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Tag: Fondamentalismo

I popoli dell’Afghanistan e del Pakistan hanno dolori e nemici comuni

 

I popoli dell’Afghanistan e del Pakistan sono intrappolati nello stesso circolo vizioso – vittime delle loro élite dominanti, militari e clericali che usano la religione e la guerra per il potere e il profitto. È tempo che i popoli di entrambi i paesi riconoscano il loro comune dolore, i loro nemici e il loro destino e si liberino dalle catene dell’estremismo e dello sfruttamento che le hanno ridotte in schiavitù per generazioni.

Keyvan, New Politics, 8 novembre 2025

Il 29 ottobre scorso l’Associated Press ha riferito del fallimento dei colloqui di pace tra il governo pakistano e il regime talebano tenutisi in Turchia; nel frattempo, è stato programmato un altro incontro. È ironico vedere due partiti guerrafondai parlare di pace – e ancora più ironico che il governo pakistano, che ha una lunga storia nella promozione e accoglienza di ogni tipo di fazione terroristica islamista, ora presenti un piano antiterrorismo ai talebani, che sono una sua creazione, e viceversa.

Le tensioni si sono riacutizzate quando il Pakistan ha effettuato attacchi aerei nel cuore di Kabul, vicino a piazza Macroryan, sostenendo di aver preso di mira Noor Wali Mehsud, il capo del Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP). Successivamente è emersa una registrazione audio di Mehsud, non verificata, dalla quale sembrava fosse vivo. Zabiullah Mujahid, portavoce ufficiale dei talebani, ha respinto le notizie su X, sostenendo che “va tutto bene” – mentre chiaramente non c’è nulla che vada bene. I talebani hanno reagito attaccando diversi posti di blocco dell’esercito pakistano lungo il confine e spingendo il Pakistan ad attacchi nei quali hanno perso la vita molti civili a Kandahar, Helmand, Paktika e ancora una volta a Kabul.

Il Pakistan ha affermato che i suoi attacchi avevano come obiettivo i militanti del TTP, presumibilmente protetti dai talebani afghani e sostenuti dalle agenzie indiane. Tuttavia, secondo un rapporto della BBC News pubblicato il 18 ottobre, che citava l’Afghan Cricket Board, tra i morti c’erano diversi civili – tra cui tre giocatori di cricket afghani e altre cinque persone – mentre altri sette sono rimasti feriti.

Ho partecipato alla cerimonia funebre di un parente della provincia di Parwan, ucciso nella seconda ondata di attacchi aerei su Kabul. Shakir, 22 anni, lavorava come conducente di tricicli per un’azienda che noleggia stoviglie. Aveva lasciato il suo villaggio a 13 anni per lavorare come addetto alle pulizie perché il loro piccolo appezzamento di terra non era sufficiente a mantenere la famiglia. Probabilmente né Shakir né la sua famiglia avevano mai sentito parlare del TTP né saprebbero dire qual è la capitale del Pakistan – eppure hanno perso il capofamiglia a causa del conflitto tra due mostri.

Il popolo pakistano si trova ad affrontare una tragedia simile. Ogni giorno civili perdono la vita in attentati suicidi, vittime delle stesse politiche alimentate dai gruppi fondamentalisti afghani e pakistani. I popoli di entrambi i paesi sono stati usati come carne da macello nelle guerre sporche degli Stati Uniti e della NATO, dell’ex Unione Sovietica, della Russia moderna e delle potenze regionali, nonché nei giochi di potere di generali e figure religiose.

Il fondamentalismo del Pakistan

La lunga storia d’amore del Pakistan con il fondamentalismo risale all’epoca di Zulfikar Ali Bhutto (1971-1977), una figura contraddittoria che indossava un berretto in stile Mao Zedong per far credere di avere ideali socialisti e allo stesso tempo si alleava con gruppi islamici. Durante il suo governo, il Pakistan addestrò gli afghani “Ikhwani” seguaci dell’ideologia egiziana dei Fratelli Musulmani, in seguito usati dalla CIA durante la Guerra Fredda. Bhutto inviò personaggi come Ahmad Shah Massoud e Gulbuddin Hekmatyar per destabilizzare il regime laico di Daud Khan, il primo reggente repubblicano dell’Afghanistan.

Il sanguinoso colpo di stato dell’aprile 1978 in Afghanistan, sostenuto dall’URSS, e la successiva occupazione sovietica – che commise alcuni dei crimini più efferati in nome del socialismo, del comunismo e dell’internazionalismo – fornirono al governo pakistano e alla CIA una comoda scusa per armare e alimentare ulteriormente i gruppi fondamentalisti islamici afghani. In seguito, per risentimento, questi gruppi divennero noti tra gli afghani come i “sette asini”, a causa della loro dipendenza dall’ISI pakistano. L’Unione Sovietica fece deragliare il potenziale percorso dell’Afghanistan verso la democrazia installando le sue fazioni fantoccio – Khalq e Parcham – durante gli anni ’70 e ’80. Oggi, la Federazione Russa sostiene ancora una volta i talebani, riconoscendo il loro regime e firmando accordi per “combattere l’Isis,” anche se in realtà cerca di trascinare i talebani nella propria sfera di influenza per allontanarli da Stati Uniti e NATO.

Il progetto fondamentalista si è espanso notevolmente nel 1978, sotto il dittatore militare Zia-ul-Haq. Il numero di collegi islamici (madrase) in Pakistan è salito alle stelle, passando da 700 negli anni ’70 a 40.000 negli anni 2000, generosamente finanziati dalla CIA e dalle monarchie arabe. Queste madrase hanno prodotto migliaia di jihadisti ed esportato estremismo in tutta la regione.

Il Pakistan ospita la più grande madrasa del mondo islamico, la Jamia Darul Uloom Haqqania, ad Akora Khattak, conosciuta come “Università della Jihad”, che segue la rigida ideologia Deobandi, radicata in un movimento un tempo incoraggiato dal Raj britannico per indebolire la resistenza laica e rivoluzionaria. La maggior parte dei leader talebani hanno studiato in questa madrasa e da essa ha preso il nome la Rete Haqqani.
Benazir Bhutto e il suo ministro degli interni (1993–1996), Naseerullah Babar, hanno ammesso con orgoglio il loro ruolo nella creazione dei talebani come loro rappresentanti. Umar Khan Ali Sherzai, console generale del Pakistan in Afghanistan durante il primo governo dei talebani, si vantò in seguito di aver contribuito all’insediamento del mullah Omar e di aver applicato ordini discriminatori, come quello di costringere i sikh afghani a indossare distintivi gialli.

L’Afghanistan sfruttato per decenni

Per decenni, le élite politiche e militari del Pakistan hanno trattato l’Afghanistan come una mucca da mungere. Durante la Guerra Fredda, l’establishment pakistano sottrasse un’enorme quota dei fondi e delle armi inviati dalla CIA e dai suoi alleati ai mujaheddin afghani. Durante la guerra civile degli anni ’90, l’equipaggiamento militare venne introdotto clandestinamente in Pakistan. Un tempo, tutti i finanziamenti delle ONG internazionali per l’Afghanistan passavano attraverso le banche pakistane, riversando milioni di dollari nella sua debole economia. Dopo l’11 settembre, il Pakistan ha guadagnato miliardi per aver concesso basi aeree e rotte di rifornimento alle forze statunitensi e della NATO. Prima del ritiro, gli Stati Uniti e la NATO hanno donato al Pakistan armamenti per un valore di 7 miliardi di dollari. Il governo pakistano ha guadagnato miliardi in più ospitando rifugiati afghani, facilitando le evacuazioni ed elaborando i visti, che ora costano agli afghani da 400 fino a 1.800 dollari sottobanco.

Il governo pakistano e i gruppi fondamentalisti godono da tempo di un rapporto reciprocamente vantaggioso, rafforzandosi a vicenda per reprimere il proprio popolo. Quando i talebani sono tornati al potere nell’agosto 2021, molti liberali pakistani hanno festeggiato. Ma la loro “vittoria” ha presto avvelenato entrambi i paesi.

In Afghanistan, le ragazze non possono andare a scuola, le donne non possono lavorare e i musicisti non possono esprimersi con la loro arte. In Pakistan accade qualcosa di simile: gli studenti sono stati massacrati, musicisti come Ali Haider e Haroon Bacha sono fuggiti per salvarsi la vita e gli attacchi estremisti sono diventati routine.
Mentre gli afghani sprofondano sempre più nella povertà a causa della guerra e della repressione, i pakistani non hanno di che sostentarsi a causa dello strangolamento economico inflitto dal FMI e altre istituzioni finanziarie.

I popoli dell’Afghanistan e del Pakistan sono intrappolati nello stesso circolo vizioso, vittime delle loro élite dominanti, militari e clericali che usano la religione e la guerra per il potere e il profitto. È tempo che i popoli di entrambi i paesi riconoscano il loro comune dolore, i loro nemici e il loro destino e si liberino dalle catene dell’estremismo e dello sfruttamento che le hanno ridotte in schiavitù per generazioni.

