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Autore: Anna Santarello

12 anni fa la rivoluzione del Rojava

retekurdistan.it 20 luglio 2024

ypj Raqqa

Oggi ricorre il 12° anniversario della Rivoluzione del Rojava. Il 19 luglio 2012, i curdi hanno trovato il loro “Giorno della Libertà” quando la popolazione di Kobane ha assunto il controllo del proprio destino respingendo le forze siriane di Assad e avviando la creazione di un proprio autogoverno. Il giorno successivo, il 20 luglio, la popolazione di Afrin si è unita a loro in questo sforzo, innescando un’ondata di resistenza di successo nei giorni e nei mesi a venire in tutta la regione che è emersa come Rojava. L’eroica resistenza di questi uomini e donne curdi in difficoltà ha immediatamente ispirato la solidarietà degli spettatori di tutto il mondo e popoli di tutte le nazioni si sono mobilitati in difesa di Kobane.

Quella che è diventata nota come la Rivoluzione del Rojava ha tratto la sua diretta ispirazione dalla leadership e dagli scritti di Abdullah Öcalan; è stata un’attuazionepratica delle sue idee politiche fondamentali e un contributo unico alla politica del Kurdistan e della più ampia regione del Medio Oriente con implicazioni globali e lezioni preziose per tutti i popoli del mondo.”

Le donne sono state alla guida e continuano a svolgere un ruolo cruciale nel nuovo modello di società attuato. Tutte le diverse nazioni e credenze del Rojava e della Siria settentrionale si sono unite alla Rivoluzione del 19 luglio con le proprie caratteristiche e identità.

Hanno iniziato a lavorare insieme per costruire un nuovo sistema democratico sulla strada della democratizzazione.

Nel sistema democratico sviluppato, sono state elaborate soluzioni democratiche alle questioni relative alle donne in quanto genere oppresso, e ha iniziato a prendere forma un sistema politico e sociale come alternativa al capitale globale e al sistema capitalista.

La cosiddetta Primavera Araba è iniziata in Tunisia nel 2010 e si è diffusa in altri paesi arabi e nordafricani. Ha raggiunto anche la Siria.

Mentre il movimento popolare muoveva i primi passi in Siria, il regime Baath ha risposto con metodi oppressivi ancora più severi in vigore dal 1963 per proteggere il suo potere.

Con l’inizio della rivoluzione siriana, il 15 marzo 2011, i popoli del Rojava e della Siria settentrionale hanno invocato libertà, democrazia e uguaglianza, organizzando numerose manifestazioni.

Anche le popolazioni che vivono nel nord della Siria hanno chiesto la fine della politica di negazione imposta dal regime Baath.

Le donne del Rojava e della Siria settentrionale, con le loro diverse caratteristiche, hanno iniziato ad assumere l’iniziativa nella lotta che si era sviluppata. L’essenza del lavoro svolto nella lotta nel nord della Siria e nel Rojava è stata la lotta per la democrazia dei popoli, ma sono state le donne ad aggiungervi il loro sapore particolare.

Le idee di Öcalan hanno costituito la base dell’organizzazione

In Rojava e nel nord della Siria le donne sono state alla guida delle manifestazioni e non c’è dubbio che la prospettiva ideologica e pratica della lotta sia stata presa dalla filosofia del leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) Abdullah Öcalan. Erano contrarie alla cospirazione regionale e internazionale.

In Rojava e nel nord della Siria, le donne hanno creato la propria organizzazione nel 2005 e l’hanno chiamata Yekitiya Star.

Yekitiya Star, il primo passo nella lotta per la liberazione delle donne, ha gradualmente raggiunto un nuovo livello di organizzazione in campo politico, militare, sociale, diplomatico e culturale con l’inizio della rivoluzione.

Sebbene nella regione fossero soprattutto le donne curde ad essere coinvolte nella lotta e nell’organizzazione per la libertà, presto altre donne provenienti da tutta la regione vennero incorporate e si unirono sia alla lotta che all’organizzazione.

In questo modo l’organizzazione delle donne nata come Yekitiya Star si allargò presto fino a includere varie strutture etniche e religiose e arrivò a coprire vari campi come quello politico, militare e sociale.

Le donne hanno rafforzato la loro solidarietà nella rivoluzione siriana

Seguendo lo slogan di rafforzare la solidarietà delle donne nella rivoluzione siriana, Yekitiya Star ha fondato l’Iniziativa delle donne siriane che ha realizzato molti lavori diversi.

L’incontro preparatorio dell’Iniziativa delle donne siriane sotto la guida di Yekitiya Star è stato organizzato nella regione di Cizire con lo slogan “Qualunque sia la loro nazione, credo e società, le donne di Cizire sono una cosa sola”.

La conferenza di fondazione dell’Iniziativa delle Donne Siriane si è tenuta a Qamishlo il 28 marzo e il primo ufficio è stato aperto nella stessa Qamishlo il 17 novembre.

Sono stati organizzati programmi di formazione per le donne in diverse parti del Rojava e della Siria settentrionale. Nell’ultimo periodo si sono svolti corsi di formazione nelle nuove aree liberate. Ad Afrin, Kobane e Cizire sono state aperte Mala Jin (Casa delle Donne).

L’intesa era che le donne dovessero essere in grado di risolvere i loro problemi, di attuare i principi di giustizia sociale, di fornire sviluppo sociale contro le menti reazionarie, di partecipare in tutte le sfere della società per una società ecologica, democratica e libera.

Il 21 gennaio 2014 sono stati istituiti l’Amministrazione Autonoma Democratica e il Consiglio delle Donne. Ciò ha rafforzato le opportunità e i progetti per le donne da realizzare nei settori dell’amministrazione, della diplomazia e dell’economia.

Da Zehra Penaber a Raqqa: operazioni di liberazione

La città di Kobane è stata testimone di molte epopee storiche ed eroiche. Le Unità di Difesa delle Donne (YPJ) in questa città, hanno resistito al sistema patriarcale in nome di tutte le donne e hanno ricevuto sostegno da donne di tutto il mondo.

Dopo che l’ISIS ha attaccato Kobane il 15 settembre 2014, le donne sono state attivamente coinvolte nella difesa della città dai mercenari che minacciavano il mondo e imponevano la schiavitù alle donne.

Le donne combattenti presero posto in prima linea durante tutta la resistenza e portarono avanti numerose azioni. Arin Mirkan è diventata il simbolo della lotta con l’azione compiuta il 5 ottobre 2014.

