particolare dalle azioni delle autorità di fatto e dal sostegno dei Paesi donatori”. Le autorità di fatto hanno vietato alle donne di lavorare nelle organizzazioni non governative e nell’Onu, e intensificano le intromissioni nell’ecosistema degli aiuti. I Paesi donatori tirano i remi in barca.

Nel marzo 2023, Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, ha elaborato un Piano di risposta umanitaria che prevedeva per il 2023 uno stanziamento di 4,6 miliardi di dollari per assistere 23,7 milioni di afghani a rischio (su 40 milioni di abitanti). Il 5 giugno, riconoscendo la riluttanza dei donatori nel fornire aiuti in seguito alla decisione dei Talebani di vietare alle donne afghane di lavorare per l’Onu, la cifra è stata ridotta a 3,2 miliardi. Nell’ultimo rapporto dell’Ispettore generale speciale degli Stati Uniti per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) si fa notare che “questa riduzione dei finanziamenti di oltre 1,3 miliardi di dollari rappresenta un taglio di quasi il 30%”. Secondo l’Onu tale taglio condurrà a un’ulteriore contrazione dell’economia. Va di pari passo con la minore disponibilità dei Paesi donatori: al giugno 2023, il Piano di risposta umanitaria dell’Onu era finanziato soltanto al 14%. Il World Food Programme (Wfp) stima che 15,3 milioni di persone dovranno affrontare un’insicurezza alimentare acuta da qui a ottobre 2023. Di questi, circa 3 milioni sono sull’orlo della fame. Ma ad aprile il Wfp ha dovuto tagliare l’assistenza alimentare d’emergenza a otto milioni di persone a causa della grave carenza di fondi, e altri tagli potrebbero essere necessari.

Crisi umanitaria e crisi dei diritti si alimentano a vicenda. “Sotto il dominio talebano, la popolazione afghana sta vivendo un incubo umanitario e dei diritti umani”, ha dichiarato efficacemente Fereshta Abbasi, ricercatrice sull’Afghanistan di Human Rights Watch. L’elenco delle politiche discriminatorie verso le donne è lungo e riguarda ogni ambito della vita pubblica femminile. Secondo lo Special Rapporteur per i diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, “una grave, sistematica e istituzionalizzata discriminazione contro le donne e le ragazze è al centro dell’ideologia e del governo dei Talebani, il che fa ritenere che essi possano essere responsabili dell’apartheid di genere”. Una vera e propria persecuzione di genere, un crimine contro l’umanità secondo lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Secondo Shaharzad Akbar, già a capo dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission smantellata dai Talebani, oggi direttrice dell’associazione Rawadari, “i Talebani hanno trasformato l’Afghanistan in un cimitero di massa delle ambizioni, dei sogni e del potenziale delle donne e delle ragazze afghane”.

Alcune politiche dell’Emirato hanno avuto pesanti effetti non solo sulle donne ma sulla stessa capacità dell’Onu di fornire assistenza, sollevando interrogativi e dibattiti sui principi dell’umanitarismo e creando ostacoli pratici nelle operazioni che richiedono personale femminile per raggiungere donne e ragazze, soprattutto nelle aree rurali. In particolare il divieto annunciato il 24 dicembre 2022, che nega alle donne di lavorare con le organizzazioni non governative locali e internazionali, incluse le Nazioni Unite (le esenzioni riguardano i settori della salute e dell’istruzione). Un divieto che, ricorda Human Rights Watch nell’ultimo rapporto reso pubblico il 10 agosto 2023, “ha danneggiato gravemente i mezzi di sussistenza delle donne, poiché è impossibile determinare se le donne stiano ricevendo assistenza se non sono coinvolte nei processi di distribuzione e monitoraggio”. Nel corso del tempo sono dunque cresciute le difficoltà per le agenzie delle Nazioni Unite e per le organizzazioni non governative, divise tra due responsabilità apparentemente inconciliabili: “mantenere gli aiuti a chi ne ha più bisogno e allo stesso tempo fare pressione sui Talebani affinché pongano fine alle loro terribili violazioni dei diritti umani”. La persecuzione di genere rimane uno dei più plateali attacchi alla Carta delle Nazioni Unite e al sistema normativo internazionale.

