Poete afghane: la disobbedienza è una lotta
Somaia Ramish, Il Manifesto, 26 luglio 2025
Al Ju Buk Festival, nel borgo di Scanno, la poesia delle donne in Afghanistan, voci di resistenza, di lotta, di bellezza
La poesia delle donne in Afghanistan ha una lunga storia e si contraddistingue in momenti politici e sociali molto diversi: non solo espressione artistica di bellezza ma forma di lotta e disobbedienza che sfida una società dalla radicata tradizione patriarcale.
Rabi’a Balkhi (856) considerata la madre della poesia persiana, è una delle pochissime intellettuali a essere conosciuta con il suo vero nome, ancora oggi simbolo di libertà. La sua storia rappresenta la sfida contro l’oppressione e un continuo, duro, promemoria del prezzo che le donne afghane sono costrette a pagare per la loro libertà di parola e di scelta. Non potendo più scrivere liberamente verga i suoi versi col suo stesso sangue. Qui scrive: L’amore è un oceano con uno spazio così sconfinato/ Che nessun saggio vi nuota senza esserne ingoiato/ Un vero amante dovrebbe essere fedele fino alla fine/ E affrontare le correnti più respingenti.
Quando vedi le cose ripugnanti, immaginale pulite/ mangia il veleno, ma assaggia il dolce zucchero!
Nonostante le diseguaglianze sociali e l’oscurantismo culturale, costrette spesso a scrivere sotto falso nome – makhfie (Makhfi Badakhshi) è uno pseudonimo che significa «colei che è nascosta» – le donne afghane non si arrendono e continuano a utilizzare le proprie penne come strumento per opporsi alla discriminazione. La poesia è per loro consapevolezza, è femminismo, diffonde l’opinione delle donne su società, religione, cultura, politica. Divulgano i loro pensieri, nonostante le grandi sofferenze inflitte a chi non segue le oppressive regole patriarcali, mostrano di essere padrone del proprio destino.
Bahar Saeed (1956) simbolo della donna che scrive poesie erotiche, è una delle poete che ha rotto maggiormente i tabù, contro ogni norma sociale tradizionale, cantando la libertà del corpo da ogni costrizione. Versi che si oppongono all’esclusione delle donne afghane da ogni forma della vita sociale e politica. Una ribelle la cui poesia rifiuta la sottomissione e l’obbedienza.
Nadia Anjuman (1980-2005) che ha scritto Le mie ali sono chiuse e non posso volare, è stata assassinata nel 2005. Ad Herat, nel 1995, quando il regime talebano vieta per la prima volta l’istruzione femminile, frequenta un circolo letterario mascherato da scuola di cucito: la Goodle Niddle Sewing School, sotto la guida del professor Muhammad Ali Rayhab. Finito il regime si iscrive all’Università, e si laurea in Lettere nel 2002, pubblica una pregevole raccolta di poesia (Gul-e-dodi, Fiore di fumo), si sposa con un suo collega di università, laureato anche lui in Letteratura. Il marito la uccide poco dopo la nascita del loro primo figlio, perché ha osato declamare le sue poesie in pubblico. Aveva solo 25 anni. In Light Blue Memories, scritto settimane dopo la caduta dei Talebani nel 2001, si rivolge alle vittime del silenzio forzato e si chiede cosa succede quando si perde la propria voce. In nome di quale patriarcato siano ridotte a tacere.
A voi, ragazze isolate del secolo/ condottiere silenziose, sconosciute alla gente/ voi, sulle cui labbra è morto il sorriso/voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due/ cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti/ se tra i ricordi vedete il sorriso/ditelo:/
Non avete più voglia di aprire le labbra/ma magari tra le nostre lacrime e urla/ ogni tanto facevate apparire/ la parola meno limpida.
Sono imprigionata in questo angolo/ Piena di malinconia e di dispiacere/ Le mie ali sono chiuse e non posso volare.
Maral Taheri (1980) è tra le più importanti e originali poetesse contemporanee. Ha passato la sua vita in esilio in Iran, dove si è occupata dei diritti delle donne. Dopo la caduta di Kabul e l’inizio del movimento «Zan, Zendeghì, Azadì» (Donna, Vita, Libertà) ha lasciato l’Iran e ora è rifugiata in Francia. Per molto tempo si è rifiutata di pubblicare per non sottostare alla censura in Iran e in Afghanistan. Collega l’amore, la sessualità, la guerra e l’esilio forzato con riferimento ai testi teologici dell’Islam. Oppone il suo rifiuto delle regole che sottomettono la donna e il suo corpo con un linguaggio diretto, e critico contro regole tradizionali e prestabilite.
Scrive: Non preoccuparti amore mio/ mio amore muto/ so bene come tradirmi/ è un’eredità culturale che viene dal mio paese/ sotterranea e originale/ come Dio!
Traditore ben vestito/ Compagno dei ladri e amico del gruppo/carovana/ E naturalmente non ci siamo inginocchiate/ Non è necessario essere sempre spontanea e leale/ Felice e semplice e timorata di Dio/ Abituarsi al dolore che ci ha raggiunto dal cielo/ Che altro può succedere?
Ciao, caro terzo mondo/ Amami/ Mentre spezzo semi di girasole per te nel cinema/ E bacia le mie labbra/ Fino a che mamma dà il permesso di farlo, pensa alle cicche di sigarette in camera mia/ Allahu Akbar/ Dio è 34 volte un grande idolo/ Con i seguaci attaccati alla statua russa…
In una società dove nascere femmina è di per sé un tabù, essere donna rappresenta una sfida…la disobbedienza è una lotta. Le poete, represse dalle famiglie e dalla società, torturate per aver scritto versi, continuano a lanciare la loro sfida contro le diseguaglianze, alle nuove generazioni, in una lotta millenaria che ispira e a dà speranza di cambiamento a tutte le donne del mondo.
Traduzione di Giorgia Pietropaoli
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