“Amina”, l’Afghanistan e l’infanzia femminile negata
Davide Magnisi, TaxiDrivers, 14 maggio 2025
Un’intervista alla regista Serena Tondo, che a Corti in Opera ha presentato il suo debutto alla regia, un recupero della memoria in un Afghanistan tornato in mano ai talebani
Amina, premiato alla settima edizione di Corti in Opera, è una sorprendente opera prima dal respiro internazionale, sia per la storia che racconta sia per un linguaggio cinematografico brillante ed eminentemente visivo. Il cortometraggio racconta un aspetto poco noto della condizione femminile in Afghanistan, quello delle bambine bacha posh: le famiglie senza figli maschi, per evitare discredito sociale, inducono le figlie a vestirsi e comportarsi da ragazzi. Il paradosso di questa femminilità rimossa è che le bacha posh godono di possibilità negate alle altre bambine: come andare a scuola, fare sport, uscire da sole. Arrivata la pubertà, le famiglie costringono le bacha posh a tornare al proprio genere di appartenenza, catapultandole nell’invisibilità domestica, con inevitabili contraccolpi psicologici.
Per raccontarci tutto quello che c’è dietro la storia di Amina, abbiamo intervistato la sua autrice, Serena Tondo
Come hai incontrato la storia di Amina?
Per caso: un giorno stavo navigando su internet e mi è uscita la pubblicità di un libro, Le ragazze segrete di Kabul, di Jenny Norberg, giornalista svedese Premio Pulitzer. Aveva fatto due anni d’inchieste sulla condizione delle donne in Afghanistan e ha scoperto questo fenomeno, di cui non aveva mai sentito parlare. È andata alla ricerca di famiglie che avevano bambine in questa situazione o donne che avevano subito questa trasformazione, raccogliendo molte storie. Lo stupore è che succede ovunque, sia nelle città che nei villaggi, riguarda sia famiglie di Kabul istruite che gente povera e ignorantissima. C’è un approccio diverso, ma permane la crudeltà di questa pratica. Nelle famiglie più colte c’è, magari, una maggiore responsabilità e consapevolezza, mentre nei villaggi non c’è alcuna attenzione a quelle che possono essere le ripercussioni psicologiche sulle bambine una volta che ritornano al proprio genere di appartenenza.
Immagino si sconti una doppia vergogna, in Afghanistan, di fronte a questo fenomeno.
Il problema è stato proprio riuscire a trovare persone disposte a parlarne. Per esempio, c’era una donna di Kabul con una bambina bacha posh perché si era candidata in Parlamento, ma, non avendo figli maschi, avrebbe avuto zero possibilità di essere votata. Poi diceva che voleva anche far vedere a sua figlia cosa significava avere diritti, essere libera e felice. Una situazione complessa.
Quel che accade in Afghanistan è ormai uscito dalla scena d’attenzione dei media, di fronte ad altre emergenze mondiali. Com’è la situazione oggi, in particolare per le donne?
La situazione è drammatica. Ho conosciuto donne afghane arrivate con i corridoi umanitari, mentre facevo il mio periodo di ricerca su questa storia. Hanno dovuto lasciare il Paese perché nella lista nera dopo il ritorno dei talebani: giornaliste, psicologhe, donne colte e libere. Tutte hanno perso il lavoro. Non possono fare più nulla. Sono tornate indietro di vent’anni, anche per colpa nostra. Perché le emergenze mondiali le gestiamo come vogliamo. Decidiamo noi quel che è emergenza o no. Adesso non si vede più nulla dell’Afghanistan. C’era un’apertura maggiore, ma vent’anni sono stati spazzati via in un momento. Alcuni sono riusciti a scappare, ma tanti sono rimasti intrappolati là.
Amina ha una grammatica cinematografica raffinatissima, fatta di contrasti tra buio e colori luminosi, spazi chiusi e aperti, un montaggio delle attrazioni d’alta scuola. Quali sono stati i tuoi punti di riferimento, visivi e cinematografici, per quest’opera?
Il mio tipo di apprendimento è molto intuitivo. Non mi metto a studiare teorie. Girando, ho pensato a registi che apprezzo molto dal punto di vista visivo, Terrence Malick su tutti. Mi piaceva avere quel suo tipo di luminosità nelle scene di giorno. Poi, ovviamente, quando si gira in esterni, dipende dalla fortuna che ti capita con la luce naturale, non avendo la possibilità dei tempi di ripresa di Malick che, delle volte, arrivava sul set, non gli piaceva la luce e andava via. Invece, per i colori più scuri al chiuso, ho pensato a In the Mood for Love di Wong Kar-wai, a quell’atmosfera, alla sua dimensione in spazi costretti. E poi, in generale, David Lynch. Queste sono le mie visioni. A cui aggiungo il gusto pittorico del cinema di Matteo Garrone in Italia. Per Amina ho scelto dei colori di fondo che, secondo me, potevano essere giusti, come il viola.