Zehra Penaber, Hebun Derik ed Evindar, sono tra le leggendare comandanti i cui nomi passeranno alla storia. Hanno mostrato al mondo intero che le donne possono difendersi e sconfiggere i mercenari dell’Isis.

Avesta e Barin, simboli della resistenza di Afrin

Le donne hanno ottenuto risultati storici contro l’esercito turco invasore e i suoi alleati mercenari attraverso la leggendaria resistenza portata avanti sulle montagne di Afrin.

Come Arin Mirkan, Avesta Xabur è diventata un simbolo leggendario nella lotta per la libertà di tutte le donne del mondo grazie alla sua resistenza ad Afrin.

Barin Kobane è un’altra donna il cui nome è stato scritto nella storia della resistenza delle donne.

Barin Kobane, come Arin e Avesta, hanno aperto la strada a molti altri Barin, Arin e Avesta pronti a combattere contro l’ISIS e contro il fascismo nella Resistenza dell’epoca.

“I talebani hanno cercato di metterci a tacere”: i musicisti scappati in Portogallo

theguardian.com  Ashifa Kassam  22 luglio 2024

Dato che la musica è ormai un crimine in Afghanistan, Braga è diventata uno dei pochi posti in cui questa pratica viene preservata

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A due passi dalla cattedrale più antica del Portogallo e dalle vivaci panetterie che servono pastéis de nata, le note complesse di un sitar riempiono il piano terra di un edificio senza pretese nella città settentrionale di Braga.

Il lieve strimpellio smentisce la natura radicale della missione che qui ha messo radici: preservare la musica afgana e usarla come strumento per contrastare coloro che vogliono sradicarla.

“I Talebani hanno cercato di metterci a tacere”, ha detto Ahmad Sarmast, direttore dell’Istituto Nazionale di Musica dell’Afghanistan, nel suo nuovo ufficio a Braga. “Ma siamo molto più forti e molto più rumorosi di ieri”.

Lanciato nel 2010 sotto il governo di Kabul, sostenuto dagli Stati Uniti, l’istituto un tempo rappresentava un potente segno dei cambiamenti che stavano investendo l’Afghanistan. Giovani musiciste e giovani musicisti – molti dei quali provenienti da ambienti poveri – si sono esibiti insieme in ensemble che andavano da un’orchestra sinfonica nazionale a Zohra, la prima orchestra tutta femminile del paese.

AHMAD SARMAST

Hanno girato il mondo, offrendo una singolare miscela di musica afgana e occidentale mentre rivendicavano le tradizioni musicali del paese e sfidavano direttamente gli anni di silenzio imposti dai talebani. “Era un simbolo di progresso, di diritti umani e di emancipazione delle donne”, ha detto Sarmast.

Il futuro dell’istituto, tuttavia, e quello dei suoi giovani musicisti, si è oscurato nell’agosto 2021 quando i talebani sono tornati al potere.

Ramiz Safa, 20 anni, era in un negozio a Kabul, aspettando che il suo rubab – uno strumento a corde afghano – venisse riparato quando si è diffusa la notizia del ritorno dei talebani. “Tutti correvano. Qualcuno è venuto da noi e ha detto: ‘Devi andartene, perché questo è un negozio di musica’”, ha detto. “Ho preso il mio rubab e sono scappato.”

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Ha nascosto i suoi strumenti non appena è tornato a casa. Poco dopo, ha fatto un ulteriore passo avanti, andando da un barbiere per cambiare il più possibile il suo aspetto. “È stato davvero spaventoso”, ha detto.

Il ritorno dei talebani è avvenuto mentre Sarmast era in vacanza in Australia. Da 6.000 miglia (9.500 km) di distanza, ha cercato di capire come proteggere al meglio le circa 280 persone affiliate all’istituto.

“La nostra scuola era in cima alla lista dei talebani”, ha detto. Per anni l’istituto era nel mirino dei talebani, che arrivarono addirittura a piazzare una bomba durante un concerto del 2014, uccidendo una persona e lasciando Sarmast gravemente ferito.

Sarmast temeva che ci fossero poche possibilità che i musicisti e il personale venissero risparmiati. Lavorando in collaborazione con la fondazione statunitense che sostiene l’istituto, ha contattato tutti quelli a cui poteva pensare, chiedendo aiuto a politici e capi di stato.

Solo un paese ha risposto immediatamente: il Portogallo, dando il via a una lotta durata mesi che alla fine avrebbe permesso a 273 persone, tra cui musicisti, istruttori e personale, di compiere il viaggio di 4.000 miglia verso l’Europa occidentale.

Sono arrivati ​​durante la pandemia di Covid, costringendo i funzionari portoghesi ad accumulare restrizioni e confinamenti mentre lavoravano alla logistica per sistemare il grande gruppo. “Hanno fatto di tutto per accoglierci calorosamente”, ha detto Sarmast.

I giovani musicisti, la maggior parte dei quali erano stati evacuati senza le loro famiglie, erano colpiti dalla nostalgia di casa e dallo shock culturale mentre i tribunali portoghesi si dibattevano sulla questione di come gestire al meglio i minori non accompagnati.

“All’inizio è stato davvero difficile”, ha detto Farida Ahmadi, 15 anni. “Una nuova cultura, una nuova casa, una nuova lingua”. A lei Lisbona sembrava grande e confusa, e il compito di imparare il portoghese la scoraggiava.

Poiché i piani iniziali di ospitarli per alcune settimane in un ospedale militare di Lisbona si sono allungati fino a otto mesi, il morale è crollato, ha detto Sarmast. “I ragazzi erano estremamente delusi, frustrati, affrontavano conflitti culturali e il trauma di essere separati dalle loro famiglie”.

Molti erano perseguitati da ciò che si erano lasciati alle spalle. “Ogni notte sognavo i talebani”, ha detto Safa. “Ora, giorno dopo giorno, sta migliorando.”

Diversi musicisti e personale hanno deciso di andarsene, sperando di trovare migliori opportunità in luoghi come la Germania, o di ricongiungersi con una parte della famiglia più lontano.

Citando la mancanza di alloggi e il costo della vita a Lisbona, i tribunali portoghesi alla fine hanno deciso che il gruppo avrebbe dovuto essere trasferito nel nord del Portogallo, ha detto Sarmast.