Quale diplomazia?

La società afghana resiste, ma soffre. Avvezza ai cambi di regime politico-istituzionale, prende le misure con i nuovi reggenti. A livello locale, in alcuni casi ne riesce anche a condizionare le scelte. Dove possibile manifesta con coraggio. Ma rimane schiacciata dal peso della crisi umanitaria e dalla mancanza di coraggio e creatività politica della diplomazia euro-atlantica, che dopo aver fatto molto promesse oggi appare in stallo. Il fatto che a governare il Paese siano i Talebani, su alcuni dei quali pendono sanzioni per terrorismo che ricadono sulle istituzioni afghane, rende impossibile stabilire relazioni ordinarie. Ma non impedisce un dialogo più serrato e politicamente maturo.

A Washington, il dossier Afghanistan è terreno di scontro politico. E ancora di più lo sarà con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali. Ci si divide su bilancio e responsabilità del ritiro e delle sue conseguenze, e si procede con cauto pragmatismo, come dimostra l’incontro recente a Doha tra il rappresentante speciale per l’Afghanistan, Thomas West, e alcuni esponenti dell’Emirato. Appare ferma l’intenzione di continuare a usare la leva economica e del riconoscimento per ottenere concessioni. Una formula che non sembra produrre risultati significativi. Gli Stati Uniti – certifica il Sigar nel sessantesimo rapporto al Congresso reso pubblico il 30 luglio – rimangono comunque “il principale donatore del popolo afghano, avendo stanziato più di 2,35 miliardi di dollari dalla presa di potere dei Talebani nell’agosto 2021”.

Il rapporto tra i Talebani e i Paesi della regione è improntato a puro opportunismo, quello con la comunità diplomatica euro-atlantica è ostacolato da due fattori. La storia recente di un sanguinoso conflitto militare e politico, la cui eredità durerà ancora a lungo. E le divisioni interne sia al fronte talebano, sia a quello euro-atlantico. Del primo ha scritto con precisione Antonio Giustozzi per l’ISPI. Del secondo ha fornito un’efficace sintesi Andrew Watkins per lo United States Institute for Peace, che riprendiamo qui sotto, in cui sottolinea l’incoerenza dei messaggi inviati ai Talebani dall’esterno.

Il 5 giugno, il gruppo di monitoraggio delle sanzioni delle Nazioni Unite ha pubblicato il suo rapporto annuale sui Talebani, enfatizzando, oltre ai legami definiti simbiotici con al-Qaeda, le lotte intestine, derubricate a propaganda dagli islamisti. Il 19 giugno il relatore speciale delle Nazioni Unite Richard Bennett ha presentato il suo ultimo rapporto, nel quale come abbiamo visto, definisce le loro politiche come apartheid di genere e suggerisce che potrebbero costituire crimini contro l’umanità. Lo stesso giorno Sigar ha pubblicato un rapporto bollato anche questo dai Talebani come “propaganda”.
Il 21 giugno, il capo della missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, Rosa Otunbayeva, ha informato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Pur criticando le politiche di genere dei Talebani, ha deplorato la disattenzione verso i “risultati positivi” ottenuti dal loro governo. Mentre a maggio, dopo un viaggio in Afghanistan, Amina Mohammed, vicesegretario generale dell’Onu, ha presentato una successiva conferenza a Doha come l’occasione per “trovare quei piccoli passi per rimetterci sulla strada del riconoscimento” dell’Emirato. Il 3 luglio è stato invece il presidente Joe Biden ad affermare implicitamente che i Talebani stanno contribuendo a eliminare la minaccia di Al-Qaeda dall’Afghanistan.