L’inno come arma di propaganda talebana


شفق همراه ,  Khalid Mohammadi, 7 novembre 2025

Il canto è un potente strumento di propaganda tra le forze talebane e i loro sostenitori. Oltre a usare il canto come mezzo per risollevare il morale delle loro truppe e trasmettere i loro messaggi ideologici, i talebani lo usano anche per minacciare altri paesi (tra cui Pakistan, Iran e Stati Uniti). Sebbene i talebani considerino la musica haram e proibita, cantare senza musica è diventato uno dei modi più efficaci per promuovere le opinioni del gruppo e mantenere vivo lo spirito militante tra le loro forze negli ultimi trent’anni.

Le canzoni talebane fanno parte della macchina “psicologica e propagandistica” del gruppo. I talebani sfruttano l’impatto del canto, del ritmo e della ripetizione possibili con i canti come mezzo per evocare “eccitazione e lealtà” e rafforzare il senso di solidarietà tra i loro combattenti. Di fatto l’inno per i talebani gioca lo stesso ruolo della musica militare per gli eserciti moderni. Questo semplice metodo ha aiutato i talebani a mantenere alto il morale delle loro forze durante lunghi anni di guerra e pressione.

Di recente, in una base militare talebana, un gruppo di cantanti ha intonato una poesia in lingua pashtu che avvertiva che la bandiera bianca dell'”Emirato Islamico dei Talebani” sarebbe stata issata a Lahore, in Pakistan. Parte della canzone recita: “Se non alzassi la bandiera bianca a Lahore, non sarei un bambino afghano. Se non vi lasciassi scappare, non sarei un bambino afghano”. La canzone è stata eseguita tra alti ufficiali talebani e molti militari in uniforme, e il pubblico l’ha ascoltata con entusiasmo. Alcune parti della canzone viene utilizzato un linguaggio offensivo esplicito nei confronti del Pakistan. Questa canzone anti-Pakistana è stata recitata in una delle basi militari talebane dopo essere passata attraverso i filtri del Ministero dell’Informazione e della Cultura.

La canzone è diventata popolare non solo lì ma anche sui social network e si è rapidamente diffusa tra i talebani e i loro fan sulla piattaforma X (ex Twitter).
Nel ripubblicarla, diversi utenti talebani hanno rimosso le parti offensive della canzone, evidenziando solo le parti che mettevano in guardia da un possibile attacco al Paese.

L’inno, scritto in pashtu e minaccioso per il Pakistan, giunge mentre le tensioni tra i talebani e Islamabad si sono intensificate negli ultimi mesi. (…)

Simboli di potere e onore

La minaccia attraverso il canto non si limita solo al Pakistan. A metà mese di quest’anno, Hamdullah Fattrat, il vice portavoce dei talebani, ha pubblicato una canzone sul suo account X in cui i membri talebani minacciavano gli Stati Uniti di attacchi suicidi, in risposta alle parole di Donald Trump che ha chiesto ai talebani di restituire la base di Bagram a Washington. Nel video si vedono quattro membri talebani cantare canzoni all’interno di una macchina Land Cruiser, dichiarando di essere pronti ad arruolarsi per compiere attacchi suicidi contro gli Stati Uniti.

Nella mentalità dei talebani, gli attacchi suicidi e le squadre suicide sono un simbolo di potere e onore. Hanno ripetutamente utilizzato queste forze per minacciare i loro avversari. Durante la guerra con gli Stati Uniti e la NATO, gli attacchi suicidi sono stati uno degli strumenti principali dei talebani, e ora il gruppo crede che, facendo nuovamente affidamento sullo stesso strumento, possa dimostrare la sua potenza contro i paesi della regione.
Due anni fa, quando le tensioni sui diritti idrici del fiume Helmand tra il governo talebano e l’Iran crescevano, una canzone talebana recitava: “Abbiamo il governo e il potere e riformeremo l’Iran. Il nostro leader Mullah Yaqub riformerà Teheran. Daremo il via a una grande e sanguinosa rivoluzione in Iran”. La canzone si riferiva agli attentatori suicidi talebani pronti a sacrificare la propria vita per il governo talebano.

Le minacce verbali e le canzoni di propaganda contro Iran, Pakistan e persino Stati Uniti dimostrano che i talebani non hanno abbandonato la letteratura jihadista e di guerra come parte della loro identità. Durante i quattro anni di ristabilimento dei talebani, le minacce di attacchi militari o suicidi attraverso le canzoni sono state ripetute più volte, e sembra che questa tendenza continuerà in futuro, data l’accettazione di tali produzioni da parte di alti dirigenti talebani.

Cento anni di propaganda attraverso gli inni

Durante i primi giorni del regime talebano, negli anni ’90, la stazione radio “Voice of Sharia” ha svolto un ruolo importante nella trasmissione di canzoni di propaganda. I talebani usavano la radio per trasmettere canzoni di guerra e di contenuto religioso per diffondere le proprie opinioni tra la gente. Con la caduta del governo talebano in seguito all’attacco della coalizione guidata dagli Stati Uniti nel 2001, questa tendenza si è interrotta per un po’; ma i talebani, tornati sul campo di battaglia con il supporto dell’esercito e dell’agenzia di intelligence militare pakistana (ISI), hanno fatto ancora una volta della canzone il loro principale strumento di propaganda.

Negli anni successivi, canzoni talebane con slogan come “lotta contro l’occupazione”, “jihad” e “stabilire la legge islamica” iniziarono a circolare tra la gente. Con l’aumento dell’accesso ai telefoni cellulari, queste canzoni vennero trasmesse tramite Bluetooth e WhatsApp tra combattenti e sostenitori talebani, svolgendo un ruolo importante nel rafforzare il loro spirito combattivo. I talebani producevano canzoni con risorse e spese minime, ma il loro impatto fu di gran lunga superiore a quello della propaganda ufficiale del governo repubblicano, prodotta con ingenti budget e attrezzature moderne.

Dopo la caduta della repubblica e il ritorno al potere dei Talebani, il gruppo ha preso il controllo dei media statali, tra cui la Radio e la Televisione Afghana. Da allora, i Talebani sono stati in grado di registrare e trasmettere le loro canzoni di propaganda con una qualità superiore utilizzando strutture all’avanguardia. Negli ultimi quattro anni, il Ministero dell’Informazione e della Cultura dei Talebani ha tenuto diversi recital di poesia, in cui alti funzionari, forze talebane e sostenitori hanno elogiato la guerra ventennale, i leader del gruppo e i Talebani. Molte di queste canzoni sono distribuite attraverso i media statali e i social media controllati dai Talebani.

Con il ritorno dei Talebani, il Ministero dell’Informazione e della Cultura del gruppo ha lanciato un programma per raccogliere e archiviare le più di 10.000 canzoni e naat [liriche] composte durante la guerra il cui contenuto principale è l’elogio della guerra dei Talebani, delle figure chiave del gruppo e degli attacchi esplosivi e suicidi.

Negli ultimi anni, i Talebani hanno utilizzato le canzoni come parte della loro guerra psicologica e della propaganda nello spazio digitale. Le loro canzoni, accompagnate da immagini del campo di battaglia, bandiere bianche e i volti delle loro truppe, vengono pubblicate su reti come X, Telegram, TikTok e YouTube, video prodotti con elementi essenziali ma carichi di emotività per avere un impatto psicologico sul pubblico.
Sono anche considerati una sorta di guerra psicologica contro gli oppositori e i “nemici” dei Talebani. Al contrario, l’opposizione ai Talebani non beneficia di un meccanismo di propaganda così coerente ed efficace e, nel campo di battaglia delle narrazioni, i Talebani hanno mantenuto la loro superiorità.

Con l’espansione delle attività culturali dei Talebani, il canto ha superato il livello militare ed è diventato parte integrante dell’atmosfera sociale dell’Afghanistan. Nelle scuole, negli istituti religiosi e nelle università, le canzoni di propaganda talebane hanno sostituito musica, inni e canti nazionali. Bambini e adolescenti sono esposti quotidianamente a parole come “jihad”, “martirio” e “nemico” e, di conseguenza, le menti delle nuove generazioni sono plasmate dall’ideologia del regime talebano.
Il canto è diventato parte integrante anche delle cerimonie ufficiali durante i programmi governativi, le occasioni religiose e le riunioni pubbliche. In questo modo, i Talebani non solo hanno ampliato il loro apparato di propaganda, ma hanno anche utilizzato le canzoni come strumento di ingegneria culturale della società e di riproduzione dell’identità collettiva.

Nel sistema di propaganda talebano, l’inno non è solo un canto religioso o culturale, ma uno strumento per ricostruire il potere, un tentativo di legittimare ideologicamente e mantenere alto il morale di forze che sono cresciute per anni in un clima di guerra, jihad e “nemicizzazione”.