Circa 70 musicisti e personale vivono ora a Braga, la terza città più grande del Portogallo. I minori non accompagnati sono affidati a due istituti e frequentano le scuole locali, mentre quelli di età superiore ai 18 anni frequentano le lezioni del conservatorio di musica. I fine settimana vengono trascorsi al conservatorio, affinando i vari ensemble dell’istituto.

download 2Un giovedì sera di questa primavera, una dozzina circa di studenti vagavano per una serie di stanze affittate dall’istituto, riunendosi in gruppi per esercitarsi con il sitar e il rubab, studiare teoria musicale e – durante le pause – appassionarsi alla musica di Ed Sheeran o finire compiti a casa

Più di due anni dopo il suo arrivo, Farida ha detto di essersi abituata ai panorami, ai suoni e agli odori del Portogallo e di poter parlare la lingua. “Ora stiamo facendo progressi”, ha detto il violinista. “Ed è qualcosa di veramente straordinario per noi.” Ancora più entusiasmante è ciò che ci aspetta: l’anno scorso l’istituto ha ottenuto l’approvazione da parte del governo portoghese affinché le famiglie dei musicisti si uniscano a loro. Anche se una tempistica deve ancora essere fissata, è una possibilità allettante dopo anni di separazione. “Lo stiamo aspettando”, ha detto Sarmast. “Tutti i bambini potranno ricongiungersi alle loro famiglie”. Nel mese di agosto gli studenti si esibiranno alla Carnegie Hall, a New York, e al Kennedy Center, a Washington DC. La menzione evoca un sorriso agrodolce di Sarmast, che sottolinea che l’ultima volta che si sono esibiti in quelle sale è stato nel 2013, annunciando un Afghanistan in cui la speranza, la libertà e i diritti delle donne cominciavano a fare progressi.

“Questa volta andrò lì con un messaggio diverso”, ha detto. “Per far sapere al mondo cosa sta succedendo in Afghanistan e chiedere alla comunità internazionale di assicurarsi che i talebani non vengano riconosciuti”.

Da quando i talebani hanno ripreso il potere, il paese è precipitato in quello che Sarmast ha descritto come un “apartheid di genere”, con l’accesso delle donne all’istruzione, al lavoro e agli spazi pubblici costantemente ridotto. All’inizio di quest’anno, i Talebani avevano annunciato che avrebbero ripreso a lapidare pubblicamente le donne.

Molti musicisti e artisti del Paese sono fuggiti, mentre quelli rimasti vivono nel terrore. “L’Afghanistan è una nazione totalmente silenziosa”, ha detto Sarmast. “Oggi imparare la musica è un crimine. Suonare la musica è ancora una volta un crimine. Ascoltare la musica è ancora una volta un crimine”.

La repressione ha amplificato l’importanza dell’istituto e ha trasformato Braga in uno dei pochi posti al mondo in cui la ricca storia musicale dell’Afghanistan viene preservata. “Se i Talebani rimarranno al potere abbastanza a lungo, entro cinque, dieci anni, molte di queste tradizioni musicali andranno perdute, perché la musica afghana è una tradizione orale”, ha detto Sarmast.

La situazione ha conferito nuova importanza alle esibizioni dell’istituto in tutto il mondo. “Quindi ora questi ragazzi non si limitano a suonare”, ha detto. “Servono anche come voce del popolo afghano”.

 

Le ragazze afghane, bandite dalla scuola, si rivolgono alle madrase

France24, 16 luglio 2024

Kaburagazze madrassal (AFP) – In una madrasa della capitale afghana, file di ragazze adolescenti si dondolano avanti e indietro recitando versetti del Corano sotto l’occhio vigile di uno studioso religioso.

Il numero di scuole islamiche è aumentato in tutto l’Afghanistan da quando i talebani sono tornati al potere nell’agosto 2021; le ragazze adolescenti hanno iniziato a frequentare sempre più lezioni dopo essere state bandite dalle scuole secondarie.

“Eravamo depresse perché ci veniva negata l’istruzione”, racconta Farah, 16 anni, con un velo che le copriva il viso e i capelli.

“Fu allora che la mia famiglia decise che almeno dovevo venire qui. L’unico posto aperto per noi ora è una madrasa.”

Invece di studiare matematica e letteratura, le ragazze si concentrano sull’apprendimento mnemonico del Corano in arabo, una lingua che la maggior parte di loro non capisce.

Chi desidera apprendere il significato dei versetti può studiare separatamente, dove un insegnante traduce e spiega il testo nella lingua locale.

L’agenzia di stampa AFP ha visitato tre madrase a Kabul e nella città meridionale di Kandahar, dove gli studiosi hanno affermato che il numero di studentesse è raddoppiato rispetto allo scorso anno.

Per Farah, il suo sogno di diventare avvocato è andato in frantumi quando le autorità talebane hanno impedito alle ragazze di frequentare la scuola secondaria e, mesi dopo, hanno proibito loro di frequentare l’università.

“I sogni di tutti sono andati perduti”, ha affermato.

Tuttavia, Farah, il cui vero nome è stato cambiato per proteggere la sua identità, come altri studenti intervistati dall’AFP per questo articolo, si ritiene fortunata perché i suoi genitori le hanno permesso di frequentare le lezioni.

Stallo dell’istruzione

Il governo talebano aderisce a un’interpretazione austera dell’Islam.

Secondo alcuni funzionari, le decisioni vengono emanate dal solitario leader supremo Hibatullah Akhundzada e dalla sua cerchia ristretta di consiglieri religiosi, contrari all’istruzione delle ragazze e delle donne.

Akhundzada ha ordinato la costruzione di centinaia di nuove madrase mentre fonda il suo Emirato Islamico sulla base della sharia.

Le autorità di Kabul hanno addotto diverse scuse per la chiusura delle scuole femminili, tra cui la necessità di classi separate e di uniformi islamiche, in gran parte già in vigore.

Il governo insiste sul fatto che prima o poi le scuole riapriranno.

L’istruzione è il principale punto di disaccordo con la comunità internazionale, che ha condannato la privazione delle libertà delle donne e delle ragazze.

Nessun paese ha riconosciuto il governo talebano, che sta lottando per tenere a galla un’economia in cui più della metà della popolazione soffre la fame, secondo le agenzie umanitarie.

Hosna, ex studentessa universitaria di medicina, ora insegna in una madrasa di Kandahar, dove legge versetti del Corano a una classe di oltre 30 ragazze, che a loro volta gli ripetono le parole.

“Studiare all’università aiuta a costruire un futuro e ci rende consapevoli dei nostri diritti”, ha affermato.

“Ma non c’è futuro nelle madrase. Stanno studiando qui perché sono indifesi.”