Cosa vuole l’Occidente, si chiedono i Talebani? È un attore intrinsecamente ostile ai progetti di instaurazione di una vera società islamica, come ribadisce Habaitullah, o un interlocutore con cui discutere, come suggeriscono i pragmatici? Perché non riconosce la sovranità dell’Emirato? Per i Talebani, è stato osservato, la sovranità del nuovo regime è infatti “un diritto che la comunità internazionale sta negando loro, non un elemento di una lista di richieste da negoziare”. La maggior parte dei funzionari “sembra ritenere di non essere trattata in modo equo, giusto e rispettoso dalla comunità internazionale”. E sfrutta la mancanza di un approccio condiviso. Secondo l’ultimo rapporto dell’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team dell’Onu, l’Emirato si è rafforzato anche perché manca una strategia multilaterale concordata a livello internazionale su come affrontare i Talebani e con quali fini comuni. Tanto incerta è la rotta che non c’è consenso neppure sul come interpretare le politiche adottate fin qui: per qualcuno, sono troppo soft; per altri, inutilmente rigide.

L’ulteriore isolamento dell’Afghanistan va evitato

Caso esemplare su cui si condensano le divisioni è quello degli assett della Banca centrale afghana, confiscati unilateralmente con l’ordine esecutivo del febbraio 2022 del presidente statunitense Joe Biden, che ha sottratto 7 miliardi di dollari di riserve afghane depositate alla Federal Reserve di New York, mentre altri 2,5 miliardi di dollari sono depositati in altre banche, perlopiù europee. In questo modo la Banca centrale del Paese (Dab), è stata tagliata fuori dal sistema bancario internazionale, causando una crisi di liquidità e una carenza di banconote. Il 14 settembre 2022, Washington ha annunciato la creazione in Svizzera di un Fondo afghano da 3,5 miliardi di dollari, la metà di quelli confiscati negli Stati Uniti, con lo scopo di “proteggere ed erogare beni a beneficio del popolo afghano, compresi gli obiettivi di stabilizzazione del tasso di cambio e dei prezzi in Afghanistan”. Il 26 giugno scorso, mentre il board del Fondo si riuniva per la terza volta, l’Ong con base a Ginevra United Against Inhumanity (UAI) ha pubblicato un comunicato in cui chiede la “ricapitalizzazione urgente della Dab”, sottolineando che le “riserve estere sequestrate sono di proprietà del popolo afghano”.

Per UAI, “il congelamento delle riserve sovrane del Paese, un fattore critico nel crollo dell’economia e del settore bancario, equivale a una guerra economica”, ed è frutto di deliberate “politiche vendicative” da parte degli Usa e non solo. Alla base di tali scelte, ci sarebbe la difficoltà da parte degli americani e dei loro alleati di fare i conti con la sconfitta militare. “L’unica opzione etica, morale, realistica per assicurare la sopravvivenza e il futuro di milioni di afghani a rischio è ricapitalizzare la Dab”.

Una posizione a cui qualcuno replica con scetticismo. Quei soldi, sostengono gli scettici, non farebbero altro che consolidare il potere dei Talebani e di conseguenza le loro politiche repressive. Per Norah Niland, co-fondatrice di UAI con alle spalle una lunga esperienza in Afghanistan, tra l’altro come Direttrice del programma per i diritti umani della missione Onu e come Rappresentante dell’Alto Commissario per i diritti umani, la vera domanda non è se quei soldi finirebbero nelle tasche dei Talebani, ma perché riteniamo “accettabile affamare deliberatamente le persone perché non siamo d’accordo con le autorità di fatto”, dichiara all’ISPI. Senza un’economia funzionante, non si può rispondere ai bisogni essenziali della popolazione, ricorda, perché gli aiuti umanitari non possono sostituire l’economia. E per fare in modo che l’economia torni a funzionare, i Talebani e l’Occidente devono tornare a parlarsi.