“SHELTER FOR WOMEN”

CISDA, Report, ottobre 2025

Shelter for women” è un progetto gestito da una delle organizzazioni di donne che il CISDA appoggia  e sostiene economicamente. Questo è l’ultimo report che ci hanno inviato per tenerci aggiornate sull’iniziativa

Avviata nell’aprile 2022, questa iniziativa mira a offrire rifugio alle donne che subiscono abusi domestici, puntando a dare loro potere dotandole delle competenze per una vita indipendente ed economicamente autosufficiente con corsi educativi e professionali.

Negli ultimi 6 mesi il progetto ha ospitato con successo cinque donne e i loro nove figli, fornendo loro un ambiente sicuro, assistenza medica, sostentamento e corsi di formazione.

Operando come rifugio per le donne, questa iniziativa deve affrontare numerose sfide, in particolare per gli ostacoli posti dal governo autoproclamato, che ignora apertamente i diritti delle donne in modo riprovevole. La difficile situazione delle donne afghane sottolinea l’urgente necessità di tali iniziative per fornire rifugio e sostegno di fronte alle avversità.

Sfide del progetto

Operare nell’attuale panorama politico dominato dall’autoproclamato governo talebano pone sfide significative per il progetto Shelter for Women, con conseguenti ostacoli tecnici e di sicurezza.

L’ostacolo principale deriva dall’opposizione del governo talebano, che ha una posizione diffidente nei confronti delle organizzazioni umanitarie, percependole come canali di influenza straniera e perciò negando il ruolo fondamentale che queste organizzazioni svolgono nel sostenere la comunità, in particolare nell’affrontare questioni come la violenza contro le donne.

Il governo complica la realizzazione del progetto imponendo restrizioni alle iniziative rivolte alle donne, così minando la loro partecipazione attiva. Anche le organizzazioni con cui collaboriamo hanno rivelato ostacoli analoghi messi in atto dal governo, soprattutto ostacoli burocratici che impediscono risposte urgenti ai bisogni delle donne emarginate, pretendendo molteplici permessi e autorizzazioni per l’intervento.

Nonostante ciò, la nostra organizzazione rimane risoluta nell’impiegare diverse strategie per affrontare le problematiche delle donne, opponendosi agli ostacoli opposti al sostegno e all’assistenza.

Gli sforzi per salvaguardare le donne all’interno delle case sicure hanno finora prodotto risultati positivi, tuttavia il rischio di essere scoperte dai Talebani rappresenta una minaccia incombente. Perciò sono state implementate le misure di sicurezza: è stato necessario cambiare l’ubicazione del rifugio e affittare una nuova casa per consentire al progetto di continuare nella sua missione.

Siamo molto soddisfatte dei notevoli progressi nel nostro centro di accoglienza per donne, un faro di speranza in mezzo alla chiusura delle istituzioni educative e all’incertezza politica. Le donne hanno mostrato un notevole entusiasmo per i corsi educativi e professionali.

Degno di nota tra queste iniziative è il nostro programma di cucito, che ha conferito alle partecipanti competenze preziose, favorendo l’autosufficienza e l’indipendenza.

Corso di cucito per donne

Nel corso degli ultimi tre anni, tutti i giorni è stato condotto un corso di cucito esclusivamente per le donne residenti nella casa protetta. Le partecipanti hanno dimostrato un eccezionale livello di interesse nell’affinare le proprie capacità, convinte della possibilità che la conoscenza delle tecniche consentirà loro di trovare idee innovative e di conoscere la richiesta del mercato, come percorso significativo verso la loro emancipazione economica.

Le dimensioni ridotte della classe hanno consentito di fornire un’attenzione personalizzata a ogni allieva, soddisfacendo le esigenze individuali e affrontando eventuali dubbi o problemi.

Con la pesante responsabilità di dotare queste donne delle competenze necessarie per avviare piccole attività di cucito casalinghe entro i limiti di tempo previsti dal programma, l’insegnante si è sforzata di svolgere un corso completo, che comprende modelli di abbigliamento e tecniche di cucito che vanno dall’arte di tagliare e confezionare abiti da sposa e per occasioni celebrative al confezionamento di indumenti di abbigliamento quotidiano, un insieme di competenze diversificate e pertinenti alle richieste del mercato per fornire loro i mezzi per generare il proprio reddito una volta entrate nel mercato lavorativo.

Trasmettendo conoscenze, competenze e opportunità di sviluppo professionale, il progetto dà a queste donne la possibilità di liberarsi dall’oppressione subita e di prendere il controllo del proprio destino, e le studentesse sono orgogliose dei loro notevoli progressi ottenuti in breve tempo.

Il loro senso di responsabilità, generosità ed empatia è davvero ammirevole e profondamente apprezzato. Dimostra che questo progetto non solo le ha rafforzate economicamente, ma ha anche rafforzato il loro senso di solidarietà e l’impegno sociale.

Corso di alfabetizzazione per donne

L’istruzione è un diritto fondamentale intrinseco di ogni individuo e, nell’ambito di questo progetto, il nostro team ha dedicato sforzi essenziali per fornire opportunità educative alle donne afghane.

Alle donne iscritte a questi corsi viene offerta l’alfabetizzazione dai livelli elementari a quelli medi, con un’enfasi particolare sulla personalizzazione del curriculum per soddisfare le loro esigenze specifiche.

Il curriculum dei corsi comprende un ampio spettro di materie, partendo dagli elementi fondamentali come la padronanza dell’alfabeto, cruciale per le persone che necessitano di un’alfabetizzazione di base. Ma il progetto offre anche alle donne con livelli di alfabetizzazione più elevati la possibilità di affinare ulteriormente le proprie capacità.

Per tutta la durata del corso, alle partecipanti è stata fornita una serie di risorse educative, tra cui libri scolastici, letteratura e poesia e materiali didattici supplementari adattati alle esigenze specifiche, garantendo un’esperienza di apprendimento completa e arricchente.

La valutazione dopo sei mesi di frequenza ha rivelato un risultato notevole: le donne hanno acquisito in modo coerente e sostenibile competenze di alfabetizzazione, dimostrando un incrollabile entusiasmo per il loro percorso educativo. La loro capacità di leggere e scrivere testi ha evocato un profondo senso di soddisfazione e gioia, sottolineando il valore dell’istruzione sulle loro vite.

Per migliorare le problematiche educative e mentali delle donne, l’insegnante ha inserito una nuova attività nel corso: ogni donna scriverà la propria storia che poi verrà letta in classe da loro stesse. Dopo la lettura, le donne si sentiranno libere e sollevate.

Le attività hanno avuto un impatto molto positivo sul morale delle donne, rendendole più attive, fiduciose e motivate ad apprendere, trasformando la classe in un ambiente vivace e stimolante.

Attività per bambini

La presenza di bambini tra i beneficiari del rifugio ha evidenziato la necessità di creare un ambiente consono, promuovendo quotidianamente le loro capacità. Nel corso degli ultimi tre anni le lezioni si sono svolte con regolarità dalle 9:00 alle 16:00, offrendo un ambiente strutturato e favorevole alle loro esigenze educative e di sviluppo.

All’interno delle classi appositamente progettate, che fungono sia da spazio educativo che protettivo, i giovani studenti hanno corsi di alfabetizzazione e istruzione.

I bambini che frequentano questo centro hanno mostrato un notevole entusiasmo per la pittura e per l’apprendimento, dimostrando una notevole attitudine alla comprensione rapida e all’acquisizione di competenze. Il loro vivo interesse testimonia l’efficacia dei programmi educativi nell’ambito del progetto.

Per contribuire a migliorare il loro benessere emotivo sono stati acquistati giocattoli e oggetti didattici, rendendo la loro classe più colorata e piacevole, e sono state realizzate attività ricreative, come puzzle e giochi all’aperto. Queste attività sono state pensate per aiutare i bambini ad esprimersi, a ritrovare le proprie energie e a provare emozioni positive. Le circostanze difficili e dure che hanno sopportato li hanno resi tristi, quindi creare momenti di gioia e di gioco è essenziale.

Attività aggiuntive

Negli ultimi sei mesi, le donne si sono impegnate anche in una serie di attività diverse e arricchenti che hanno rafforzato sia le loro capacità che il morale.

Uno dei momenti salienti è stata la celebrazione della Giornata degli insegnanti, che è stata per loro un’esperienza incredibilmente gioiosa e memorabile. In questo giorno, le donne hanno preparato pasti deliziosi e speciali, indossato abiti nuovi e belli, ascoltato la musica, suonato strumenti e ballato.

Oltre a questo evento, sono state organizzate diverse altre attività, tra cui:

• Laboratori di arti e mestieri: le donne hanno creato pezzi artistici utilizzando materiali semplici, valorizzando la loro creatività e abilità manuali.