La madrasa, situata in un vecchio edificio, è dotata di piccole aule prive di elettricità.

Nonostante le difficoltà finanziarie a cui deve far fronte la direzione della scuola, decine di studenti frequentano le lezioni gratuitamente.

Amicizia e distrazione

Il valore educativo delle madrase è oggetto di un acceso dibattito: gli esperti sostengono che non forniscono le competenze necessarie per trovare un impiego retribuito in età adulta.

“Date le attuali condizioni, la necessità di un’istruzione moderna è una priorità”, ha affermato Abdul Bari Madani, uno studioso che appare spesso nelle televisioni locali per discutere di questioni religiose.

“Bisogna impegnarsi affinché il mondo islamico non resti indietro… abbandonare l’istruzione moderna è come tradire la nazione.”

In tutto il mondo, alcune madrase sono state associate alla militanza.

Molti dei leader talebani si sono formati presso la madrasa Darul Uloom Haqqania in Pakistan, che si è guadagnata il soprannome di “Università della Jihad”.

Niamatullah Ulfat, responsabile degli studi islamici presso il dipartimento dell’istruzione della provincia di Kandahar, ha affermato che il governo “sta riflettendo giorno e notte su come incrementare le madrase”.

“L’idea è che possiamo portare al mondo la nuova generazione di questo Paese con una buona formazione, buoni insegnamenti e una buona etica”, ha detto all’AFP.

Yalda, il cui padre è un ingegnere e la madre un’insegnante sotto il regime deposto sostenuto dagli Stati Uniti, era la prima della classe nella sua vecchia scuola, ma eccelle ancora nella madrasa e ha imparato a memoria il Corano in 15 mesi.

“Una madrasa non può aiutarmi a diventare un medico… Ma è comunque una buona cosa. È una buona cosa per ampliare la nostra conoscenza religiosa”, ha detto il sedicenne.

La madrasa, alla periferia di Kabul, è divisa in due blocchi: uno per le ragazze e l’altro per i ragazzi.

Tuttavia, le lezioni si tengono in orari diversi per garantire che non vi sia alcuna interazione tra i due sessi.

Diverse ragazze hanno dichiarato all’AFP che frequentare una madrasa offre un certo stimolo e l’opportunità di stare con gli amici.

“Mi dico che un giorno le scuole potrebbero riaprire e la mia istruzione riprenderà”, ha detto Sara.

In caso contrario, è determinata a imparare in un modo o nell’altro.

“Ora che ci sono gli smartphone e Internet… la scuola non è più l’unico modo per ricevere un’istruzione”, ha aggiunto.

[Trad. automatica]

 

 

Tempeste e piogge torrenziali causano almeno 47 vittime nell’est dell’Afghanistan

Internazionale, 17 luglio 2024

Almeno 47 persone sono morte e 350 afghanistan_alluvioni_copy.jpgsono rimaste ferite nelle tempeste, accompagnate da piogge torrenziali, che hanno devastato interi quartieri della città di Jalalabad e alcuni villaggi della zona, hanno annunciato il 16 luglio le autorità.

Il bilancio precedente era di 35 morti e 230 feriti, ma un funzionario aveva avvertito che il numero delle vittime nella provincia orientale di Nangarhar era destinato ad aumentare.

Annunciando il nuovo bilancio sul social network X, Saifullah Khalid, responsabile dell’autorità provinciale per la gestione delle crisi, ha aggiunto che le tempeste hanno distrutto quattrocento case, sessanta tralicci dell’elettricità e molti terreni agricoli.

Un portavoce del ministero della salute afgano ha affermato che le organizzazioni umanitarie internazionali si sono attivate per aiutare le comunità colpite ed evitare possibili epidemie.

“Nel villaggio di Charbagh Safa quasi tutte le case sono state distrutte o danneggiate, e sono morti undici membri di una stessa famiglia”, ha dichiarato all’Afp Samiullah Raeeskhil, un abitante del posto.

Alluvioni catastrofiche

Negli ultimi mesi l’Afghanistan, uno dei paesi più colpiti dalla crisi climatica, ha subìto una serie di alluvioni catastrofiche, con almeno 66 vittime nella provincia settentrionale di Faryab e 55 in quella centroccidentale di Ghowr a maggio.

Lo stesso mese la provincia settentrionale di Baghlan è stata colpita da alluvioni improvvise e devastanti che hanno causato la morte di almeno trecento persone, oltre a gravi danni materiali.

Il paese ha registrato una primavera insolitamente umida dopo un inverno eccezionalmente secco.

L’Afghanistan è uno dei paesi più poveri del mondo e le case sono spesso costruite con materiali di scarsa qualità o terra battuta, mentre i servizi di emergenza soffrono di croniche carenze di risorse.

Le ambizioni di Erdoğan

Contropiano, 17 luglio 2024, di Carla Gagliardini  erdogan e bandiera turca 720x300

Intervista a Murat Cinar. Murat Cinar vive in Italia da oltre vent’anni. E’ un giornalista esperto di Turchia, suo Paese natale, e di Medio Oriente. Collabora con diverse testate giornalistiche, sia in Italia che in Turchia, tra le quali Il Manifesto. Con un occhio fisso sulla politica di Erdoğan, ha tracciato la situazione attuale dei curdi in Turchia e il ruolo che Ankara intende giocare nella regione mediorientale.

Quali sono i rapporti apparenti tra Israele e Turchia e quali invece quelli sotterranei?

Apparentemente il governo centrale turco, sostenendo direttamente e concretamente Hamas, inclusi i dirigenti, e non definendola organizzazione terroristica, sembra schierato in modo chiaro contro Israele, contro Netanyahu e i suoi ministri. Dichiara che Israele è uno stato terrorista, che sta commettendo un genocidio. La Turchia si è affiancata all’accusa mossa dal Sudafrica nel processo presso la ICJ (Corte Internazionale di Giustizia) contro Israele. Ci sono dunque elementi per sostenere che appoggia non solo la Palestina ma addirittura Hamas. Il governo ha anche ammesso che sta curando più di mille militanti di Hamas negli ospedali turchi.

Però ci sono altri elementi che dimostrano che tra Turchia e Israele ci sono forti relazioni commerciali, come il commercio di acciaio, di filo spinato, di energia, di alimenti per i militari israeliani al fronte e molto altro. Nonostante in apparenza i rapporti tra Israele e Turchia siano tesi, Netanyahu non blocca l’ingresso delle navi turche nei porti israeliani e il commercio tra i due Stati non è mai cessato, nemmeno ridotto. Quindi la Turchia in qualche modo sostiene de facto le operazioni militari, l’isolamento dei palestinesi e la loro espulsione. Fino a qualche anno fa c’erano persino accordi militari.