Quanto è stato complicato realizzare Amina? Penso anche alla grande cura nei costumi e la fotografia, oltre a un casting non in lingua italiana.
La protagonista del cortometraggio è la figlia di una psicologa fuggita dall’Afghanistan, che ho incontrato e mi ha fatto da consulente. Mi ha spiegato tantissime cose sul quel Paese. Per il film aspettavo la sua approvazione su tutto, anche come andasse posizionato un bicchiere. Io stavo impazzendo per trovare la protagonista: una bambina che sembrasse non tanto femmina, che sapesse recitare, che fosse afghana o anche italiana, ma che poi dovesse parlare in pashto. Avevo visto tante bambine. E lei, un giorno, dopo settimane che ne stavamo discutendo, mi ha detto: «Io ho una figlia, ti posso mandare una foto». Quando l’ho guardata, ho capito che era lei. Mi chiedevo, però, se fosse in grado di recitare: si è rivelata bravissima, soprattutto considerando la situazione. Noi non comunicavamo direttamente, avevamo un interprete, quindi per lei era ancora più difficile: una bambina di 13 anni, catapultata su un set con una regista che non capisce… Ho anche scoperto, mentre le tagliavamo i capelli, che aveva un’alopecia da stress. Il trauma nasceva dal fatto che lei, quando è scappata con la famiglia, è stata fermata al confine con il Pakistan e hanno puntato una pistola contro la testa del padre, proprio come si vede nel film. Ci sono tante storie di persone che sono arrivate lì e poi sono state rimandate indietro. Arrivati al confine con il Pakistan, i profughi scappano attraverso strade secondarie, pagando il viaggio, ovviamente. Quello è il punto più critico da attraversare. Tutti i costumi li abbiamo cuciti per l’occasione, con dei modelli che ho scelto sempre insieme alla consulente afghana.
E per il resto del cast? Sono tutti volti molto veri.
Per il casting degli altri ragazzi, c’erano due afghani, che erano appena arrivati in Italia, e poi alcuni rom. A me piace avere a che fare con gente un po’ ai margini. A Lecce c’è Campo Panareo, uno dei più grandi campi rom d’Italia. Visivamente sono molto simili agli afghani. E poi sono svelti d’intelligenza. I ragazzini rom sembrano avere un’esperienza da farli apparire dieci anni più grandi dei loro coetanei. È stato facile per loro imparare le battute in pashto, merito dell’interprete. Poi c’è anche qualche italiano, ma ho cercato il più possibile di coinvolgere profughi arrivati da poco. Non era solo un’esigenza di realismo, mi piaceva l’idea che per loro sarebbe stato un modo di sentirsi utili. Quando perdi tutto e arrivi in un luogo lontano, offrire la possibilità di raccontare una storia come questa, che stessero facendo qualcosa per il loro Paese, per quanto piccolo potesse essere come contributo, ha fatto sì che tutti abbiano accettato con grande entusiasmo. Mi hanno aiutato tantissimo.
In Amina non si parla molto, è un cinema totalmente visivo.
Sì, non ho mai immaginato un film denso di parole. Secondo me, la storia doveva arrivare visivamente allo spettatore, parlare soprattutto con le immagini.
Dove avete girato?
In Puglia. Siamo stati parecchio in giro per trovare i luoghi giusti. È stato difficile trovare i posti all’aperto che potessero rievocare quegli spazi lontani. La scena della partita di pallone, per esempio, è ambientata in una cava tra Avetrana e Manduria. La dimora di Amina è una casa abbandonata in campagna dell’organizzatore generale del film, che ci aveva fatto vedere mille posti che non andavano bene, poi si è ricordato di questa vecchia casa di famiglia dove non c’era nulla intorno
Tu hai cominciato nel cinema come attrice e fai una piccola parte anche in Amina, di cui sei autrice del soggetto e della sceneggiatura, oltre che regista. Cosa ti affascina di più della macchina cinema e che cosa un ruolo dà all’altro?