• Piccoli progetti di giardinaggio: curando un piccolo giardino all’interno del rifugio, le donne hanno acquisito esperienza nella cura delle piante e si sono divertite con la natura.

• Giochi e gare di gruppo: sono stati organizzati giochi educativi e divertenti per promuovere il lavoro di squadra e la gioia tra le donne.

• Sessioni di discussione e consulenza: le donne hanno avuto l’opportunità di condividere le loro sfide ed esperienze, beneficiando del sostegno sociale e psicologico.

Queste attività non solo hanno fornito momenti di felicità ed energia, ma hanno anche contribuito in modo significativo ad aumentare la fiducia in loro stesse, le abilità e la creatività.

Chi sono le beneficiarie del progetto

Fatima, 36 anni, vive nel rifugio con i suoi due figli, Marwa di 14 anni e Maihan di 9. Si sposò all’età di 19 anni con il suo consenso e, sebbene suo marito facesse fatica a provvedere al cibo, la coppia era soddisfatta della loro vita insieme.

Il rapporto con la suocera e il cognato non era facile: veniva sempre umiliata e costretta a svolgere lavori faticosi nonostante fosse malata, causando liti quotidiane, ma sopportava per non turbare il marito.

La vita di Fatima divenne insopportabile quando suo marito morì in un incidente stradale. Sua suocera e suo cognato non solo la umiliavano, ma la picchiavano. Affinché sposasse suo cognato, cosa che lei rifiutava, la chiusero in una stanza per giorni senza cibo e acqua. Per salvarsi fuggì a casa di parenti che la portarono al rifugio dell’associazione, dove ha trovato sostegno e supporto.

Shamsia, 27 anni, con tre bambini. Aveva solo 15 anni quando si sposò con un uomo di 51 anni, sacrificando la propria felicità per il bene dei suoi genitori. Lei e suo marito hanno avuto tre figlie di 11, 10 e 9 anni. Fin dall’inizio del loro matrimonio, il marito fu duro e fanatico, insistendo che lei avesse bisogno del suo permesso anche per andare dal medico.

Il marito era ansioso di avere un figlio maschio, poiché era l’unico maschio nella sua famiglia di sei sorelle, perciò quando Shamsia rimase incinta e scoprì di portare in grembo una bambina, fu picchiata e indotta ad abortire. Ma nonostante i ripetuti tentativi, l’ostetrica non riuscì a farla abortire poiché il bambino era di diversi mesi.

Nell’arco di tre anni rimase incinta tre volte ma diede alla luce tre figlie. Suo marito continuava a picchiarla e insultarla, oltre a non mostrare amore per le sue figlie, alle quali faceva del male anche fisicamente.

Incapace di sopportare il dolore, l’umiliazione e gli abusi, Shamsia lasciò la casa con le sue tre figlie e andò a casa di un’amica ma fu costretta a cercare rifugio in un ambiente sicuro per proteggere se stessa e le figlie.

Bibi Hawa, 30 anni, due bambini. All’età di 14 anni fu costretta dai fratelli a sposare, senza il suo consenso, un uomo più anziano. Le sue cognate la trattavano male, non le permettevano nemmeno di piangere e intervenivano ogni volta che la vedevano parlare con un’altra donna, impedendole di condividere i suoi problemi. Dopo essersi sposata, scoprì che suo marito aveva un’altra moglie e dei figli della sua stessa età.

Fin dall’inizio dovette affrontare numerose difficoltà e si considerò fortunata di non essere diventata madre presto. Rimase con suo marito per anni, nonostante il suo disinteresse per lui, senza poterlo lasciare perché non aveva amici che la aiutassero. Diede alla luce due figli e per molto tempo rimase con lui esclusivamente per il loro bene. Tuttavia suo marito era duro e lascivo, fissava le altre ragazze e voleva sposarsi per la terza volta. Tutto cio’ non faceva altro che aumentare l’odio per lui.

Fortunatamente, con l’aiuto di un’amica, riuscì a scappare e venire al rifugio, cercando di divorziare dal marito ed essere libera da lui per sempre.

Sharaf Gul è una donna di 36 anni. Ha tre figli, due maschi di 9 e 6 anni e una figlia di 10 anni. Suo marito morì prima della nascita del suo quarto figlio. Dopo la morte, suo suocero, che era giovane, mise gli occhi su di lei. All’inizio pensava che fosse gentile per renderla felice, ma presto si rese conto che aveva cattive intenzioni. Non poteva dirlo alla suocera perché sapeva che sarebbe stata incolpata e la sua situazione sarebbe peggiorata. Iniziò a vivere con cautela, chiudendosi con i suoi figli in una stanza quando non c’era nessun altro.

Tuttavia, il comportamento di suo suocero peggiorò nel corso degli anni e una notte entrò nella sua stanza mentre dormiva e tentò di violentarla. Alle sue urla la suocera si svegliò e, invece di offrirle aiuto, si unì al pestaggio del marito con tale violenza da costringerla a malapena a stare in piedi.

Decise allora di salvare se stessa e i suoi figli dall’inferno in cui viveva. Appena la sua salute migliorò, fece finta di andare dal medico con i suoi figli e invece andò a casa della sorella e successivamente con l’aiuto di amici, al rifugio, dove attualmente risiede.

Bibi Hamida è una donna di 40 anni che lotta con coraggio contro le difficoltà della vita, dando priorità alla sicurezza di suo figlio. Dopo la morte del marito, il figlio di suo cognato la violentò e la mise incinta. Quando i suoi suoceri lo scoprirono, la chiusero in una stanza buia, la privarono di una corretta alimentazione e le impedirono di incontrare altre persone fino al parto.

I suoi suoceri volevano portarle via il bambino senza il suo consenso, ma lei si oppose coraggiosamente. Suo suocero la picchiò e cercò di prenderle il bambino con la forza e, non riuscendoci, dopo alcuni giorni la portarono in un luogo lontano e la abbandonarono.

Nonostante tutte le sue difficoltà, Hamida ha fatto tutto il possibile per prendersi cura del suo bambino e ha quindi cercato rifugio da noi.

Hamida è determinata non solo a chiedere giustizia alla madre e al suocero, ma anche all’uomo che l’ha violentata. Partecipa attivamente a tutti i programmi dell’associazione e si interessa a ogni opportunità per essere istruita, in modo da poter realizzare i suoi obiettivi.

La sinistra ha paura della laicità?