Non c’è dubbio sul fatto che la Turchia abbia portato alcuni aiuti umanitari in sostegno al popolo palestinese e a Hamas. L’ha fatto attraverso le organizzazioni religiose, effettuando un pagamento allo Stato di Israele, come fanno anche le ONG statunitensi e italiane. Questo avveniva anche prima di Erdoğan. Con la sua presidenza però Hamas ha trovato più spazio e più visibilità pubblica. I leader di Hamas partecipano a feste di politici turchi, intervengono nel parlamento turco e altro ancora. In Turchia sono cresciute le associazioni fondamentaliste che raccolgono soldi per le organizzazioni fondamentaliste e armate in Palestina. Questi finanziamenti vengono fatti in modo non tracciato. Forse questo fenomeno esisteva anche prima di Erdoğan, ma non in modo così consistente.

Con Erdoğan la Turchia ha poi intensificato i rapporti con il Qatar e entrambi i Paesi hanno abbracciato Hamas. Il Qatar lo arma e ospita i suoi leader e la Turchia invece li ospita per darne risalto politico. Militarmente, ideologicamente ed economicamente la Turchia e il Qatar hanno sempre sostenuto Hamas nel corso del tempo.

Come vive Hamas questa contraddizione che vede la Turchia usare toni molto accesi contro Israele e poi però proseguire nelle relazioni commerciali che facilitano la guerra di Israele su Gaza?

Hamas non mette in discussione la solidarietà della Turchia al popolo palestinese e non trasforma in un problema i rapporti tra Turchia e Israele. Nei suoi comunicati denuncia quei Paesi che continuano a avere rapporti commerciali con Israele ma non cita mai la Turchia. Hamas tiene la bocca chiusa perché ha bisogno di un alleato grande e importante come la Turchia, che potrebbe aiutarlo a trattare e a trovare delle soluzioni alla guerra in corso. Oggi si parla della possibilità dei dirigenti di Hamas di trovare rifugio in Turchia. Hamas, come ho già detto, è di casa in Turchia. C’è un atteggiamento molto pragmatico.

Hamas sta vincendo per certi versi ma perdendo sul lungo periodo. lo stesso vale per Israele.

Come interpreti il comportamento dei Paesi arabi in questo tragico contesto che vede Gaza ormai da più di sette mesi sotto un incessante fuoco israeliano che ha raso al suolo la Striscia?

I paesi arabi che manifestano la solidarietà ai palestinesi in realtà non se ne occupano troppo della questione e questo comportamento ha portato alla situazione attuale.

Gli accordi di Abramo tra i Paesi arabi e Israele avevano come fine, in primo luogo, il ripristino delle relazioni militari e commerciali tra i firmatari; mentre si è scelto di rinviare la questione palestinese, seppure se n’è discusso, a un secondo momento. Il Marocco e gli Emirati Arabi hanno firmato gli accordi dicendo che avrebbero condotto a un cambiamento. Tutti hanno portato a casa il risultato più utile per loro ma non per i palestinesi.

L’intervento di Hamas del 7 ottobre scorso era latente, ma non riesco ad avere una posizione netta e chiara su quegli eventi. Potevamo aspettarcelo nel 2020 è nel 2023. In altri momenti magari meno, però non è nato tutto il 7 ottobre. Anche se è vero che è avvenuto dopo un anno da questi accordi, è difficile dire se sia stata un’azione di sabotaggio degli accordi di Abramo. Per il momento non ho ancora ben chiaro lo scenario che sta dietro al 7 ottobre. Occorre aspettare che emergano più informazioni.

Posso dire però che tanto il nazionalismo quanto il fondamentalismo non vogliono la fine della guerra perché questi esistono grazie al conflitto armato e al disagio sociale. La fine di un conflitto armato colpisce anche le formazioni militari che vivono di queste contrapposizioni.

Qual è il ruolo che Erdoğan vuole giocare sullo scacchiere mediorientale e come pensa di poterlo realizzare?

Erdoğan è stato bravo in questi ultimi vent’anni a collegare la politica interna a quella estera. Su ogni fronte ha provato a costruire un percorso di successo, colto da pochi. Nel momento in cui subisce una sconfitta a livello locale fa un’inversione a U in quella estera per portare a casa l’immagine di un governo che ha ottimi rapporti con il resto del mondo. Si assicura di attrarre nel Paese soldi, investimenti e rispetto a livello internazionale. La risposta al calo di consensi interni la risolve spingendo sulle relazioni internazionali.

Di esempi ce ne sono tanti, come quando ha fatto la voce grossa contro l’Unione Europea per la questione dei migranti, minacciando di spedire i rifugiati in Europa se questa non avesse pagato quello che la Turchia chiedeva. Si rivolgeva soprattutto al suo interno, ossia diceva al popolo turco che i rifugiati sarebbero restati in Turchia ma a spese e con i soldi degli europei. Il tema migratorio per lui è un problema perché gli porta poco consenso. I turchi non li vogliono e i partiti xenofobi si fanno avanti, hanno iniziato a parlare anche di deportazioni. Erdoğan ha giocato benissimo la carta a livello internazionale con l’Europa, grazie anche all’insuccesso della dirigenza europea che ha costruito un rapporto di dipendenza con il presidente turco. Germania, Francia e Italia si sono fatte tutte ricattare da lui.

E’ significativa l’inversione di marcia che il presidente turco ha fatto con Salih Muslim, leader del PYD (Partito dell’Unione Democratica), attivo nella Federazione del Nord della Siria, che nel 2013 veniva accolto con il tappeto rosso a Ankara e a Istanbul, e dopo solo due anni si è ritrovato nella posizione di nemico. Contro di lui è stato avviato un processo in Turchia e spiccato un mandato di cattura dell’Interpol nel 2016 per attività terroristica. Era finita quella fase. Non era più necessario tentare la normalizzazione dei rapporti e mostrare una parvenza di democrazia nella Repubblica di Turchia, perché Erdoğan ha visto che le YPG e le YPJ, le formazioni armate dei curdi nel Rojava, nel nord della Siria, acquistavano consenso internazionale grazie alla loro lotta contro l’ISIS. A quel punto ha deciso di indietreggiare perché quell’apertura non gli rendeva più e gli creava problemi interni.