Per quella che è la mia formazione del mestiere d’attrice, qualcosa che non si definisce mai, ma una ricerca continua, la cosa che più mi piace è il fatto che tu vivi su di te il personaggio. È qualcosa che parte da fuori, arriva dentro di te e poi riesce fuori. Dal punto di vista registico, il percorso è opposto. Nel senso che non esiste niente, un testo, una storia, solo degli spunti, e il personaggio lo devi creare tu. Viene da dentro di te, si forma raccogliendo piccoli pezzi, ma non sei limitato da un testo già esistente: quando fai l’attrice, se il tuo personaggio è Giulietta, sai benissimo chi sei e che farai, non puoi uscire da quel seminato. Invece, quando crei un personaggio, hai libertà. Io ho cominciato a scrivere Amina dopo aver conosciuto degli afghani. Si parte da atmosfere e poi crei dalla tua testa. Sono un po’ processi opposti. Dell’attrice mi piace che prendi qualcosa che è stato scritto da qualcun altro e lo fai tuo. Quello che invece mi piace della scrittura è la magia di qualcosa che nasce nella tua testa e poi diventa vera.
Amina è anche un film sulla memoria. È in gran parte costruito su flashback.
Io sono una persona molto nostalgica e ho un rapporto molto forte con il passato. Non riesco a staccarmi da alcuni ricordi, che condizionano il mio presente. Mi rendo conto che, anche nel lavoro cinematografico, tendo sempre ad andare verso questo, a strutturarlo come sono fatta io.
Hai portato Amina in vari Festival. Qual è stata la reazione del pubblico?
Al di là del giudizio sul film, quello che sento sempre è che nessuno conosceva questa storia. Non mi meraviglia, neanch’io sapevo nulla, avendola pescata così su internet, mi rendevo conto di essere una delle poche persone a conoscerla. Ho notato anche che, soprattutto le donne, di qualunque età, rimangono particolarmente scosse. Le reazioni e le riflessioni più articolate, più profonde, le ho sempre avute dal pubblico femminile. È quello che ha empatizzato di più con questa storia.
Non a caso, l’immagine in qualche modo centrale del film, punto di svolta narrativo, è quando Amina scopre, tra l’altro pubblicamente, di avere il ciclo mestruale. È una rivelazione anche archetipica dell’essere donna. La scoperta di una specifica fisicità.
È, infatti, un passaggio che tutte ricordiamo. Non credo ci sia una donna che non rammenti dove stesse quando ha avuto per la prima volta il ciclo. Quello credo sia, probabilmente, il punto di connessione che trovano tutte le donne quando guardano questo film. Particolarmente in questo caso diventa una rivelazione a te stessa e al mondo. Tieni presente che, in Afghanistan, non si parla mai di mestruazioni. La prima volta che una bambina ha il ciclo, veramente non sa cosa stia succedendo. Qui in Occidente, in qualche modo, siamo preparate. Io lo sapevo che mi doveva succedere. Con le amiche, i genitori, si parla. Ma loro no, perché è un tabù talmente grande, che tu hai il doppio trauma di non capire cosa ti sta accadendo. Tanto più in una situazione come quella di Amina, non sai quale sarà la portata sociale di quello che ti sta succedendo.
Vincere un premio nella propria terra, qui a Corti in Opera, in Puglia, immagino abbia un significato speciale.
È la cosa che mi fa più piacere in assoluto, perché io ho un rapporto strano con questa terra. Di natura mi sono sempre sentita cosmopolita, non ho un attaccamento da tifoseria alla mia Puglia. Riesco a essere abbastanza obiettiva su cosa mi piace e cosa no. Amina è girato in Puglia, ma racconto di un luogo lontano perché, fin da piccola, sono sempre stata curiosa dell’altrove. La gente parte dal presupposto che la propria terra sia sempre la migliore, io lo vedo come un atteggiamento che impedisce di aprirsi veramente agli altri. Io volevo viaggiare, conoscere, vedere, mi affascina sempre molto. Però rimango male quando, nella mia terra, quello che faccio non viene riconosciuto. Per cui sono felice di essere qui a rappresentare la mia regione, nel mio piccolo, con un’opera, come dicevi tu prima, dal respiro internazionale.
Hai già degli altri progetti cinematografici di cui ci puoi e ci vuoi parlare?
Sì, mi sto avventurando nella scrittura di un lungometraggio, partendo dalla mia personale condizione di persona affetta da epilessia. Sono stata perfettamente sana fino a 22 anni, poi ho iniziato ad avere queste problematiche. Non è stato un processo di accettazione facile. Mi ci è voluto un po’ per metabolizzare questa cosa. Per fortuna non è una forma severa, però porta comunque delle difficoltà. Di epilessia non si parla molto. Ho deciso di utilizzare questo spunto insieme a un mio grande amico e geniale autore, Alessandro Valenti. Ho iniziato a ragionarci, immaginare, e adesso sto elaborando una commedia, perché non voglio fare cose smielate, retoriche. Sarà un film sullo sport e l’epilessia. Certo, con i tempi del cinema italiano, sarà forse pronto tra dieci anni. Però non mollo!
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