noidonne.org Monica Lanfranco 27 ottobre 2025

Quando è ripartito il dibattito sul divieto del velo in Italia, come avviene ad intervalli più o meno regolari quando ci sono proposte di legge più o meno propagandistiche sull’argomento, è tornato anche l’immancabile appello contro l’islamofobia da parte di chi è contrario al divieto: l’islamofobia sarebbe il sentimento che anima chi è critico sulla copertura del corpo femminile, imposta nei paesi a maggioranza religiosa islamica.
Sono andata nei giorni scorsi a riprendere le fonti che, da almeno due decenni, riporto nei vari articoli e saggi sul tema, voci autorevoli di attiviste e studiose che lavorano per la laicità nei loro paesi di provenienza (quasi tutte sono riparate in Europa, perché in patria sarebbero in carcere o morte): Maryam Namazie, Merieme Helie Lucas, Inna Shevchenko, Gita Sahgal, che spiegano perché il relativismo della sinistra e di parte del movimento femminista (“è la loro cultura, la laicità occidentale è imperialismo, le islamiche si devono liberare da sole, la taglia 42 è il nostro burka”) sia un danno enorme per la liberazione dal patriarcato fondamentalista, di qualunque religione si tratti e ad ogni latitudine. Volevo riportarle per ricondividere le voci che mettono in luce il pericolo di parlare di ‘fobia’ nel caso della religione: in alcuni paesi del mondo la critica alla religione viene identificata con la blasfemia, e punita fino alla morte.
Poi, al mattino presto del 13 ottobre 2025, ho assistito ad alcune fasi del rilascio degli ultimi 20 ostaggi vivi israeliani, grazie alle dirette disponibili online. Nelle strade di Gaza c’erano solo uomini, giovani e non: le pochissime donne erano tutte velate, qualcuna anche con il niqab, presenze scure e uniformi nel mare di uomini che vivevano le fasi concitate dell’evento in quella terra martoriata.
Una terra nella quale, oltre alla carneficina operata dall’esercito israeliano, le donne hanno subìto da sempre, con l’insediamento di Hamas, la specifica violenza che le condanna al destino legato al loro sesso in ogni luogo dove c’è la guerra e dove c’è il fondamentalismo: lo stupro, che in guerra diventa arma usata tra uomini per punire il nemico attraverso la violenza più inumana che un uomo compia sull’altra da sé.
Come ci insegna il Tribunale delle donne dell’ex Iugoslavia oltre alla violenza sessuale le donne che ne sono vittime rischiano di essere abbandonate dalla loro famiglia d’origine a causa della violenza che hanno subìto.
Nel recente timido report di Terre des Hommes sulla condizione femminile in Palestina si afferma, dati alla mano, che a Gaza la situazione delle donne e delle bambine si è aggravata durante i due anni di guerra, senza dire però che anche prima era un inferno: spose bambine, limitazione delle cure mediche, divieto di accesso all’istruzione erano, e sono, pratiche coerenti e strutturali del fondamentalismo islamico, in Palestina con la feroce dittatura di Hamas, in Nigeria con quella di Boko Haram, in Iraq con i Talebani, in Iran con i fondamentalisti che incarcerano e uccidono le ragazze che si oppongono al velo, solo per citare le situazioni più note.
Molte critiche in Italia, da sinistra e in alcuni settori del femminismo, si sono levate contro la legge francese del 2004, approvata a larga maggioranza dopo un lungo dibattito pubblico non solo dalla destra ma anche dai socialisti, che vieta i segni religiosi ostensibili, come il velo islamico, la croce, la kippah e il turbante sikh nelle scuole pubbliche.
Nel 2006 a Genova, invitata dalla rivista Marea, Mimouna Hajam della associazione Ni putes ni soumise raccontò di come quella legge aiutasse le giovani donne delle famiglie musulmane nel loro processo di liberazione dalle catene del fondamentalismo anche domestico. In Italia la proposta, che la destra presenta malamente in chiave propagantistica ‘anti islam’, è criticata a sinistra perché soffia sul fuoco del razzismo, ed è ovviamente da rigettare per questo.
Però attenzione: è pericoloso aggirare l’ostacolo dicendo che una legge c’è, la 152 del 1975, relativa al divieto di portare il casco o copertura integrale in una logica di tutela della sicurezza. Qui non si tratta di sicurezza: lo spiega molto bene la reazione dell’imam Massimo Abdallah Cozzolino, guida dell’associazione culturale islamica Zayd Ibn Thabit. Il religioso ha dichiarato: “Non sono contrario a misure che tutelino la sicurezza pubblica, ma mi oppongo a qualsiasi iniziativa che rischi di colpire l’identità religiosa di una comunità. In quel caso, si andrebbe contro i principi costituzionali a cui tutti, spesso, si richiamano. La libertà religiosa garantisce a ciascuno il diritto di esprimere la propria fede, le proprie pratiche e simboli, purché nel rispetto delle leggi e dei valori comuni”.
E’ questo il punto. Per usare la lucida analisi di Raffaele Carcano che parlò di relazioni pericolose tra sinistra e islam “il problema è che gli esseri umani (e le organizzazioni in cui si uniscono) hanno molte identità, e assumere certe posizioni anziché altre finisce quindi per definire quale delle diverse identità è ritenuta prioritaria. Come ha sottolineato Kenan Malik, sostenere che i leader musulmani non devono essere sottoposti alle stesse crude domande di chiunque altro è difficilmente un buon argomento in favore delle pari opportunità. Ma una corrente consistente della sinistra non si riconosce più in tale scopo, se coinvolge una religione di minoranza. Non è più per l’emancipazione di tutte le donne ma per il sostegno all’hijiabizzazione di quelle musulmane, che fu il provvedimento centrale della politica khomeinista e che ovunque è l’obbiettivo numero uno di tutti gli islamisti, sciiti o sunniti che siano. Non più per la libertà di espressione, ma per il politicamente corretto. Non più per la laicità, ma per la deroga al principio di uguaglianza e per la concessione di privilegi comunitaristi. L’incondizionato sostegno alla causa palestinese la porta a sostenere gli estremisti di Hamas, e pazienza se i laici palestinesi sono costretti al silenzio o all’esilio. Se la priorità è la laicità, non fai sconti a nessun politico e a nessuna religione. La storia insegna che se non scegli questa strada stai sottovalutando gli effetti collaterali. Come la sinistra iraniana ha tragicamente sperimentato sulla propria pelle”.

Femminismo, non razzismo!

شفق همراه, Razm Ara Hawash, 3 ottobre 2025

In un paese come l’Afghanistan dove le strutture sociali, politiche e intellettuali sono fortemente maschili ed etniche, il femminismo non è solo un approccio alla parità di genere ma un modo per criticare il potere, il dominio e la discriminazione in tutte le sue forme.

Ma con il tempo assistiamo all’emergere di una sorta di “femminismo dimostrativo” che invece di criticare le strutture di oppressione, è diventato il braccio pubblicitario delle forze politiche, etniche e religiose. Questa tendenza deviata, che può essere chiamata “femminismo etnico” o “femminismo nazionale”, contraddice di fatto lo spirito liberatorio del femminismo.

Cos’è il femminismo?

Il femminismo è fondamentalmente una lotta per porre fine all’oppressione di genere, alla disuguaglianza strutturale e all’esclusione sistematica delle donne dal processo decisionale e dalla vita sociale. Il movimento femminista non si limita a lottare per il diritto delle donne all’istruzione, al lavoro e alla partecipazione politica, ma cerca anche di combattere le radici della discriminazione di genere, nella cultura, nella religione, nella politica e nel potere.

Il vero femminismo critica il potere oppressivo comunque si manifesti, sia in nome della religione, dell’etnia, della politica o della tradizione; anche se quel potere deriva dalla “propria comunità”, anche se appare sotto forma di “capo popolare” o di “eroe nazionale”.

Cos’è il femminismo etnico?

Il femminismo nazionalista è quando le donne sostengono gli uomini invece di opporsi alle strutture di potere maschile, diventano strumento dei leader etnici o religiosi; non solo non criticano la struttura maschile all’interno della propria razza o religione, ma la giustificano, la nascondono e persino l’abbelliscono.

Nel femminismo etnico, la questione dell’oppressione contro le donne non viene vista da una prospettiva generale e strutturale, ma solo da una prospettiva etnica. Cioè, una donna oppressa è riconosciuta come vittima solo quando è di un’altra tribù. Ma quando sono gli uomini della propria tribù a violare i diritti delle donne, si fa silenzio, si giustificano o si tollerano.

Quando le donne difendono i guerrieri

Esempi di femminismo razzista si possono vedere nelle narrazioni che fanno dei leader e signori della guerra che si dichiarano a favore delle donne ma il loro comportamento è pieno di crimini, stupri, repressione e rimozione delle donne dagli spazi pubblici. Queste donne, con narrazioni e ricordi personali o argomenti non documentati, cercano di giustificare il volto duro, misogino e oppressivo dei loro leader etnici.

Questo modo di vedere non solo diventa il centro del femminile, ma è profondamente al servizio della riproduzione del potere maschile. In tali narrazioni le donne vengono sminuite a esseri passivi che devono ricorrere ai leader maschi per accedere ai loro diritti; come se l’istruzione, il lavoro o la libertà fossero doni che solo gli uomini possono concedere, non diritti intrinseci delle donne.

Questo genere di femminismo, invece di essere la voce degli oppressi, è diventato la voce del potere etnico. Non parla di donne fatte a pezzi sotto i razzi dei leader jihadisti, né di corpi stuprati nei campi di guerra, né di ragazze private di istruzione, presenza sociale e partecipazione.

Invece di criticare la violenza, il femminismo etnico la giustifica con termini come “eroismo”, “leadership”, o “difesa della religione e della nazione”. Queste donne, a volte consapevolmente e a volte per ignoranza politica, diventano gli strumenti per ripulire l’immagine dei criminali etnici.

Il pericolo di distorcere la lotta delle donne

Uno dei danni più grandi che il femminismo etnico porta alla lotta delle donne è la distorsione dell’essenza di questa lotta, che diventa non più costruttiva e critica nei confronti del potere maschile ma invece sottomessa e dipendente dagli uomini potenti. Nelle loro narrazioni, una donna valida è una donna che sostiene la nazione, fedele ai leader maschi e silenziosa circa la violenza domestica.

L’istruzione delle donne, in questo discorso, è dovuto alla “gentilezza” dei leader maschi, non un diritto umano. La libertà è un “dono”, non un principio fondamentale. E il silenzio contro i crimini del proprio popolo è segno di lealtà, non tradimento della verità.

Il vero femminismo è nemico della mitologia

Il vero femminismo è nemico di tutti i miti che si sono costruiti sui concetti di eliminazione, soppressione e sangue, per cui molti leader non sono considerati eroi ma parte di un sistema di oppressione e violenza. In questo femminismo, etnia, religione o storia politica di un leader non possono essere una giustificazione per ignorare la violenza sulle donne.

Il femminismo, che non può difendere le donne vittime di guerre civili, le donne vittime di abusi sistematici, le donne rimosse dagli spazi pubblici, non è femminismo: è complice del sistema maschile, sebbene parli alle donne.

O con le donne, o con il potere degli uomini

In definitiva, il femminismo richiede una scelta chiara: o stare dalla parte delle donne e delle vittime di ingiustizie strutturali, o stare con le strutture di potere che le hanno rese vittime.
Non è possibile difendere i diritti delle donne e contemporaneamente elogiare le figure che sono alla base dell’esclusione della donna dalla vita sociale e politica.

