Afghanistan, due donne queer rischiano la morte dopo un tentativo di fuga verso l’Europa
gay.it Francesca Di Feo 1 aprile 2025
Di Maryam e Maeve si sono perse le tracce dal 20 marzo, giorno del loro arresto da parte dei talebani. Liberarle è una corsa contro il tempo.
Un biglietto aereo, l’illusione di un passaggio verso l’altrove, e poi il silenzio. Lo scorso 20 marzo, Maryam Ravish e Maeve Alcina Pieescu sono state fermate all’aeroporto internazionale di Kabul mentre tentavano di lasciare l’Afghanistan. Erano pronte a fuggire verso l’Iran, prima tappa di una rotta clandestina che le avrebbe condotte, forse, in un Paese europeo. Una destinazione che significava, semplicemente, poter vivere.
Maryam, lesbica, diciannove anni, e Maeve, ventitré, donna transgender, erano entrambe attiviste della rete sotterranea Roshaniya, nata per offrire rifugio alla comunità LGBTQIA+ afghana. I loro sogni si sono infranti sulla pista dell’aeroporto, dove gli agenti dell’intelligence talebana le hanno fermate, perquisite, arrestate. Da allora non si hanno più notizie certe. E mentre la comunità internazionale osserva con una colpevole prudenza, il tempo corre: le due giovani rischiano la pena di morte.
Quello che sta accadendo a Maryam e Maeve è l’ennesimo, tragico epilogo per chi, in Afghanistan, appartiene a una minoranza di genere o sessuale, dove vivere come persona queer significa sopravvivere ogni giorno a un sistema che trasforma l’identità in crimine, il desiderio in reato, la libertà in eresia.
Ed è proprio nell’invisibilità forzata che si consuma una delle più profonde violazioni dei diritti umani del nostro tempo: nessuna legge protegge chi ama fuori dalle norme, e la Sharia – interpretata secondo i canoni del fondamentalismo talebano – legittima lapidazioni, torture e sparizioni.
Afghanistan, dove sono Maryam e Maeve?
Secondo quanto ricostruito dalla rete Roshaniya e dalla Peter Tatchell Foundation, Maryam e Maeve si erano presentate all’aeroporto accompagnate da Parwen Hussaini, ventenne e compagna di Maryam, anche lei attivista. Solo Parwen è riuscita a salire sul volo diretto a Teheran. Le altre due, bloccate a un controllo, sono state costrette a consegnare i telefoni.
È bastata la presenza di contenuti legati alla comunità LGBTQIA+ – foto, chat, contatti – per far scattare l’arresto. Le testimonianze raccolte raccontano di percosse, umiliazioni e minacce. Da allora, il silenzio.
Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.
Anche la sorella di Maeve, Susan Battaglia, residente negli Stati Uniti, ha lanciato un appello pubblico: durante l’interrogatorio, la sorella avrebbe dichiarato di non credere più nella religione islamica. Un gesto che, in un Paese dove l’apostasia è punita con l’esecuzione, rischia di trasformarsi in una condanna irreversibile.
Maryam, dal canto suo, era già stata costretta dalla famiglia a un matrimonio eterosessuale. Il suo tentativo di fuga rappresentava un atto di autodeterminazione e di amore: voleva costruire una vita con Parwen, sposarsi in Europa, lontano da un contesto che le aveva negate come figlia, come donna, come persona.
Per questo, oggi, Roshaniya chiede con forza che la comunità internazionale esca dall’ambiguità diplomatica e agisca. “Chiediamo a tutte le organizzazioni per i diritti umani (in particolare Human Rights Watch e Amnesty International) e alle organizzazioni LGBTQ+ (in particolare OutRight International, ILGA Asia, Stonewall, Rainbow Railroad e Human Rights Campaign) di aiutarci a diffondere la notizia dell’arresto di Maryam e Maeve e a fare pressione sul regime talebano affinché rilasci queste due coraggiose attiviste afghane per i diritti umani LGBTQ+” afferma il fondatore dell’organizzazione, Nemat Sadat.
