Afghanistan, la crisi dimenticata: l’umanità perduta nei silenzi di Kabul
Lo sciopero delle donne- Post su Facebook, 24 agosto 2025
Afghanistan, donne e bambine vivono schiave dei Talebani. La crisi dimenticata: l’umanità perduta nei silenzi di Kabul tra fame, violenza e cure impossibili. Le promesse di libertà e di miglioramento dell’Occidente non si sono mai realizzate.
Articolo da La Stampa di Francesca Mannocchi
Dalle otto di mattina, ogni mattina, la zona riservata alle donne della struttura sanitaria di Intersos in Uruzgan, si riempie ora dopo ora, burqa dopo burqa. Le donne arrivano camminando sul letto del fiume dove l’acqua ha lasciato posto ai sassi e ai greggi in pascolo, tengono i figli in braccio o per mano, li accudiscono e si fanno accudire perché senza un marham, un guardiano, non possono uscire di casa.
Il loro guardiano può avere anche UN ANNO, PURCHÉ SIA MASCHIO, purché sia di famiglia.
Così, in questa realtà ribaltata in cui chi accudisce dipende da chi è accudito, i bambini diventano uomini troppo presto e le bambine troppo presto vengono violate.
Nella sala d’aspetto si riconoscono subito, si riconoscono dai burqa un po’ più chiari, o po’ meno lisi, dalla silhouette minuta, e poi, quando parlano, dalla voce che è l’unica traccia di infanzia che resta nella loro vita a respingere un destino segnato.
Sadi ha tredici anni, è arrivata alla clinica con sua madre Badam dopo aver camminato per due ore sotto il sole d’agosto. Sadi non sa né leggere né scrivere, una scuola non l’ha vista mai. Ha fatto una vita povera di pastorizia e raccolto finché è stata coi suoi genitori e fa lo stesso dopo che l’hanno data in sposa. Mostra il suo viso per pochi secondi. Gli occhi di un verde acceso sull’espressione di chi, suo malgrado, ha già conosciuto troppo. Dal burqa escono solo le mani, irrequiete, mani che non hanno mai stretto un giocattolo perché Sadi dice che un giocattolo non l’ha mai avuto. Le sarebbe tanto piaciuto studiare, ma qui funziona così, la vita non si sceglie.
La vita si subisce e si sopporta.
Tarin Kot è il centro urbano principale dell’area, è una zona aspra, ruvida, vicino non c’è nulla, la prima città è Kandahar, e dista più di cento chilometri. A nord le montagne, ripide, brulle, e al di là delle montagne una distesa di grotte e sentieri. Tarin Kot e tutta la provincia hanno sempre avuto un’importanza simbolica per i Talebani, è una zona dominata da alcuni dei gruppi etnici Pashtun più intransigenti del Paese, è qui che si è trasferito con la sua famiglia il fondatore del gruppo, il Mullah Omar durante l’occupazione sovietica negli anni’80. Uruzgan è stata la prima provincia a cadere nelle mani dei talebani nel 1994, è da qui che sono partite le spinte insurrezionali contro gli americani e gli alleati.
Un tempo qui c’era Campo Holland, c’erano le truppe olandesi, c’erano gli australiani, dovevano stanare e combattere i Talebani, poi addestrare i soldati e poliziotti locali e intraprendere progetti di miglioramento urbano.
L’operazione si chiamava ancora “Enduring Freedom”. Ma è durata poco, sia la storia dei progetti di miglioramento della vita dei civili, sia la (presunta) libertà duratura.
Camp Holland, dice la gente, era molto curato, circondato da alti muri di protezione, vari posti di blocco, barriere anti esplosione. I Talebani evitavano lo scontro diretto preferendo le imboscate. O gli attacchi suicidi, o le mine.
La gente moriva, i soldati pure. Così nel 2014 le forze Nato sono state drasticamente ridotte, le truppe afgane si sono indebolite sempre di più sotto l’assalto dei miliziani, molte hanno abbandonato le posizioni per mancanza di munizioni e molte altre per mancanza di motivazione, il resto è la storia di una guerra persa e finita male nell’agosto del 2021.
E guardando i posti, guardandoli da vicino, si capisce perché la guerra ha fallito, perché l’insurrezione non solo non è stata sconfitta ma alla fine ha avuto la meglio. I soldati di base qui chiamavano la provincia “l’ultima frontiera”. I militari statunitensi e alleati provavano a conquistare un pezzo di quest’area e i miliziani si nascondevano sulle montagne e nelle valli.
I lavori di “miglioramento” delle infrastrutture, della ricostruzione, dello sviluppo non sono davvero mai iniziati, le organizzazioni umanitarie non potevano lavorare perché non c’erano le condizioni di sicurezza necessarie per farlo.
Muhubullah, che è un pastore, ha 34 anni, quando ne aveva 20 è saltato su una mina e ha le caviglie ricucite male dopo decine di operazioni, vive in una casa di fango e fieno, dice che certo oggi non può lavorare e non sa come sfamare la moglie e i tre figli, ma almeno c’è sicurezza. Nessuno spara, nessuno muore più di guerra.
Però in Afghanistan oggi si muore di fame.
Anche Bib vive in una casa di fango e fieno in Uruzgan, senza acqua corrente e con la poca elettricità che forniscono gli altrettanto pochi pannelli solari. È una donna senza tempo, come tante qui non sa la sua età. Presume di essere stata data in sposa quando ne aveva dodici, ma potevano essere uno in più o uno in meno. Non importa. Quello che importa è che il marito è anziano, oggi più di quanto non lo fosse già quando la sua famiglia gliel’ha ceduta in sposa, solo che ora hanno sei figli, quattro femmine e due maschi e lei non sa come sfamarli.