Il femminismo non è uno strumento di potere etnico, né una copertura della violenza, ma invece è la voce delle donne che vogliono decidere, vivere e fare la storia senza mediazione maschile, senza alcun potere esterno.

Quindi è ora di essere chiare: diciamo “no” al femminismo etnico

Il femminismo è globale. Anche la nostra solidarietà deve esserlo

I talebani bandiscono dalle università i libri scritti da donne

The Guilty Feminist Podcast, Blog, 27 settembre 2025

I talebani hanno ora ordinato alle università afghane di rimuovere dai loro programmi tutti i libri scritti da donne. Dei 679 libri di testo sottoposti a revisione, 140 scritti da autrici donne sono stati vietati, insieme a 18 corsi completi, molti dei quali incentrati su questioni femminili, genere, diritto, diritti umani e persino scienze di base. Centinaia di altri corsi sono ancora “sotto indagine”.

Non si tratta solo di vietare libri. Si tratta di cancellare la voce delle donne, limitare la conoscenza e controllare ciò che un’intera generazione è autorizzata a pensare. Rimuovendo i testi scritti da donne e i corsi incentrati sulle esperienze femminili, i talebani stanno riscrivendo il panorama intellettuale dell’Afghanistan, strappando con la forza le prospettive delle donne.

L’istruzione è un’ancora di salvezza. Zittire le donne nelle aule e nelle biblioteche è un’altra forma di violenza, volta a rendere le donne invisibili.

Il femminismo è globale. Anche la nostra solidarietà deve esserlo.

Cosa possiamo fare:

Amplificare la voce delle donne afghane: condividere e ascoltare le attiviste, le scrittrici e le educatrici afghane che resistono alla cancellazione. Tra cui @saramwahedi.

Sostenere le organizzazioni guidate da donne come RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane), Women for Afghan Women e Afghan Women’s Educational Center, tra cui @amnestyfeminist.

Rimanere informati: mantenere l’attenzione sull’Afghanistan – il silenzio permette all’oppressione di crescere inosservata, seguire @rukhshanamedia

Fare pressione sui governi e sulle istituzioni: esigere che i diritti delle donne rimangano al centro dei negoziati internazionali e delle politiche di aiuto. Continuare a scrivere ai propri parlamentari!

Solidarietà significa rifiutarsi di distogliere lo sguardo.

Rimozione delle foto delle donne dalle carte d’identità nazionali: una nuova esclusione

La rimozione delle foto delle donne dalle carte d’identità nazionali  è l’ultimo tentativo dei Talebani di cancellare le donne dalla vita pubblica dell’Afghanistan. Le donne protestano con una campagna social

Azada Taran, Rukhshana Media, 18 settembre 2025

La decisione dei talebani di rimuovere, su richiesta, le immagini delle donne dalle carte d’identità nazionali ha scatenato le proteste dei difensori dei diritti umani, che affermano che si tratta dell’ultimo tentativo di cancellare le donne dalla vita pubblica in Afghanistan.

Un portavoce dell’Autorità nazionale di statistica e informazione controllata dai talebani ha affermato che il leader supremo del gruppo ha preso personalmente la decisione di consentire la rimozione delle foto delle donne dalle carte d’identità su consiglio del Dar al-Ifta, o consiglio religioso.

I talebani hanno affermato che le donne potranno scegliere se far comparire la propria immagine sulla tessera. Ma molte attiviste per i diritti delle donne temono che la scelta possa essere loro sottratta, dato lo squilibrio di genere nella società afghana, che i talebani hanno fatto di tutto per rafforzare da quando hanno ripreso il potere quattro anni fa.

È stata lanciata una campagna sui social media per protestare contro questa decisione con lo slogan “La mia foto, la mia identità“, con i critici che accusano i talebani di voler privare le donne dei loro diritti di cittadinanza.

Ulteriore esclusione delle donne dalla sfera pubblica

“Quando i talebani privano le donne di questo diritto, in realtà mirano a escluderle dalla partecipazione sociale, dall’accesso ai servizi, persino dai diritti di proprietà e dal diritto di viaggiare”, ha dichiarato a Rukhshana Media l’attivista per i diritti delle donne Zahra Mousawi.

“Queste politiche sono deliberatamente concepite per limitare ulteriormente le donne e cancellarle dalla sfera pubblica”.

Mousawi ha affermato che le donne afghane hanno lottato per anni affinché la loro identità fosse riconosciuta e ha esortato le istituzioni per i diritti umani a fare pressione sui talebani affinché ripristinassero questo e altri diritti.

Un’altra attivista, Hamia Naderi, ha espresso il timore che la rimozione delle sue foto avrebbe rafforzato l’impressione che le donne siano dipendenti dai membri maschi della famiglia, piuttosto che adulte autonome.

Già oggi, le donne afghane devono essere accompagnate da un parente maschio per uscire di casa, in base alle nuove leggi introdotte da quando i talebani hanno ripreso il potere nel 2021. Alle donne e alle ragazze è vietato l’accesso all’istruzione secondaria e superiore e non possono lavorare fuori casa, se non in pochissimi lavori. Persino il loro abbigliamento è soggetto a controlli rigorosi.

Una forma di apartheid di genere

Naderi ha affermato che quest’ultima mossa potrebbe facilitare il furto d’identità, il traffico di esseri umani e persino i matrimoni forzati. “Rimuovere le foto delle donne dalle carte d’identità è una delle forme più evidenti dell’apartheid di genere dei talebani. Priva sistematicamente le donne della cittadinanza indipendente e le rende senza volto e invisibili”, ha affermato.

“Con la rimozione dell’identità delle donne, queste non sono più viste come individui, ma solo come persone a carico dei membri maschi della famiglia.”

Mohammad Halim Rafi, portavoce dell’Autorità nazionale di statistica e informazione afghana controllata dai talebani, ha affermato che le preoccupazioni che i parenti maschi possano sfruttare la nuova norma “non ci riguardano”, aggiungendo: “Ecco perché è stata resa facoltativa”.

Secondo le nuove norme, includere le foto delle donne nelle carte d’identità è considerato “consentito in casi di estrema necessità e facoltativo”, ha affermato.

Le carte d’identità nazionali sono fondamentali per molti aspetti della vita quotidiana in Afghanistan, ma le donne ne sono state private a lungo. Anche prima del ritorno dei talebani, oltre il 50% non possedeva una carta, rispetto a solo il 6% degli uomini , con implicazioni per tutto, dal voto all’apertura di un conto in banca, fondamentale per raggiungere l’indipendenza finanziaria.

L’esperto legale Hasan Payam ha affermato che cancellare le foto delle donne dalle carte d’identità “creerebbe un divario di genere che equivale a discriminazione di genere”, mettendo ancora più controllo sulla vita delle donne nelle mani degli uomini.

La mossa segue una dichiarazione rilasciata il mese scorso da UN Women, che condannava la crescente limitazione dei diritti delle donne afghane e affermava che con ogni nuova restrizione loro imposta, le donne afghane venivano “spinte sempre più fuori dalla vita pubblica, e sempre più vicine a esserne completamente eliminate”.

“Questa volta non veniamo cancellati dalle strade e dai vicoli, ma dalle nostre stesse carte d’identità”, ha scritto Rana Shojai, una delle tante persone che si sono rivolte ai social media per esprimere la propria indignazione.

“Le donne che sono madri, sorelle, figlie e mogli in questa terra ora non significano nulla per i talebani, non valgono nemmeno una singola foto. Non si tratta solo di rimuovere una foto; è un altro passo verso la sistematica cancellazione delle donne dalla vita pubblica

Vietare 700 libri e 18 materie: l’ultimo tentativo dei talebani di smantellare l’istruzione superiore

I talebani stanno cercando di trasformare le università afghane in madrase religiose

Sharif Ghazniwal, Zan Times, 16 settembre 2025

I talebani continuano ad attaccare l’istruzione superiore e le istituzioni accademiche. Il 25 agosto, il Ministero dell’Istruzione Superiore ha emesso due direttive distinte ai dirigenti delle università e degli istituti di istruzione superiore in tutto il Paese. A questi funzionari è stato ordinato di interrompere l’insegnamento di 18 materie accademiche e di vietare circa 700 libri di testo e materiali didattici.

Copie di queste direttive sono state ottenute da “Zan Times”.

I decreti affermano che le materie appena vietate contraddicono la Sharia e le politiche dei talebani: “L’elenco delle materie in determinati campi accademici è stato esaminato da studiosi ed esperti della Sharia e, tra queste, 18 materie di varie discipline sono state ritenute contrarie alla Sharia e alle politiche del sistema e sono state pertanto rimosse dal curriculum”.

