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Autore: Anna Santarello

STAFFETTA FEMMINISTA ITALIA-AFGHANISTAN

Un gruppo di attiviste per i diritti umani, volontarie e operatrici impegnate nella lotta alla violenza di genere e nel supporto alle donne migranti si sono unite in una  STAFFETTA FEMMINISTA per affiancare l’azione del CISDA in Afghanistan

CISDA, 8 marzo 2021

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7.000 chilometri e tante trappole mortali nel passaggio delle frontiere, separano l’Italia dall’Afghanistan: affiancando l’azione che CISDA svolge da anni, STAFFETTA FEMMINISTA li percorrerà per combattere gli stereotipi e la sottocultura sessista e patriarcale nella sua dimensione transnazionale.

Attiviste per i diritti umani, volontarie e operatrici impegnate nella lotta alla violenza di genere e nel supporto alle donne migranti, si uniranno in gruppi aperti al contributo di chiunque si riconosca negli obiettivi comuni.

Passandoci il testimone, di tappa in tappa, costruiremo un ponte di corpi, saperi e pratiche, per unirci alle attiviste afghane delle organizzazioni laiche e progressiste che lottano in gravissime difficoltà contro la guerra, il fondamentalismo e la violenza. Insieme, per abbattere tutte le frontiere costituite da quanto priva le donne del diritto alla vita e alla libertà, e testimoniare che un altro mondo è possibile.

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4 CHILOMETRI – Intervista a Noshin

di Cristiana Cella – (CISDA)

noshimDistretto di Dashti Qala, provincia di Takhar. È lì che sono nata. Ora ho 14 o 15 anni, credo, più o meno, non so esattamente la mia data di nascita. Tutto è successo due anni fa, ne avevo circa 13.

Il villaggio è grande, polveroso, a volte il vento porta via tutto.

In fondo ci sono le montagne, sono sempre lì, quando te ne vai e quando torni, ti aspettano. Accanto, vicino a casa, la strada va in salita, verso colline rotonde, secche. Giallo, ocra, sabbia. In mezzo, strappi di verde brillante tra le pietre, dove arriva l’acqua che rotola giù dalle montagne.

Il villaggio è grande, sì, chissà quanta gente c’è, non lo so, il mio mondo finisce prima. A casa ci si può anche sentire sicuri. