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Mese: Dicembre 2012

Donne afghane da salvare: Safia, Sabira… Continua il progetto Vite Peziose

l’Unità, 23/12/2012- di Cristiana Cella

VitePreziose2312121 150x89Quando Selay Ghaffar, direttrice esecutiva di Hawca, è stata ospite, in  ottobre scorso, della nostra redazione, ci ha parlato del grande valore che il progetto «Vite Preziose» ha avuto ed ha per le donne, vittime di  violenza, del suo Paese. Non solo per gli effetti pratici e immediati del sostegno economico ma anche per la forza dell’incoraggiamento che ricevono  dai nostri lettori, per continuare a lottare per un futuro di dignità. Il suo auspicio, in ogni conferenza e visita ufficiale in Italia, è stato quello di allargare questo ponte solidale tra la nostra società civile e la loro. In questi giorni ci ha mandato le nuove storie di donne e ragazze che ci chiedono aiuto.
Alcune ci parlano delle profonde cicatrici, lasciate dai 32 anni di ininterrotte guerre, nella vita dei cittadini afghani. Una scia di perdite e  di dolore, che travolge soprattutto le donne. La vita di una donna vale poco in Afghanistan, quella di una vedova ancora meno. È un peso per la famiglia, una presenza sconveniente. È obbligata a vivere con i parenti del marito, in genere con il cognato, che spesso la obbliga al matrimonio. Oppure la imprigiona nella sua casa, dove diventa il bersaglio del disprezzo e della violenza.
Altre ci parlano delle loro vite annientate nei matrimoni forzati, ancora bambine.

Mentre si programma il ritiro delle truppe straniere per il ’14, l’Afghanistan è sempre di più, il peggior paese per nascere donna. È l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato l’11 dicembre, a lanciare l’allarme. Il titolo parla chiaro: «C’è ancora molta strada da fare» per proteggere le donne. L’applicazione della legge Evaw ( per l’eliminazione della violenza contro le donne in Afghanistan), in vigore in Afghanistan da tre anni, è ancora troppo scarsa, molte donne non sanno nemmeno che esiste.  I casi di violenza, dice il rapporto, sono più che raddoppiati nei primi 7 mesi del 2012, rispetto all’anno precedente. Per il Governo, impegnato nelle trattative con i talebani, non è certo una priorità. Il fondamentalismo domina incontrastato il sistema legale, negando alle donne la giustizia. L’autoimmolazione è, sempre più spesso, la scelta finale. Come per Sadat, 15 anni, che non ce la faceva più a sopportare gli abusi del marito e le minacce della polizia per le sue denunce. I femminicidi vengono raramente puniti. L’emergenza riguarda i quartieri degradati delle città, come le province rurali, di difficile accesso. E non solo a causa dei talebani, che fanno con ferocia la loro parte. Leader tribali e ‘signori della guerra’, armati e finanziati, fin dagli anni ottanta, anche dall’occidente, sono sempre al potere. Molti di loro siedono in Parlamento. Nelle province che governano, controllano il territorio con milizie di ogni genere. Compagnie di sicurezza private, forze tribali, comuni gang criminali, continuano a proliferare. Pro o anti- talebani, come gli Arbaki. Lo documenta un altro rapporto,  di Human Rights Watch. Uomini armati, responsabili di stupri di donne e bambini, estorsioni, omicidi e vendette tribali. La legge è quella dei fucili. “Il governo e la comunità internazionale, spiega Heather Barr, di Human Rights Watch a Kabul,  hanno investito di potere questi comandanti e i loro gruppi permettendo loro di avere sempre più controllo sulle aree rurali e trasformandoli in milizie anti-talebane o facendoli entrare nella polizia locale. Il paese è lasciato nelle mani di questa gente”. Bilquis Roshan, senatrice di Farah, afferma: “So di casi di stupro e di omicidio ma coloro che hanno commesso questi crimini sono tuttora liberi, semplicemente perché sono comandanti molto potenti o personaggi che hanno legami con loro”. Perfino i funzionari governativi ammettono che il problema esiste, ma nessuno, sembra, lo vuole risolvere.
È in questo contesto che Hawca continua il suo lavoro di sostegno, sempre più prezioso, nonostante le difficoltà e la chiusura di alcuni Centri Legali.
Per le donne, di cui ha raccolto l’appello, c’è una possibilità. Aiutiamole  a crederci. Ecco le loro storie.