Le direttive stabiliscono inoltre che altre 201 materie, considerate parzialmente problematiche, devono essere insegnate con una prospettiva critica. Dichiarano inoltre che quasi 700 libri di testo e risorse accademiche, precedentemente utilizzati nelle università pubbliche di tutto il Paese, sono stati ufficialmente vietati.

L’elenco dei libri vietati è stato stilato dopo che il Ministero dell’Istruzione Superiore dei talebani ha chiesto agli amministratori delle università pubbliche di presentare i loro programmi e risorse didattiche.

Una fonte informata, che ha parlato con “Zan Times” in condizione di anonimato, afferma che un consiglio di studiosi che riceveva ordini diretti dalla leadership talebana è responsabile della revisione del materiale accademico e della determinazione di quali siano conformi o meno alla legge della Sharia e al sistema politico dei talebani.

I corsi vietati

L’appendice a una delle direttive elenca le 18 materie accademiche che le università sono tenute a rimuovere dai loro programmi di studio. La maggior parte riguarda il diritto costituzionale, i sistemi politici, i diritti umani o le questioni femminili. Tra queste:

1 Diritto costituzionale dell’Afghanistan
2 Movimenti politici islamici
3 Buona governance
4 Sistemi elettorali
5 Sistema politico dell’Afghanistan
6 Sociologia politica dell’Afghanistan
7 Genere e sviluppo
8 Diritti umani e democrazia
9 Analisi della Costituzione dell’Afghanistan
10 Globalizzazione e sviluppo
11 Storia delle religioni
12 Sociologia delle donne
13 Filosofia morale
14 Molestie sessuali
15 Diversità occupazionale paritaria di genere
16 Leadership di piccoli gruppi
17 Comunicazioni di genere
18 Il ruolo delle donne nella comunicazione pubblica

L’appendice elenca anche altre 201 materie che devono essere insegnate con un approccio “critico e orientato alla riforma”. Tra queste, corsi come Protocollo diplomatico ed etichetta; Politica e governo negli Stati Uniti; Politica estera delle grandi potenze; ​​Demografia; Sociologia della religione; Lotta alla corruzione amministrativa; Sistemi educativi familiari; Filosofia islamica; ed Ermeneutica.

Libri proibiti e le loro università

I talebani hanno ritenuto che questi titoli fossero “contrari alla Sharia e alle politiche dell’Emirato Islamico” e ne hanno formalmente vietato l’uso come materiale didattico.

I funzionari hanno anche incaricato altre università pubbliche e private di sottoporre i loro programmi di studio e il materiale didattico per la valutazione. Si prevede che il numero totale di libri proibiti aumenterà una volta completate queste revisioni. Le restrizioni non si applicano solo alle università sottoposte a valutazione. Fonti interne all’università confermano che l’elenco dei libri proibiti è stato diffuso a livello nazionale, con istruzioni esplicite che questi testi non devono essere assegnati agli studenti.

L’Afghanistan ha storicamente letto libri pubblicati da editori iraniani. Pertanto, le pubblicazioni iraniane costituiscono la quota maggiore delle opere vietate, inclusi i libri pubblicati dall’Università di Teheran, dalla SAMT (la casa editrice accademica iraniana), dall’Islamic Republic of Iran Broadcasting (IRIB) e da altre case editrici iraniane. Seguono per numero di libri vietati le opere pubblicate in Afghanistan, i libri senza un editore ufficiale e gli appunti e i capitoli preparati dai docenti. Una quota minore include materiali stampati da agenzie statunitensi come USAID e USIP, dall’Asia Foundation e da alcuni editori dei paesi arabi.

Le autrici costituiscono una quota consistente della lista dei libri proibiti. Almeno 140 dei libri proibiti sono scritti da donne. Un membro del gruppo che recensisce libri ha dichiarato alla BBC Persian che “non è consentito insegnare libri scritti da donne”.

La talebanizzazione delle università afghane

Considerato l’attuale approccio dei talebani alle istituzioni educative, il regime sembra determinato a trasformare le università afghane in seminari religiosi progettati dai talebani.

Durante un incontro privato, lo sceicco Ziaur Rahman Aryoubi, viceministro per gli affari accademici presso il Ministero dell’istruzione superiore dei talebani, ha affermato che negli ultimi 20 anni le università sono state “promotrici dei valori occidentali” e pertanto “devono essere riformate o eliminate”, ha riferito una fonte ben informata al Zan Times.

Diversi professori temono che alcune discipline come diritto, scienze politiche e sociologia possano essere eliminate completamente dal sistema di istruzione superiore a causa della sfiducia dei talebani nei loro confronti. Prevedono inoltre che l’elenco dei libri proibiti si allungherà man mano che i talebani richiederanno programmi e materiali didattici ad altre università pubbliche e private.

Vietando i libri di testo standard e imponendo ai professori di produrre autonomamente i propri appunti (capitoli) per verificarne l’allineamento con le politiche talebane, gli accademici temono che, sebbene i titoli dei corsi e le liste di lettura possano tecnicamente rimanere relativamente indenni, i loro contenuti principali vengano talibanizzati. Sembra che queste direttive segnino solo l’inizio di un processo radicale, che proseguirà con determinazione e la rigorosa supervisione di un consiglio di religiosi di cui la leadership talebana si fida.

Di fatto, i talebani stanno cercando di trasformare le università afghane in madrase religiose.

Sharif Ghazniwal è lo pseudonimo di un ex professore universitario di Kabul.

 

Dalla disconnessione di internet al controllo delle informazioni

I talebani hanno tagliato il servizio Internet in fibra ottica in 14 province: Balkh, Kandahar, Helmand, Herat, Uruzgan, Nimroz, Kunduz, Takhar, Badakhshan, Baghlan, Paktika, Laghman e Nangarhar.
A Kunduz il governatore ha affermato che i servizi internet sono stati sospesi su ordine del leader supremo per prevenire “immoralità.”

شفق همراه, Eid Mohammad Forough, 17 settembre 2025

La disconnessione di internet in fibra ottica in più di dieci province dell’Afghanistan non può essere considerato una mera misura tecnica: rappresenta un cambiamento profondo e una trasformazione nel modo in cui il governo talebano governa e controlla lo spazio digitale, un cambiamento che rimuove le infrastrutture di comunicazione dal loro ruolo naturale e pubblico e le rende uno strumento per esercitare il suo potere e gli scopi politici.

Una trasformazione occulta della società

Limitare internet non solo trasforma la società, ma pone le basi per un maggiore estremismo. Anche se occupazione e istruzione erano stati ridotti sotto il dominio talebano, Internet era comunque una piattaforma vitale e affidabile che collegava l’Afghanistan alla rete globale e forniva ai cittadini un lavoro e un’istruzione online. Bloccare questo percorso significa tagliare uno dei pochi ponti che collega la società afghana con l’esterno.

Questa mossa può essere considerata una sorta di “ridisegno occulto nella mappa del potere” del governo talebano. In precedenza, sebbene ci fosse stata censura e monitoraggio delle attività nello spazio virtuale e digitale, la fibra ottica creava comunque opportunità per superare le limitazioni. Ad esempio, uno studente poteva scaricare qualsiasi articolo scientifico dalle biblioteche digitali globali, un giornalista poteva inviare l’articolo ai media internazionali senza paura, e un professore universitario poteva insegnare agli studenti all’interno o all’estero attraverso una piattaforma stabile.

Ora queste strade vengono chiuse o d’ora in poi i dati passeranno attraverso canali completamente controllati dal governo talebano. Un cambiamento del genere toglie l’indipendenza digitale ai cittadini e trasforma qualsiasi comunicazione in dati prevenibili, che possono essere manipolati o bloccati.

Trasparenza forzata

Questa trasformazione non rappresenta solo una riduzione della qualità o dell’affidabilità del servizio internet, ma anche un rigoroso controllo della privacy e della sicurezza personale. Internet ha permesso agli utenti di avere una certa fiducia nella sicurezza delle infrastrutture, ma rimuovendolo completamente la società entrerà sicuramente in una fase che potrebbe essere chiamata di “trasparenza forzata”, una situazione dove tutto è visibile, prevenuto e controllato.
In altre parole, le disconnessioni della fibra ottica creano una struttura di governance digitale in cui ogni interazione umana, dalla classe al discorso familiare, sociale e politico, è potenzialmente esposta ad audit e censurata.

Internet in fibra ottica non è ancora scollegato del tutto ed è disponibile in alcune parti del paese, tuttavia ci sono segnali che la tendenza potrebbe presto diventare nazionale. Infatti, la stessa incertezza della situazione ha creato una sorta di instabilità digitale e insicurezza in settori come quello bancario, l’istruzione e l’occupazione.

La gente non sa se domani avrà accesso alle risorse globali per l’occupazione, la scienza e l’istruzione. I loro contatti con la famiglia emigrata saranno interrotti in pochi secondi o no? E le loro attività online crolleranno improvvisamente in un giorno qualsiasi? Questa incertezza è una forma di pressione psicologica che distrugge la fiducia in qualsiasi connessione digitale.