Intersos, grazie ai fondi dei programmi dell’Unione Europea che ancora resistono, le ha fornito una macchina da cucire, con cui prova a fare reddito, realizzando dei vestiti che tiene appesi in una delle stanze dove dormono i figli.
Sono tutti intorno a lei, i maschi e le femmine. I primi sorridono, le seconde no. Una, la più grande, di undici anni, è seduta all’angolo della stanza, il più vicino alla porta, e guarda all’esterno, come se volesse scappare. Verso dove è difficile immaginarlo, visto che nessuno di questi bambini ha visto altro se non il letto del fiume poco distante per andare a prendere l’acqua, e i più fortunati la scuola.
Per lei, per Amira, la scuola finisce l’anno prossimo. Così vogliono le nuove leggi talebane per tutto l’Afghanistan. Anche se qui, in fondo, le cose non sono cambiate, né sui burqa indossati dalle donne in strada, né sull’istruzione delle bambine.
Quando il ministero dell’Istruzione del governo sostenuto dall’Occidente magnificava progressi a livello nazionale, nelle aree rurali e nelle province contese tra governo e talebani, le ragazze non studiavano nemmeno prima.
Secondo un rapporto Unicef dell’inverno 2020, pochi mesi prima della caduta di Kabul, il 90% delle ragazze in Uruzgan non andava a scuola. Sua madre dice che Amira è la più intelligente dei figli, la più dotata.
Ma Amira, come le sorelle di nove e otto anni, è già stata promessa in sposa. Sono circa 500 dollari a figlia, dice Bib, e servono, perché altrimenti è difficile sfamare gli altri. A maggior ragione ora, dopo i tagli decisi da Trump a febbraio e la drastica riduzione degli aiuti del resto del mondo che, attento a crisi che sembrano più urgenti, ha dimenticato l’Afghanistan e la sua gente.
Da quando i Talebani hanno ripreso il controllo, quattro anni fa, il Paese è sull’orlo del collasso economico.
Sulle prime gli aiuti umanitari hanno colmato l’emergenza. Poi, all’inizio dell’anno, il presidente americano Donald Trump ha bloccato gli aiuti e le conseguenze qui sono state immediate e paralizzanti.
Da febbraio, oltre l’80% dei programmi Usaid è stato cancellato e mentre il Paese è alle prese con nuove epidemie di morbillo, malaria e poliomielite, la riduzione degli aiuti ha fatto sì che si interrompessero anche le campagne di vaccinazione.
L’impatto si sente ovunque, certo, ma qui fa più rumore. Un suono che però l’Occidente sembra non sentire, tappandosi le orecchie perché pesa ancora troppo il fallimento della ventennale guerra che ha riconsegnato il Paese ai nemici di un tempo, e perché con quei nemici che però ora amministrano il Paese, l’Occidente ha scelto di non parlare.
Il dilemma, per i governi, è semplice e crudele: aiutare la popolazione in Afghanistan significa, volenti o nolenti, passare attraverso i talebani. Non si può portare cibo, cure, acqua o istruzione senza il loro permesso. Quindi o si collabora con loro per salvare vite, rischiando di legittimare un regime o si rifiuta di collaborare per non sporcarsi le mani (peraltro già abbondantemente sporcate dalla guerra) condannando milioni di persone alla fame.
In mezzo, ci sono le Ong e le agenzie umanitarie, costrette a muoversi in equilibrio tra principio e necessità.
È in posti come l’Uruzgan che si capiscono le contraddizioni di una guerra come questa. Dove contraddizione è una parola che non calza con la realtà. Servirebbe paradosso, se non fosse un paradosso tragico.
Oggi le zone che fino a quattro anni fa non potevano essere raggiunte da nessuna organizzazione umanitaria, teatro di insurrezioni e contro insurrezioni, sono accessibili. Alla gente e alle organizzazioni umanitarie. È così che ha aperto questa clinica, così che le donne possono finalmente curarsi, e i bambini curare la malnutrizione, e provare a sopravvivere alla fame.
Jan Gula ha 17 anni, un figlio di tre, una di un anno e mezzo ed è di nuovo incinta. È quasi l’una, è seduta in una stanza della clinica di Intersos perché l’esterno è asfissiante e non si tiene in piedi. Ha camminato quasi tre ore per arrivare, fare una visita prenatale e far controllare il peso della figlia più piccola, malnutrita come quasi tutti gli altri bambini in attesa di essere visitati e dovrà camminare altre tre ore per tornare a casa. L’alternativa è raggiungere l’ospedale di Tarin Kot, che è troppo lontano, e qui quasi nessuno ha un mezzo di trasporto, oppure non curarsi. Anche lei alza il burqa solo per dare il tempo di far capire che non mente, che sotto quel pesante telo blu che copre il suo corpo e la sua libertà fino a poco tempo fa c’era una bambina, che come le altre a tredici anni è stata data in sposa. Poi ricopre il volto e il corpo, si tocca la pancia e dice «sono infelice».
Due parole appuntite, chiodi nel silenzio della stanza, monito nel silenzio del mondo che l’ha abbandonata.
Nella foto
Uruzgan, a sinistra Bin (con il burqa a destra) e i suoi figli nella propria casa nel villaggio di Sarkum.
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