Afghanistan, la ferocia della norma
L’arresto di Maryam e Maeve non un rigurgito estemporaneo di fondamentalismo, ma la conseguenza diretta di un sistema teocratico che fa dell’annientamento delle soggettività queer una delle sue fondamenta. Con la riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani nell’agosto 2021, l’intera architettura dei diritti civili è crollata.
Ma non si tratta di una frattura improvvisa. La repressione delle diversità sessuali e di genere è radicata in decenni di ambiguità giuridica, violenza sociale e complicità politica. Se oggi la pena capitale per atti omosessuali è prevista e in alcuni casi applicata, è anche perché nessuna forza, né interna né esterna, ha mai lavorato seriamente per smantellare l’impalcatura culturale che la sostiene.
Il primo emirato talebano, tra il 1996 e il 2001, aveva già introdotto l’idea che la giustizia potesse passare per la lapidazione o l’impiccagione pubblica. Ma anche durante l’intervento occidentale, l’omosessualità non è mai stata depenalizzata. Le leggi sono rimaste vaghe, la violenza sistemica, l’omofobia strutturale. Le persone trans, in particolare, sono sempre rimaste fuori da ogni orizzonte normativo: invisibili per lo Stato, ipervisibili per la violenza familiare, religiosa e sociale.
Oggi, i rapporti di OutRight International, Human Rights Watch e Amnesty International parlano chiaro. Si moltiplicano le testimonianze di arresti arbitrari, sparizioni forzate, stupri correttivi, torture. Nel 2022, un giovane studente di medicina è stato ucciso a Kabul dopo essere stato accusato di omosessualità.
Parwen ha diffuso un video in farsi in cui racconta il dramma vissuto. Parla di famiglie ostili, minacce, e soprattutto della totale incertezza sulla sorte delle sue compagne. “Non abbiamo notizie da Maryam, quindi non sappiamo in che situazione si trovino ora. È possibile che siano state messe in isolamento e che vengano lapidate a morte — c’è la possibilità che ricevano una condanna a morte”.
Le persone trans vengono fermate in strada, costrette a subire trattamenti religiosi coercitivi, espulse dalla famiglia e dalla vita pubblica. E se un tempo almeno l’attenzione internazionale garantiva una fragile rete di protezione per i difensori dei diritti umani, oggi quella stessa attenzione si è spenta. L’Afghanistan non è più una priorità diplomatica. Le sue persone queer, ancora meno.
Eppure, qualcosa si muove. A gennaio 2025, la Corte Penale Internazionale ha chiesto l’emissione di mandati di cattura per due leader talebani, accusandoli di crimini contro l’umanità, anche per la persecuzione delle persone LGBTQIA+. È un segnale, ma ancora troppo timido.
Nel raccontare queste storie, è però fondamentale evitare la trappola narrativa di chi riduce l’Afghanistan a una caricatura di oscurantismo, un deserto morale in cui l’unica luce sarebbe stata portata dagli eserciti stranieri. Non è così.
Se la condizione della comunità LGBTQIA+ è oggi tragica, lo è anche perché le forze occidentali, per vent’anni, hanno spesso preferito sostenere governi corrotti, stipulare accordi con i signori della guerra, appaltare la sicurezza a milizie private, piuttosto che investire in un vero processo di democratizzazione libero e auto determinato che partisse dal basso. La retorica liberale, disancorata dalla realtà sociale, si è scontrata con una struttura tribale e patriarcale che nessuno ha davvero mai aiutato a decostruire.
Il ritiro del 2021 è stato solo l’epilogo di una strategia miope, priva di ascolto e responsabilità. E, nel frattempo, a Kabul, due giovani donne queer aspettano. Un segnale, una voce, un gesto politico che non arrivi tardi come sempre.
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