Un’ipotesi che per una parte della diaspora afghana va scongiurata: non solo l’Emirato non va riconosciuto, ma con i Talebani non si deve parlare. Il rischio è la normalizzazione del regime e dell’apartheid di genere. La contrazione dei diritti e la violazione dei diritti delle donne è tale da negare l’utilità e la legittimità di ogni dialogo, dichiara all’ISPI Sediqa Moshtaq, attivista per i diritti delle donne, costretta a lasciare il Paese. Anziché costruire nuovi canali diplomatici, i ponti andrebbero tagliati. “I Talebani non sono meritevoli di legittimità senza riforme reali e senza il rispetto di tutte le libertà fondamentali. Finché non saranno rispettati i diritti umani, il mondo dovrà aumentare la pressione, non i negoziati”. Dato il “loro rifiuto di soddisfare le richieste globali di inclusione, la comunità internazionale deve condannarli e tagliare i ponti con loro”.

La stessa rivendicazione dei Talebani di aver portato sicurezza e stabilità nel Paese non regge alla prova dei fatti, sostiene Moshtaq. “La negazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali per le donne e le minoranze, l’arresto, la tortura e l’uccisione di ex militari governativi e di ex dipendenti statali dell’Afghanistan fanno sì che i Talebani non siano riusciti a garantire una reale stabilità e sicurezza”. Anziché maggiore dialogo, servirebbero più sanzioni “mirate e intelligenti”, “pressioni politiche ed economiche”, monitoraggio sul rispetto dei diritti, anche attraverso il rafforzamento della società civile “veramente indipendente”.

Per Antonio Donini, cofondatore di UAI, “parlare non significa però riconoscere né tanto meno accettare le politiche repressive dei Talebani nei confronti delle minoranze, delle donne e delle bambine”. Ma è indispensabile per evitare l’ulteriore isolamento, le cui conseguenze verrebbero pagate dalle stesse categorie che vorrebbe difendere chi nega ogni ipotesi negoziale: “Nei Paesi in crisi è importante mantenere una porta aperta, specialmente per gli aiuti umanitari e per raggiungere chi soffre di più”. Posizioni simili a quelle espresse da una parte della società civile afghana residente nel Paese. Preoccupate per la mancanza di interesse e l’apparente stanchezza finanziaria della comunità internazionale, migliaia di donne si sono rivolte all’Onu con un comunicato in cui sostengono che la “comunità internazionale ha l’obbligo morale di impedire ulteriori sofferenze”.

Di fronte all’attuale impasse, c’è bisogno di uno scarto. Dalla presa di potere dei Talebani nell’agosto 2021, è stato notato, “la modalità di impegno dominante della comunità internazionale nei confronti dei nuovi governanti dell’Afghanistan è stata quella della pressione e della leva”. Un approccio basato sul presupposto, “ampiamente condiviso da esperti e diplomatici, che il regime talebano non potesse sopravvivere senza un ingaggio con la comunità internazionale”. A due anni dalla presa del potere, quel presupposto appare errato, e quell’approccio “inefficace e controproducente”. Continuare sulla stessa rotta rischia dunque di “aggravare lo stallo diplomatico e, facendo il gioco degli integralisti, spingere ulteriormente il regime verso l’isolamento e la radicalizzazione, complicando al contempo il monitoraggio dei diritti umani”. Uscire dall’impasse è urgente. Per farlo, serve una diplomazia dei piccoli passi, dietro le quinte, costante e politicamente coraggiosa, alla ricerca dell’opzione meno peggiore, ma che più tuteli i diritti e soddisfi i bisogni della popolazione afghana. L’alternativa – il disimpegno diplomatico in nome del rispetto dei diritti umani –, è una contraddizione in termini e isolerebbe ulteriormente il Paese. Portando le autorità di fatto su posizioni ancora più autarchiche e ampliando i margini della repressione interna.

Fotografie di Giuliano Battiston

 

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