SAFIA
Ho 32 anni vivo alla periferia di Kabul. Sono nata quando i russi sono entrati nel mio Paese. La pace non so cosa sia, è un tempo lontano, nei ricordi di mia madre. Sembra una favola, finta. Era il ’96 quando mio marito è morto. Da quattro anni i capi mujahiddin si sbranavano come cani rabbiosi intorno a un osso, Kabul. Si moriva anche solo per andare a cercare un po’ d’acqua. Vivevamo come topi, chiusi, terrorizzati, nelle nostre case. Allora sono arrivati i talebani, dicendo, come dicono tutti prima di sparare, di portare la pace. Nel mio quartiere, eravamo tagiki, lì si era installato Massud per attaccare i talebani. I combattimenti erano feroci. Massud ha perso, è scappato nella sua roccaforte del Panshir. Lui e i suoi sono scappati. Ma noi siamo rimasti, da soli, a subire la vendetta talebana.
Molte persone innocenti sono state massacrate, bastava la nostra faccia, bastava che venissimo dal Panshir. Mio marito è stata una di queste vittime.  Ero giovane allora, e avevo già tre figli, molto piccoli. Per i bambini vivere era una scommessa. Il mio figlio maschio si è ammalto. Tubercolosi. Due anni fa è morto. Finché c’era lui, vivere con la famiglia di mio cognato  era sopportabile, mi difendeva. Ma da due anni, io e le mie figlie siamo prigioniere di questa famiglia. Mio cognato non vuole che vadano a scuola, né che io lavori fuori casa. Se avessi un po’ di soldi miei potrei mandarle di nuovo a scuola, potrei lasciare questa casa, dove non ci vogliono, e cercare un piccolo lavoro. Trovare almeno la pace dentro.

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Nonostante alcuni progressi, la maggior parte dei casi di violenza contro le donne non vengono perseguiti

KABUL, 11 dicembre 2012

Un report UNAMA “Still a Long Way to Go: Implementation of the Law on Elimination of Violence against Women in Afghanistan” afferma che le autorità afghane hanno compiuto progressi nell’attuazione della legge sulla eliminazione della violenza contro le donne che persegue i criminali che si sono macchiati di questi crimini. L’applicazione della legge ha continuato tuttavia ad essere ostacolata dalla drammatica sottostima delle denunce e dalla mancanza di indagini nella maggior parte dei casi di violenza contro le donne.

La relazione ha rilevato sia avanzamenti positivi che il persistere delle lacune nell’attuazione della legge sulla eliminazione della violenza contro le donne (legge “Elimination of Violence against Women” Evaw) da parte delle istituzioni giudiziarie e di polizia nell’arco di un periodo di 12 mesi, da ottobre 2011 a settembre 2012. Anche se i pubblici ministeri ei giudici sono hanno applicato la legge in un numero crescente di incidenti segnalati di violenza contro le donne, l’utilizzo complessivo della legge è rimasto basso indicando che c’è ancora molta strada da fare prima che le donne e le ragazze in Afghanistan siano completamente protette dalla violenza attraverso la legge.

“Se i progressi nell’attuazione della legge Evaw si consolideranno e si amplieranno, le donne afgane potranno assumere un ruolo più attivo nei processi di pacificazione e nella vita politica”, ha dichiarato Jan Kubis, Rappresentante Speciale del Segretario Generale per l’Afghanistan e capo di UNAMA. “i progressi nell’applicazione della legge Evaw potranno contribuire a scoraggiare pratiche nocive e la violenza contro le donne in Afghanistan che hanno a lungo impedito alle donne di partecipare alla vita pubblica e impedito alle loro voci di farsi sentire nel processo decisionale e di pace e di riconciliazione”.