Per spiegare con un altro esempio le sue inversioni di marcia è sufficiente vedere cosa è capitato nel 2016 con il tentativo di golpe contro di lui. I giornali e il governo hanno iniziato ad accusare gli Emirati Arabi di essere dietro alla manovra, seppure non sia stata fornita una sola prova a sostegno della tesi del loro coinvolgimento. Due anni fa i rapporti con gli Emirati sono stati ripristinati, hanno addirittura conosciuto una stagione luminosa con esercitazioni militari congiunte.

Anche con Barzani, che è presidente del Kurdistan iracheno e leader del PDK (Partito Democratico del Kurdistan), la base è l’affarismo. Barzani ha rinunciato all’indipendenza del Kurdistan iracheno, cavallo di battaglia del padre, che è stato una delle figure importanti del PDK. Ha capito che così può avere un buon rapporto con la Turchia e fare affari e a Erdoğan va molto bene, nonostante i problemi che ci sono nell’area.

Egitto (1), Barzani, Emirati Arabi sono tutte inversioni di marcia. Adesso forse ce ne sarà un’altra con Bashar al-Assad. Da un paio d’anni si parla di inizio dei rapporti di normalizzazione tra la Siria e la Turchia e Erdoğan si è reso disponibile all’apertura, facendo intrattenere relazioni tra i servizi segreti turchi e quelli siriani. E’ passato dal denunciare al-Assad di essere un macellaio alla trattativa sul ripristino delle relazioni, senza che nulla sia cambiato nei fatti, ossia al-Assad è sempre lo stesso.

La gestione delle relazioni internazionali, oltre a puntare a un successo in patria, è volta anche a favorire la famiglia di Erdoğan che ha interessi economici e commerciali di cui si avvantaggia quando vengono stretti rapporti con gli altri Paesi, come gli Emirati Arabi. Ci guadagna la sua famiglia e le persone a lui vicine che così lo sostengono.

Qual è la situazione attuale per i curdi in Turchia e come prevedi che possa cambiare lo scenario politico da qui fino alle prossime elezioni presidenziali, dopo le recenti elezioni presidenziali e amministrative che hanno visto l’AKP, il partito di Erdoğan, fortemente in difficoltà?

La Turchia è uno stato nazionalista, imperialista e sciovinista. Erdoğan porta avanti questa cultura. Le scelte di Ankara in merito ai curdi hanno due approcci: uno è molto pragmatico, opportunista, affarista e che trova attori, complici e protagonisti sia all’interno che all’esterno del Paese. Il partito più votato dai curdi è quello di Erdoğan. Il territorio a sud-est è molto militarizzato ma anche vittima di una urbanizzazione e industrializzazione enormi grazie a Erdoğan ma anche al mondo della cultura, dell’arte e dell’impresa curda che collabora con lui. Il presidente turco, a differenza dei governi degli anni ‘60, ‘70 e ‘80 non ha un approccio palesemente razzista, non vuole negare l’esistenza dei curdi, sicuramente ha dei limiti in merito al riconoscimento di diritti autonomi in senso lato a favore dei curdi ma è felice di camminare con quei curdi che gli tornano utili. Ci sono moltissimi sindaci, parlamentari, ministri e consiglieri comunali curdi che fanno capo a Erdoğan. Questi politici curdi non rivendicano il diritto a parlare la lingua madre né che si possa fare la registrazione dei nomi in lingua curda nei registri anagrafici.

Questa relazione la mantiene con alcuni curdi anche all’esterno, tanto in Siria quanto in Iraq. Anche qui si avvale di “curdi utili”, dialoga con taluni partiti curdi e chiude le porte ad altri. Ovviamente la scelta di tenere un comportamento positivo dipende dagli interessi che condivide con certe culture imprenditoriali e amministrative, mentre porta avanti delle vere e proprie crociate, usando la sua forza militare e economica, contro i curdi che gli sono contro, in particolare all’estero contro quei partiti che hanno il braccio armato oppure esprimono simpatia nei confronti di queste formazioni ribelli.

Lo stesso atteggiamento lo tiene in Turchia. Dopo aver quasi cancellato la presenza delle formazioni militari curde nel Paese, adesso è passato alla cancellazione di quelle formazioni parlamentari e politiche che chiedono il riconoscimento e la garanzia dei diritti dei curdi a livello legislativo e costituzionale. Purtroppo non è solo Erdoğan a farlo ma anche i suoi alleati come Huda-par, partito curdo fondamentalista, e gli altri partiti estremisti e nazionalisti.

Attualmente porta avanti la sua crociata contro il DEM (Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli), prima HDP (Partito Democratico dei Popoli). Proprio sabato scorso il co-presidente dell’HDP, Selahattin Demirtas, e la co-presidente, Figen Yüksekdag, sono stati condannati rispettivamente a 42 e 30 anni di prigione. Altri sono stati scarcerati per gravi problemi di salute e altri ancora hanno abbandonato la barca e si sono schierati con Erdoğan e quindi sono stati assolti. Il “curdo utile” viene premiato perché il presidente turco sa che deve aumentare la sua simpatia tra l’elettorato curdo, che è generalmente molto conservatore, con una cultura feudale ed è figlio di una tradizione anticomunista storica che è alle basi fondatrici della Repubblica di Turchia. Erdoğan lavora alacremente su questo.

Certo non capitano le cose che avvenivano negli anni ‘90, ossia un sindaco curdo che gli sia contro non viene ammazzato ma in compenso viene condannato a tanti anni di galera, subisce la censura, viene rimosso dal suo incarico e sostituito da un commissario straordinario, finisce in esilio, viene privato del diritto di circolazione, il passaporto viene requisito e i beni confiscati. In questo modo obbliga le persone a lasciare la Turchia.

Dopo il tentativo di dialogo con i curdi del 2015, che era parzialmente un gesto positivo, Erdoğan ha realizzato che con la nascita dell’HDP ci sarebbe stato spazio per la trasformazione democratica della repubblica, sia per i curdi che per i turchi perché questo partito è stato un eccellente esempio di unione tra la componente socialista e quella comunista turca e curda. Hanno dimostrato di essere capaci di trovare un accordo per collaborare e per dare vita a un partito che è arrivato quasi al 16%. A quel punto Erdoğan ha realizzato che non era la soluzione che voleva lui.

