Da dirigenti ad allevatrici di polli: la dignità delle lavoratrici afghane
Avvenire, 9 giugno 2025, di Nasrin Jawadi e Khadija Haidary, Sheberghan (provincia di Jawzjan)
Espulse dai taleban dalle principali professioni, tante sono costrette a vendere uova, cucire o fare le domestiche per sfamare se stesse e le famiglie. «Non sanno quanto sappiamo essere perseveranti»
Dare voce alle donne. Quando e dove non ne hanno. Perché della loro condizione ancora troppo svantaggiata si sappia e si parli. Dal Libano all’Iraq, dal Messico alla Nigeria, dall’Afghanistan alla Somalia, dall’India al Perù: sono 10 le reti indipendenti di giornaliste che hanno aderito alla nostra proposta “Donne senza frontiere”, il progetto di Avvenire per l’8 marzo 2025. A partire da quella data pubblichiamo ogni 15 giorni un reportage di ciascuna delle reti coinvolte. Questa puntata è stata realizzata dalla giornalista Sandy Hayek da Tripoli (Libano), della rete femminista Sharika Wa Laken.
Somaya nasconde il cesto di uova sotto il chador blu mentre si affretta verso il mercato Yingi Kint di Sheberghan, nella provincia di Jawzjan. È un luogo frequentato esclusivamente da uomini ma Somaya ha messo da parte la paura per andarci ogni giorno. La prima tappa è un piccolo negozio di alimentari di un conoscente con cui si è accordata per vendere le uova. «Da ognuno ricavo cinque afghani (la valuta locale equivalente a meno di dieci centesimi di euro, ndr)», racconta a Zan Times. «Vendo da 30 a 35 uova al giorno. A volte vado di negozio in negozio per smerciarle se il mio conoscente non le compra tutte». Sa che i taleban proibiscono alle donne di girare per il mercato o di commerciare apertamente. Quindi non si attarda ma torna a casa il più rapidamente possibile. Con i modesti guadagni delle uova deve soddisfare le necessità essenziali della propria famiglia.
Nei quasi quattro anni di potere, i taleban hanno imposto numerose leggi e regolamenti volti a limitare in modo grave o addirittura proibire il lavoro delle donne. Per prima cosa, queste ultime sono state espulse dagli uffici governativi, poi è stato vietato loro di avere incarichi nelle organizzazioni non governative, nelle Nazioni Unite, nelle università e persino nei saloni bellezza femminili. Con la progressiva riduzione delle opportunità di impiego, sempre più afghane sono state costrette ad accontentarsi di posti non qualificati e faticosi. Dodici anni fa, da quando il marito è morto in un incidente stradale, Somaya è diventata il capofamiglia: deve, dunque, farsi carico della figlia e della madre. Un nucleo di tre donne è fuori dalla logica dei taleban per i quali Somaya, come tutte le altre, deve uscire di casa solo in compagnia di un tutore maschio. Questa 44enne – che sopravvive nutrendo e prendendosi cura di alcuni polli – un tempo era una dirigente dell’amministrazione provinciale. «Avevo esperienza nel mio campo – spiega –. Le persone erano soddisfatte del mio lavoro; tutti mi rispettavano. In realtà, non avevo mai gestito un allevamento di pollame; non sapevo nemmeno badare a una sola gallina. Ma ho dovuto arrangiarmi e imparare poiché non trovo nient’altro. E ciò mi rattrista profondamente». Un tempo guadagnava circa 10mila afghani al mese (quasi 130 euro, ndr). Ora è fortunata se arriva alla metà grazie al pollaio improvvisato nel cortile di casa.
Somaya non è un caso isolato, come confermano i dati. Nel 2024, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha rivelato che, a causa delle restrizioni, l’occupazione femminile totale è calata dall’11 per cento al 6 per cento nel giro di due anni. Di recente, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), citando l’Ong specializzata Acaps, ha dichiarato che il numero di lavoratrici afghane è precipitato dal ritorno al potere dei taleban. Il rapporto Acaps, pubblicato a febbraio, sottolinea che mettersi in proprio è l’unica opzione disponibile per le donne. Per questo, il numero di imprese al femminile è quadruplicato tra il 2021 e il 2024. A questo, sempre in base alle stime di Acaps, si aggiunge la cifra di società senza licenza gestite da donne, più che raddoppiata negli ultimi anni. Ma anche queste attività non sono esenti da gravi rischi. Nel giugno 2022, Zuleikha e il marito sono stati licenziati dopo che il loro ufficio ha ricevuto un avvertimento dai taleban. Entrambi erano professionisti con 15 anni di esperienza nelle organizzazioni internazionali, tra cui Acted e l’Aga Khan development network. Eppure non sono riusciti a trovare un nuovo impiego. Così, come Somaya, hanno creato un pollaio in cortile e hanno avviato un allevamento di galline. La coppia, che un tempo guadagnava più di 40mila afghani al mese (circa 500 euro, ndr), ora fatica a ricavarne 3mila (meno di 40, ndr). «Le galline depongono le uova; i miei figli ed io ci prendiamo cura di loro, poi vendiamo le uova e con questo copriamo a malapena le spese», spiega. Il marito di Zuleikha, inoltre, possiede un triciclo da carico che gli consente di ottenere 200 afghani al giorno (2,5 euro, ndr). Con queste cifre non ce la fanno a sopravvivere. «Crescere un figlio è difficile, figuriamoci sei. Siamo davvero in una situazione difficile, non siamo in grado di andare avanti», si lamenta. Zan Times ha parlato con sette donne delle province di Takhar e Jawzjan che in passato ricoprivano incarichi qualificati all’interno della pubblica amministrazione o in Ong e ora devono allevare galline o svolgere altri lavoretti, come il ricamo o le pulizie domestiche, per sfamare se stesse e le famiglie.