Emanata nel mese di agosto 2009, questa legge criminalizza il matrimonio tra bambini, i matrimoni forzati, la vendita e l’acquisto di donne a scopo o con il pretesto del matrimonio, la pratica del “ba’ad” (dare in sposa una donna o una ragazza per risolvere una controversia), l’imposizione di auto-immolazioni e di altri 17 atti di violenza contro le donne, compreso lo stupro e il pestaggio. Specifica inoltre la punizione per i colpevoli.

UNAMA ha basato la sua relazione di 42 pagine dal titolo “Ancora una lunga strada da percorrere: Attuazione della legge sulla eliminazione della violenza contro le donne in Afghanistan” su più di 200 consultazioni con ufficiali giudiziari, di polizia e funzionari del governo e sulla sua osservazione dei casi di violenza contro le donne in tutto l’Afghanistanin un periodo di 12 mesi. Le informazioni sono state raccolte da 22 su 34 province dell’Afghanistan in materia di notifica, registrazione e processo giudiziario sullo stato di attuazione della legge Evaw applicata da 16 province in cui polizia, le procure e i tribunali hanno fornito i dati più dettagliati sui casi utilizzando le norme della legge. La relazione evidenzia anche il ruolo fondamentale e l’opera dei Dipartimenti delle provincie del Ministero deggli affari femminili e delle commissioni sull’eliminazione della violenza contro le donne.

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La morte dei bambini che non fanno notizia

Gazettenet.com – 18/12/2012 – di Vijay Prashad

Nessuna comunità subisce facilmente la morte dei bambini, nessuna morte di un bambino è per un motivo. Tutte queste morti sono senza senso.
Nel suo emotivo discorso, poco dopo la notizia del massacro a Newtown, il presidente Obama ha sottolineato la frequenza di tali crimini di massa: “Che si tratti di una scuola elementare a Newtown, o di una centro commerciale in Oregon, o un tempio in Wisconsin, o un cinema in Aurora, o un angolo di strada a Chicago – questi quartieri sono i nostri quartieri, e questi bambini sono i nostri figli “.

Quando un omicidio di massa si verifica principalmente nelle periferie dei ricchi, giustamente scuote la nazione. Ma potrebbe essere un ulteriore shock sapere che quest’anno 117 bambini sono caduti sotto la violenza di una pistola solo a Chicago? Queste morti non vengono discusse e nemmeno elaborate.

Ci sono almeno due ragioni per questo: in primo luogo, queste morti non avvengono in modo spettacolare. Si svolgono alla spicciolata, spesso nelle ore solitarie della notte, i proiettili colpiscono bambini addormentati nelle loro case, o nel pomeriggio mentre i bimbi giocano sul marciapiede.
Il 12 aprile scorso il bambino di un anno Jayliah Allen è stato ucciso mentre dormiva nel suo letto, il proiettile è entrato dalla finestra.
Aveva 7 anni Derrick Robeteau, colpito alla gamba mentre giocava vicino alla casa del nonno.

Una bambina di 7 anni è stata colpita sulla porta della sua casa.
Tre bambini colpiti da armi da fuoco in un giorno, ma non in modo spettacolare come nella scuola di Newtown. In secondo luogo, le vecchie abitudini razziste sono difficili da sradicare.
Non si parla infatti dei bambini afro-americani e latini, che vivono in quartieri pericolosi. È per questo che quando Jayliah e Derrick sono stati uccisi nessuno definì questa violenza come “insensata”. La nostra coscienza si è indurita e ci permette di accettare come ineluttabile il destino di questi ragazzi.

Non ci sono monumenti nemmeno per i 178 bambini uccisi da attacchi dei droni statunitensi nelle zone di confine del Pakistan e Afghanistan.
Noor Aziz, 8 anni – Talha, 8 –  Najibullah, 13 – Adnan, 16 – Hezbollah, 10 – Wilayat Khan, 11 – Asadullah, 9 – Sohail, 7: questi sono alcuni dei nomi dei bambini uccisi dai droni.
 Le notizie spesso riferiscono di “tre militanti uccisi”, e poi qualche giorno dopo, dalla stampa pakistana, si legge che tra i morti c’erano bambini che nulla avevano a che fare con i terroristi.
 A differenza delle strade di Chicago, ci sono state uccisioni di massa da droni, che hanno ricevuto solo un’attenzione minima. Il 30 ottobre 2006, un drone americano ha colpito una scuola di Bajaur, in Pakistan, uccidendo 83 persone, di cui solo tre avevano superato i 20 anni. Il New York Times ha pubblicato la storia 10 novembre con il titolo “l’attacco americano ha mancato di poche ore il leader n° 2 di Al-Qaeda”.
Il Times ha osservato nella storia che il drone ha colpito “una madrasa, o scuola religiosa”, ma ha lasciato le cose come stanno. Non ha detto che solo tre delle vittime erano di età superiore a 20. Il resto erano di età compresa tra 7 e 17.