Distruggere la memoria digitale collettiva

Da una prospettiva più ampia, questa azione significa anche indebolire e distruggere la memoria digitale collettiva. La fibra ottica ha reso possibile che le produzioni scientifiche, culturali e mediatiche afghane fossero viste insieme a quelle delle altre nazioni e rimangano parte della memoria comune dell’umanità.

Ma tagliando questo percorso internazionale, le narrazioni dell’Afghanistan rimarranno nelle quattro mura domestiche, saranno censurate e saranno private della riflessione globale. Di conseguenza, l’Afghanistan sarà emarginato e i suoi cittadini privati della possibilità di ottenere un’immagine reale e umana della vita del mondo.

Il silenzio digitale è anche una sorta di silenzio storico, perché ciò che non si vede e non si ascolta non verrà registrato e immortalato nella memoria mondiale.

L’identità digitale delle nuove generazioni

Un’altra delle dimensioni e degli effetti devastanti di questa tendenza è quella sull’identità sociale e la mentalità delle giovani generazioni. La fibra ottica accanto a una piattaforma tecnologica affidabile e adeguata era una finestra su diverse narrazioni e discorsi globali, accesso che aiuta i giovani ad acquisire orizzonti più ampi, a confrontare le realtà politiche, sociali e tecnologiche del loro paese con quelle delle altre comunità e, attraverso questo confronto, trovare critiche e interrogativi.

Ma se questa finestra che si chiude, avverrà un graduale silenzio del pensiero critico e un indebolimento della memoria storica della generazione da cui dipende il futuro del Paese. Lo spegnimento della fibra ottica non è solo un’interruzione del servizio tecnico ma anche dell’identità digitale di generazioni, che passeranno dalla diversità e dalla capacità di relazione al silenzio, all’estremismo e alla monotonia.

La disconnessione della fibra ottica finalizzata a concentrare il flusso di dati e informazioni nelle mani del governo rende praticamente possibile il controllo completo delle informazioni. Questo significa determinare ciò che le persone vedono o non vedono, e quindi ciò che rimarrà impresso come “verità” nelle menti delle generazioni attuali e future.

Si può parlare di “nascita della generazione digitale muta”, generazione che perde la possibilità di libera rappresentazione della propria identità, pensiero e narrazione e vedrà l’aumento dell’estremismo.

La disconnessione della fibra ottica prefigura un Afghanistan rimosso dalla carta dell’economia mondiale incentrata sulla conoscenza; la sua gioventù si trasformerà in una generazione silenziosa, estremista e isolata. Se questo processo continua, ci sarà un vuoto che non sarà possibile colmare in pochi anni e che potrebbe richiedere generazioni.

 

Estorsioni in nome della Sharia

Le estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane

Sayeh, شفق همراه, settembre 2025

Le autorità preposte alla promozione del bene e la proibizione del male, che secondo i leader del gruppo talebano dovrebbero attuare la Sharia, sono progressivamente diventati un apparato estorsivo.

Questi funzionari accusano le donne per il mancato rispetto dell’hijab (velo) e per la mancanza di un mahram maschile (parente maschio), mentre gli uomini sono incolpati di indossare abiti contrari alla cultura islamica afghana, di tagliarsi i capelli in violazione della Sharia e di avere tatuaggi. Con minaccie di punizirli, portarli in caserma e rinchiuderli in prigione, li spaventano per poter estorcere loro denaro e oggetti di valore. Queste estorsioni sono diventate parte integrante delle attività quotidiane delle forze di sicurezza talebane.

Non si tratta solo di fatti occasionali: ogni giorno ci sono donne e giovani che vengono violate e insultate in qualche parte della città; a causa del “hijab” o del “zahir” (aspetto), subiscono violenze e umiliazioni e sono costrette a pagare e a consegnare i loro beni di valore per non essere portate via e subire abusi.

Sajeda, che ora ha lasciato l’Afghanistan, racconta la sua terribile esperienza: “L’estate scorsa stavo facendo i preparativi per un viaggio e sono uscita di casa per fare degli acquisti. Indossavo uno scialle semplice e modesto, ma avevo lasciato fuori alcune ciocche di capelli che, in realtà, non pensavo potessero essere oggetto di biasimo. Questo, però, è bastato perché la cosiddetta banda talebana mi fermasse”.

Mentre arrivava a Pul-e-Sorkh, incontrò le forze dell’ordine talebane che le ordinano di fermarsi. “Uno di loro disse ad alta voce: ‘Fermati, ragazza. Che razza di vestito è questo?'”.

Quando lei spiegò che il suo vestito era in regola, uno di loro disse che aveva i capelli che uscivano dal velo e che la sua famiglia doveva venire a garantire per lei per
chè fosse lasciata libera. “Mi hanno costretta a seguirli al terzo distretto, ma quando siamo stati nelle vicinanze mi hanno fatta entrare in un vicolo che scende in fondo al mare e uno dei più giovani mi ha detto: ‘Dammi cinquemila afgani e sei libera’. All’inizio ho opposto resistenza e ho detto che non avevo soldi, ma loro non hanno accettato».

Le prensero il cellulare, guardarono le foto contenute e poi, indicando quelle della famiglia, le dissero: ‘La vostra famiglia ha un problema con l’hijab’. Nella galleria del mio cellulare c’erano foto del matrimonio di mio fratello e della mia festa di compleanno. Quando ho detto che quelle foto erano private, uno di loro ha gridato con rabbia: ‘La Sharia deve essere osservata sia in pubblico che in privato’”.

“Mentre ci avvicinavamo al posto di polizia, continuavano a minacciarmi e a ripetermi che il mio crimine era grave, perciò ho capito che mi avrebbero trattenuta e che non avevo alcuna possibilità di venirne fuori. Quindi mi sono decisa a pagare tremila afghani per salvarmi”.

Questo caso mostra come il “mahram” e l’“hijab” non costituiscano un principio religioso per i talebani, ma un mezzo di intimidazione e di controllo finalizzato all’estorsione. Quando una ragazza viene arrestata con l’accusa di aver indossato un velo troppo corto, presa in ostaggio e ricattata con il pretesto di qualche ciocca di capelli e sottoposta a un processo sommario, è evidente che l’obiettivo è il controllo e il ricatto. Questo comportamento intimidatorio e umiliante compromette la sicurezza delle donne anche nelle più semplici attività e movimenti quotidiani.

Anche i ragazzi sono presi di mira

Vahid “Mastar”, un ragazzino che ha un piccolo tatuaggio sul polso ed è stato molestato più volte dai talebani per questo, racconta l’ultima volta che ciò è accaduto: “Avevo fatto il tatuaggio prima che arrivassero i talebani. All’inizio, quando mi rimboccavo le maniche, mi molestavano sempre, perciò lo nascondevo. Questa primavera mentre stavo tornando a casa, non mi ero abbottonato la manica e il mio tatuaggio era visibile. Una persona mi ha invitato a raggiungerla, ma quando ha visto il tatuaggio, mi ha schiaffeggiato e ha detto: “Questo è un segno di infedeltà”.

Però non si trattò solo di una minaccia: lo portò direttamente alla polizia di zona togliendogli il cellulare. «Mi ha fatto passare davanti a un container e ha minacciato di rinchiudermi lì. Uno dei talebani, che non indossava l’uniforme bianca e che non sembrava essere un membro dell’Amr al-Ma’ruf, era seduto su uno sgabello. Mi si è avvicinato e ha detto: “Promettimi che rimuoverai il tatuaggio e verrai rilasciato'”.

Quando ritornò il funzionario talebano, Wahid iniziò a supplicarlo e a promettere di cancellare il tatuaggio. Dopo qualche istante, lui accettò e gli portò carta e penna per scrivere la promessa. “Poi mi disse: ‘Ora ti conosco e se vedo che hai ancora il tatuaggio non ti perdonerò’. Mentre me ne andavo, gli ho detto che aveva il mio cellulare. Mi si avvicinò e mi disse: ‘Non credo che tu abbia capito perché ti ho rilasciato così facilmente’. Mi resi conto che non mi avrebbe restituito il cellulare. Onestamente, ero spaventato perchè avevo visto molte persone picchiate senza motivo”.

Quando Vahid uscì dal commissariato, il funzionario lo seguì e gli fece notare che non aveva affatto un cellulare e che se gli avesse rivisto un tatuaggio, si sarebbe messa male per lui.

Ora le strade di Kabul e di altre città sono diventate un terreno di ricatto e di guadagno per il gruppo talebano; quella che chiamano “imporre ciò che è giusto e proibire ciò che è sbagliato” è in realtà una pratica di estorsioni e umiliazioni, un luogo in cui le donne vengono fermate a causa dei loro capelli e il colore dei loro vestiti e i giovani a causa del loro aspetto fisico, mentre sono sottoposti a estorsioni, insulti e umiliazioni.