Fino al novembre 2024, Shabanam, 32 anni, è stata formatrice in un istituto di educazione sanitaria. Ora è una sarta che decora con le perline le culle dei neonati. Seppure aveva appreso quest’arte fin da bambina dalla madre, prima non l’aveva mai considerata un mezzo per guadagnarsi da vivere. «Mio marito mi diceva: “Non farlo, non ci riuscirai” – racconta –. Ma dopo essere caduta in depressione a causa della disoccupazione, ho insistito. Avevo necessità di lavorare e di essere indipendente». Shabanam vende i suoi prodotti alle donne del quartiere, nei bazar locali e ad acquirenti che comprano all’ingrosso e li esportano in altre province. Sposata da solo due anni fa e senza figli, è determinata a costruire una vita migliore per la futura famiglia. «Questa è la mia lotta. I taleban si illudono di poter sconfiggere le donne afghane, ma non sanno nulla della nostra perseveranza e della nostra capacità di resistenza», dichiara con voce risoluta.
Mentre Shabanam e marito riescono comunque a cavarsela, Golchehra, 27anni, capo di una famiglia di sei persone, vive sull’orlo di un precipizio. Un tempo direttrice di una scuola privata, è costretta ad accettare qualsiasi lavoro per sfamare i suoi. Golchehra va di casa in casa, lavando vestiti e pulendo case per 250 afghani al giorno (circa 3 euro, ndr). «Alcune famiglie mi umiliano, mentre altre, con compassione, mi dicono: “Che fine ha fatto la ragazza che un tempo era direttrice e aveva un buono stipendio?”». In alcune case dove ha prestato servizio, è stata molestata. «Alcuni uomini mi hanno proposto di fare sesso in cambio di denaro e questo mi turba profondamente», dice. «Devo, però, fare finta di nulla. Ho dovuto reprimere tutti i sentimenti. Ora vivo solo per la mia famiglia». Non può smettere di lavorare anche se non si sente al sicuro. «Vorrei trovare un posto migliore. Non è facile. Ci provo, però nella speranza che le mie sorelle non debbano affrontare quel che sto soffrendo io».
Sono stati utilizzati pseudonimi per le intervistate, così come per Nasrin Jawadi, giornalista afghana
Khadija Haidary è una reporter di “Zan Times”
La traduzione dall’inglese è di Lucia Capuzzi
Zan Times, il giornale delle donne scavalca i Continenti: lo scrivono insieme reporter rimaste nel Paese ed espatriate
Quando, il 15 agosto 2021, i taleban sono tornati a Kabul, Zahra Nader non era in Afghanistan. Era partita tre anni prima per salvarsi dalla furia degli estremisti che avevano intensificati gli attacchi mirati nei confronti dei giornalisti. Zahra, corrispondente di punta per il “New York Times” dalla capitale afghana era un bersaglio. Da qui la scelta di trasferirsi a Toronto con la famiglia e là ha frequentato un dottorato in Studi di genere alla York University. Anche a distanza, il crollo della Repubblica e la creazione dell’Emirato è stato un duro colpo. «Ho sentito di avere la responsabilità di fare qualcosa per le donne del mio Paese». Nell’agosto 2022 è nato, così, “Zan Times”, cioè il “giornale delle donne”, poiché ha una redazione tutta femminile. A realizzare il quotidiano online sono reporter afghane della diaspora e da altre rimaste all’interno e costrette a pubblicare con uno pseudonimo. Sono queste ultime a raccogliere informazioni locali, a realizzare interviste e inchieste su temi scomodi per il regime: dagli abusi nei confronti delle minoranze, ai matrimoni forzati, la violenza domestica, la resistenza femminile. Un lavoro ad alto rischio: rischiano di essere arrestate, sottoposte a punizioni fisiche, addirittura uccise. Per questo, l’anonimato è fondamentale. Gli articoli sono confezionati insieme alle colleghe espatriate che le supportano con ricerche e monitorando i loro spostamenti per cercare di ridurre i pericoli. «Ci informano ogni volta che escono di casa per lavoro, ci indicano esattamente dove si recheranno e chi incontreranno. Le giornaliste locali, inoltre, non si conoscono fra loro in modo da evitare che, in caso di fermo, possano rivelarne i nomi ai taleban. Siamo noi a fare da collegamento», sottolinea la fondatrice di “Zan Times” che, per iniziare il progetto ha dato fondo ai propri risparmi e ha coinvolto i lettori in una raccolta online. I testi sono scritti in inglese e farsi, simile al dari, tra le lingue più diffuse in Afghanistan insieme al pashtu.
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