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Le Nazioni Unite registrano un aumento del 28% di vittime tra i civili afghani

RIA Novosti, December 16, 2012

967 civili sono stati uccisi e 1.590 sono rimasti feriti nel corso del terzo trimestre dell’anno.
Un recente rapporto delle Nazioni Unite dice che le vittime civili in Afghanistan sono aumentate del 28 per cento tra il 1 agosto e il 31 ottobre di quest’anno, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA) ha pubblicato un nuovo rapporto nel quale si parla di almeno 967 civili uccisi e 1.590 feriti nel corso del terzo trimestre dell’anno.

Secondo il rapporto, gli insorgenti sono responsabili dell’80 per cento delle vittime civili, mentre solo il 6 per cento è il risultato di operazioni di forze di sicurezza afgane. Rimane poco chiara la causa di morte per il 10 per cento di loro.

“Scontri armati e ordigni esplosivi improvvisati hanno causato la maggior parte degli incidenti”, dice il rapporto. Circa 13.431 civili sono stati segnalati come uccisi in Afghanistan dal 2007 sino ad agosto 2012.

L’ISAF (NATO International Security Assistance Force) dovrebbe ritirare la maggior parte dei suoi 130.000 militari dall’Afghanistan entro la fine del 2014.

Circa 2.000 militari statunitensi e 1.190 truppe della coalizione sono morti in Afghanistan dall’inizio della guerra nel 2001, secondo iCasualties.org, un’organizzazione indipendente che traccia le morti.

Reportage, carcere femminile di Herat

Popoff Globalist,15 dicembre 2012 – di Giulia Migneco

Il carcere femminile di Herat rappresenta un luogo di rifugio per le donne afghane. Difficile da credere, ma dopo aver ascoltato le storie di queste donne tutto diventa più chiaro.

Il carcere femminile di Herat rappresenta un luogo di rifugio per le donne afghane. Difficile da credere, ma dopo aver ascoltato le storie di queste donne tutto diventa più chiaro. Perché nel paese dove l’annullamento della dignità femminile è l’anima di una tradizione, può succedere che l’unico modo per raggiungere un minimo di libertà e indipendenza, sia quel luogo dove generalmente la si perde del tutto. Ed è proprio così. Chiuse tra quattro mura le donne afghane vivono meglio. Possono non indossare il burqa, lavorano, giocano a pallavolo, trascorrono le loro giornate insieme ai figli, si istruiscono e per la prima volta si sentono autonome.

“Ancora oggi, la maggior dei matrimoni in Afghanistan sono combinati” – mi racconta l’interprete prima del nostro arrivo al carcere – “generalmente è la madre dello sposo a decidere la donna che il figlio dovrà sposare. A quel punto si conclude l’accordo tra le due famiglie e, spesso, viste le scarsissime possibilità economiche della popolazione afghana, i genitori sono costretti a svendere le loro figlie come spose anche contro la propria volontà. Dopo aver prescelto la donna, la famiglia dello sposo paga il mahr, ovvero il prezzo della sposa”.

Sono le dieci del mattino quando i militari ci vengono a prendere nella sala stampa della base di Herat per portarci al penitenziario. Per la prima volta vediamo anche quello che esiste oltre il confine spinato che circonda l’area dove vivono parte dei nostri militari in missione. Una superficie che la maggior parte di loro preferisce non oltrepassare.