Nel 2015 Erdoğan si è preso uno schiaffo elettorale ed è andato in difficoltà con gli alleati proprio quando era all’apice della trasformazione della giustizia per piegarla ai suoi interessi. Ha avuto una grande paura, dovuta anche a quanto aveva assistito l’anno prima, quando ha visto i figli di alleati e persone vicine a lui finire sotto indagine. Ha temuto che se avesse perso il potere o addirittura non fosse stato rieletto avrebbe potuto subire anche lui un’inchiesta e andare in prigione. Così ha lanciato la crociata contro l’HDP, che era cresciuto molto, e poi nei confronti di quegli alleati che lo stavano abbandonando. Da quel momento governa la Turchia con questi due principi: la trasformazione dittatoriale di tutti i sistemi burocratici (istruzione, polizia, servizi segreti, esercito, giustizia, etc.) e l’eliminazione totale di tutte le voci dell’opposizione, in primis l’HDP, naturalmente.

Cosa ci possiamo aspettare?

Non credo ci saranno cambiamenti né a livello nazionale né sul piano internazionale. Penso che la repressione delle anime socialiste e comuniste curde proseguirà mentre continueranno le collaborazioni con i “curdi utili”, che anzi si consolideranno sia all’interno che all’esterno della Turchia.

Nota: (1) A febbraio 2024 sono riprese le relazioni tra Turchia e Egitto, interrotte nel 2013 a seguito del colpo di stato in Egitto e l’arresto dell’ex-presidente Mohammed Morsi, vicino a Erdoğan.

Il controllo violento dei Talebani anche sullo sport. Disconosciute le tre olimpioniche

Il Manifesto, 16 luglio 2024, di Giuliano Battiston  Kimia Yousofi

AFGHANISTAN. Discriminate le atlete che rappresenteranno il Paese a Parigi. La velocista Yousofi: «Noi private di tutti i diritti tra cui l’istruzione, il più importante»

«Sebbene i donatori debbano continuare a fare pressione sui leader talebani affinché pongano fine alle loro violazioni dei diritti delle donne e delle ragazze, limitare il sostegno all’Afghanistan a livelli sempre più bassi di aiuti umanitari per isolarli non è la risposta». Così scrivono Patricia Gossman, direttore associato della divisione Asia di Human Rights Watch, e Fereshta Abbasi, ricercatrice sull’Afghanistan della stessa associazione, in un articolo pubblicato l’11 luglio su The New Humanitarian.

Nell’articolo enfatizzano due punti fondamentali. Il primo è un dato di fatto: «Non c’è modo di affrontare gli acuti problemi dell’Afghanistan evitando del tutto i Talebani». Il secondo è il dilemma che ne deriva: «Dato che i Talebani hanno interferito anche con l’assistenza umanitaria, impedendo alle donne di lavorare per le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie internazionali, tranne che nei settori della sanità, della nutrizione e dell’istruzione, cosa si può fare?».

Per Gossman e Abbasi, visto che «le donne e le ragazze sono quelle che hanno sofferto di più sotto le politiche discriminatorie dei Talebani, perché non solo sono state escluse dall’istruzione oltre la prima media e da molte opportunità di lavoro, ma sono anche tra le più colpite dalla crisi umanitaria», un principled engagement, un «confronto basato su principi è l’unica scelta possibile».

A lungo termine, però, «ancora più importante degli aiuti umanitari è l’assistenza diretta a soluzioni durature su scala nazionale» in settori come «la gestione delle risorse idriche, l’irrigazione, l’agricoltura, l’adattamento al clima e la salute pubblica», un approccio che sta provando ad adottare la Banca mondiale con progetti realizzati da e per le donne, al di fuori del controllo dei Talebani.

Un controllo che rimane estremamente violento, come mostra il recente rapporto del servizio Diritti umani di Unama, la missione dell’Onu in Afghanistan, dedicato in particolare alle attività del ministero per la Promozione della Virtù e la prevenzione del vizio: De Facto Authorities’ Moral Oversight in Afghanistan: Impacts on Human Rights. Secondo il rapporto tra il 15 agosto 2021 – giorno del ritorno al potere dei Talebani – e il 31 marzo 2024 ci sarebbero stati 1.033 casi documentati di applicazione della forza e violazione delle libertà personali, con danni fisici e mentali, con un «impatto discriminatorio sulle donne», contribuendo «a creare un clima di paura». Per Zabiullah Mujahid, portavoce dell’Emirato, i ricercatori di Unama sbagliano, perché valutano l’Afghanistan da una prospettiva occidentale, non secondo quella islamica. Per Hamdullah Fetrat, suo vice, le critiche sono «infondate. Da quando l’Emirato islamico è salito al potere, i diritti della Sharia di tutti i cittadini, siano essi donne o uomini, sono stati garantiti e tutti sono trattati secondo la Sharia».

Trattamento diseguale, invece, per i 3 atleti e le 3 atlete afghane che dovrebbero rappresentare l’Afghanistan alle Olimpiadi di Parigi. Dopo che il Comitato olimpico internazionale ha annunciato che la formazione sarebbe stata composta da sei atleti, appunto 3 uomini e 3 donne, Atal Mashwani, portavoce del Dipartimento dello sport ha disconosciuto le atlete: «Attualmente lo sport femminile è interrotto in Afghanistan. Se non praticano sport, come possono far parte di un team nazionale?».

La replica arriva dall’Australia, da una delle tre atlete, la centometrista Kimia Yousofi: «È un onore rappresentare ancora una volta le ragazze della mia patria. Ragazze e donne che sono state private dei diritti fondamentali, tra cui l’istruzione, che è il più importante».

Un religioso sostenitore dei talebani: le donne che protestano dovrebbero sfilare nude per le strade di Kabul

RAWA News, 15 luglio 2024  zarmeena paryani mullah

Nel video afferma che le donne che desiderano la libertà dovrebbero essere spogliate nude, equiparando il desiderio di libertà alla prostituzione.

In una dura reazione alle dichiarazioni di Zarmina Paryani, un religioso filo-talebano del Panjshir ha chiesto di spogliare completamente le donne che protestavano per le strade di Kabul.

Zarmina Paryani, una donna afghana che ha protestato contro i talebani, è stata imprigionata e torturata a Kabul. È riuscita a fuggire dall’Afghanistan con diverse delle sue sorelle e ha cercato asilo in Germania. In un post su Facebook, ha rivelato che i talebani l’avevano spogliata con la forza in prigione e le avevano scattato delle foto. Zarmina e le sue tre sorelle sono state arrestate a Kabul all’inizio del 2022 e, dopo aver sopportato oltre tre settimane di prigionia e torture, sono state rilasciate. Le sue rivelazioni hanno avuto un’ampia copertura sui social media e hanno scatenato l’indignazione collettiva contro i talebani. La sua rivelazione ha coinciso con un rapporto di “The Guardian” che ha denunciato lo stupro di massa di prigioniere da parte dei talebani.