Basta transitare il cancello per rendersi conto della povertà assoluta di quel luogo, e parliamo di una delle città più evolute e ricche dell’Afghanistan. Non esiste un codice della strada, si sorpassa dove c’è spazio e in caso di incidente ha sempre ragione il mezzo più piccolo. La maggior parte di loro viaggia su dei motorini di fortuna o con dei piccolissimi tre ruote con cui trasportano di tutto. Le donne naturalmente indossano il burqa, ma in giro ne incrociamo poche.

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Pentagono. L’Afghanistan rimane un disastro

Rinascita, 14 dicembre 2012 di Ferdinando Calda

L’ultimo rapporto del Pentagono sull’Afghanistan sembra assomigliare impietosamente a quelli degli anni scorsi, quando analisti e generali sottolineavano la violenza diffusa, la drammatica impreparazione delle truppe afgane, la corruzione endemica, l’incapacità del governo centrale e la tenacia dell’insorgenza. In pratica niente di nuovo, se non fosse che adesso gli Stati Uniti e i loro alleati Nato si devono preparare alla fine della loro missione, cercando di non ammettere l’inutilità (e la dannosità) di oltre dieci anni di sanguinosa e costosa guerra.

Mercoledì il segretario alla Difesa Usa, Leon Panetta è volato in Afghanistan (a sorpresa, come da sempre impone la sicurezza) per discutere con il presidente afgano Hamid Karzai e i comandanti Usa del piano per il ritiro dei militari stranieri e del futuro dell’impegno statunitense nel Paese.
Secondo i rumors della stampa statunitense, il generale John R. Allen, comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan, vorrebbe mantenere la maggior parte dei 68mila soldati Usa in Afghanistan almeno fino al prossimo autunno, mentre la Casa Bianca – stando a fonti militari – potrebbe spingere per un ritiro più rapido.

L’implicazione politica delle decisioni sull’Afghanistan emerge anche dalla tempistica con cui il Pentagono ha consegnato l’ultimo “Rapporto sui progressi verso la sicurezza e la stabilità in Afghanistan”. Un documento richiesto due volte l’anno dal Congresso che sarebbe dovuto essere pronto già lo scorso mese, prima delle elezioni presidenziali, ma il Pentagono ne ha rinviato la pubblicazione senza fornire alcuna spiegazione.
Nel rapporto, che riguarda il periodo tra il primo aprile e la fine di settembre, i militari sottolineano che attualmente solo una delle 23 brigate dell’esercito afgano (Ana) è in grado di operare in modo indipendente, senza l’assistenza delle truppe Usa e Nato. Inoltre il livello di violenza nel Paese è superiore rispetto a due anni fa, quando gli Stati Uniti rafforzarono la loro presenza nel Paese con il “surge” statunitense voluto dal presidente Barack Obama.

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GRAN BAZAR del nuovo e dell’usato per LE DONNE DELL’AFGHANISTAN!

Sabato 15 e domenica 16 dicembre 2012 – dalle ore 9.30 alle ore 19.30 presso

CIRCOLO ARCI ISOLOTTO – Via Maccari 104 – FIRENZE

VENDIAMO TUTTO E A POCO!
Tutto il ricavato andrà a sostegno dei progetti di OPAWC (Organizzazione per la Promozione delle Capacità delle Donne Afghane) e RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane)

Afghanistan, 200 bambini nel carcere Usa di Bagram: la denuncia di Human Rights Watch

L’Huffington Post – 12/12/2012

r KABUL large570 150x150Nella prigione della base aerea statunitense di Bagram, a nord di Kabul, sono detenuti almeno 200 ragazzini in violazione di tutte le norme internazionali. Lo ha denunciato l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch (HRW).
Una ricercatrice dell’organizzazione, Heather Barr, ha detto a Tolo Tv che “gli Stati Uniti hanno ammesso che a Bagram sono effettivamente detenuti oltre 200 bambini e adolescenti che sono stati arrestati dalle forze militari statunitensi”.

Hrw, ha precisato Barr, “ha denunciato questa specifica situazione alle Nazioni Unite” sia perché dei minori sono detenuti in una base militare, sia perché il loro trattamento è contrario alle regole internazionali.

Ad esempio, ha concluso, “molti di questi ragazzini sono tenuti in celle insieme agli adulti, cosa che non è accettabile in base agli standard internazionali”.
I bambini, inoltre, non “hanno l’accesso di cui dovrebbero godere ai servizi educativi e ad altri programmi per l’infanzia. Il direttore di Human Rights alle Nazioni Unite, Georgette Gagnon, ha assicurato che la questione verrà analizzata con attenzione e che la denuncia di Human Rights Watch non cadrà nel vuoto.

L’Afghanistan non è delle donne

Globalist,11 dicembre 2012 di Francesca Marretta

globalist dicembre 2012 150x150Ieri l’omicidio di Najia, impegnata nelle istituzioni, poco tempo prima quella di una attivista. E l’Onu presenta un dossier choccante.
Najia Siddiqi, responsabile del Dipartimento Affari Femminili della provincia di Laghman, (Afghanistan nord-orientale), è stata assassinata da “sconosciuti” a Mehtarlam la mattina del 10 dicembre, mentre si recava al lavoro. Gli aggressori le hanno sparato da un’auto in corsa. Siddiqi ricopriva la carica lasciata vacante a luglio scorso da Hanifah Safai, rimasta uccisa in un attentato dinamitardo. Nonostante fossero in pericolo di vita, sia Siddiqui che Safai erano senza scorta.

Solo pochi giorni fa nella provincia di Kapisa, confinante con quella di Laghman, è stata ammazzata la 22enne Hanisa, “rea” di lavorare a una campagna per la vaccinazione anti-polio.
Un mese fa nella zona di Kunduz è stata la volta della giovane decapitata perché il padre aveva rifiutato di darla in sposa al ceffo di turno. L’elenco potrebbe essere aggiornato ogni giorno dell’anno.

Una donna che non sparisce in un burqa, o non tiene un profilo raso-terra in Afghanistan è a rischio di vita in ogni momento. E dire che sono passati ormai undici anni dalla “vittoria” dei “nostri” su quei Talebani che mortificavano in primis le donne.
Certo, le donne oggi votano in Afghanistan e, potendo, vanno pure a scuola (eccetto nelle zone in cui gli stessi talebani o i warlords che agiscono indisturbati lo impediscono).

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La giustizia può essere raggiunta solo dalle vittime!

Nella Giornata internazionale dei diritti umani (10 dicembre) manifestazione di SAAJS (Social Association of Afghan Justice Seekers, Associazione afgana per la giustizia)

Se il 10 dicembre, la Giornata Internazionale per i diritti umani, è una formalità in alcuni paesi, per l’Afghanistan che è stato in guerra negli ultimi 34 anni, ha vissuto due invasioni da due superpotenze del mondo, è stato governato da fondamentalisti, e le sue vittime principali sono la giustizia e i diritti umani, questo giorno non può essere trattato come tale. L’Associazione afgana dei richiedenti giustizia (SAAJS), che alza la voce per ottenere la giustizia per le vittime dell’ingiustizia e dei crimini di guerra, ogni anno celebra il 10 dicembre con questa visione e necessità, in modo che documentando i crimini di guerra pone le basi per il perseguimento dei criminali e aiuta le vittime che non hanno appoggio e nessuna speranza di giustizia.

Oggi, sono passati undici anni da quando è avvenuta l’invasione militare della NATO a guida Usa e il regime fantoccio di Karzai, che è un insieme perfetto di personaggi antipopolari e criminali.
Se il nostro popolo, assetato di giustizia, che sta bruciando nell’inferno dell’ignoranza e dei crimini perpetrati dai Jihadi e Talebani, era stato dapprima ingannato dagli slogan demagogici degli Stati Uniti, è testimone oggi che la giustizia è calpestata in modo peggiore di qualsiasi altro momento nella storia del nostro paese, e le nostre donne sono le sue prime vittime.
L’Afghanistan è diventato più debole grazie alla presenza degli Stati Uniti e paesi occidentali, è stato trasformato in un terreno di gara per la rivalità tra i vari paesi del mondo, che minacciano l’integrazione del nostro paese, la nostra gente perde la vita ogni giorno, a causa del bombardamento cieco dalla Comunità internazionale e degli attacchi feroci dei talebani e Gulbuddin.

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