In seguito, sui social media è emerso un video in cui Mulavi Yahya Anaba, un religioso filo-talebano del Panjshir, accusa Zarmina Paryani di blasfemia. Ha affermato che i talebani avrebbero dovuto spogliarla completamente nuda non nelle stanze degli interrogatori, ma nelle strade di Kabul. Ha affermato che i talebani avrebbero dovuto strapparle i vestiti e renderla completamente nuda a un incrocio di Kabul come lezione per le altre donne che cercano la libertà.

Nel video afferma che le donne che desiderano la libertà dovrebbero essere spogliate nude, equiparando il desiderio di libertà alla prostituzione.

[Trad. automatica]

Il governo iracheno condanna gli attacchi turchi

Contropiano, 15 luglio 2024, di Carla Gagliardini Iraq nord 720x300

Giovedì 11 luglio, dopo quasi un mese dall’inizio dell’operazione militare della Turchia nel Governatorato di Duhok, nel nord dell’Iraq, nella Regione del Kurdistan iracheno, il governo di Baghdad ha finalmente protestato. Fino ad ora l’operazione militare, promessa dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan lo scorso aprile, annunciata a seguito della sua visita in Iraq, ha portato distruzioni, incendi ed l’evacuazione di persone minacciate dai bombardamenti e dagli scontri che i soldati turchi hanno ingaggiato con il PKK.

L’obiettivo militare è quello di proseguire nella costruzione di una buffer-zone, zona cuscinetto che parte dal confine turco e si estende per circa 30-40 km in profondità nel territorio iracheno, parzialmente già avviata negli anni precedenti, che la Turchia vuole sotto il proprio controllo per spezzare il corridoio del PKK verso il Rojava, in Siria. Erdogan infatti ad aprile ha dichiarato che ci sarebbero stati interventi militari anche in quella zona, dove sono prese di mira le YPG (Unità di protezione popolare), vicine al PKK.

Il KDP (Partito democratico del Kurdistan), partito al governo della Regione del Kurdistan iracheno, nonostante Duhok sia un distretto della Regione, fino ad oggi venerdì 12 luglio non ha protestato per gli attacchi turchi sul suo territorio, che stanno mettendo a rischio i civili. Non l’ha fatto neppure quando la Turchia ha iniziato a gennaio di quest’anno la realizzazione di nuove strade che congiungono le basi militari costruite in quella zona nel 2021 durante un’altra operazione militare, denominata Claw lightening.

Continua a non farlo nemmeno di fronte alla creazione, lo scorso 25 giugno, di checkpoint turchi che controllano il passaggio delle persone sul territorio del Kurdistan iracheno. Si tratta di un’evidente ulteriore limitazione della sovranità dello Stato iracheno e della stessa Regione del Kurdistan iracheno che certamente allarma Baghdad.

Ad aprile il governo federale iracheno, nonostante proprio in quei giorni ospitasse il presidente turco Erdogan, aveva costruito due basi militari nella zona di Batifa, nel Kurdistan iracheno, per scongiurare un nuovo avanzamento delle forze armate turche nella regione. Contemporaneamente però erano arrivati sia da Baghdad che da Ankara segnali di avvicinamento e di una possibile politica comune contro il PKK, sfociata nella messa fuorilegge dell’organizzazione da parte dell’Iraq.

L’Iraq è un paese a sovranità limitatissima, con la presenza di diverse forze straniere sul suo territorio e basi militari straniere, una difficile situazione politica, determinata anche dalle pressioni esercitate dai tanti attori regionali e non, con la questione ancora irrisolta dei territori contesi con il Kurdistan iracheno e la minaccia, oggi non più pressante come in passato, della volontà separatista del KDP. Aggrava la sua situazione l’emergenza idrica e la necessità di investimenti importanti nel suo territorio, problemi che Ankara si è offerta di risolvere ma volendo qualcosa in cambio, giocando proprio con le fragilità dell’Iraq e cercando di trarne vantaggio.

Dopo le isolate proteste del PUK (Unione patriottica del Kurdistan), ieri una una delegazione del governo federale guidata dal Consigliere per la sicurezza nazionale, Qasim al-Araji, è giunta nella capitale della regione del Kurdistan iracheno, Erbil, per discutere la situazione in corso nel governatorato di Duhok. Il giorno precedente il Primo Ministro Al-Sudani aveva riunito il Consiglio di sicurezza nazionale, al termine del quale erano state condannate le incursioni militari turche, così come le violazioni territoriali.

Il Consiglio aveva poi richiamato la Turchia a rispettare i principi di buon vicinato e a utilizzare i canali diplomatici con Baghdad per affrontare ogni preoccupazione legata alla sua sicurezza. Aveva infine auspicato che si raggiungesse un fronte comune sulle posizioni del governo federale per impedire che forze straniere potessero condurre attacchi militari sul suo territorio o che questo potesse essere utilizzato per azioni militari in Paesi vicini.

Secondo Shafaq News, Al-Sudani vorrebbe trovare una linea comune con Erbil per non restringere ulteriormente la sovranità del Paese. Non sarà facile, data la stretta alleanza tra il KDP e il governo di Ankara. La debolezza dell’Iraq e la necessità di alleanze e investimenti, inclusi quelli turchi, sono il tallone d’Achille per il Paese e l’arma di ricatto per la Turchia.

Il Congresso nazionale del Kurdistan (KNK), ha pubblicato sul suo sito una lettera aperta indirizzata a Ahmed Aboul Gheit, Segretario generale della Lega dei Paesi arabi, a Mohammed Shia’ Al Sudani, Primo Ministri dell’Iraq, a Bashar al-Assad, Presidente della Siria, a António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, a Biden, Presidente degli Stati Uniti, a Marija Pejčinović Burić, Segretario Generale del Consiglio d’Europa, a Ursula von der Leyen, Presidente dell’Unione Europea e a Jens Stoltenberg, Segretario Generale della NATO con la quale chiede “di prendere azioni urgenti e decisive per fermare questa occupazione”.

Il richiamo alla Comunità internazionale è più che mai necessario perché i riflettori su quanto sta avvenendo in Iraq sono spenti.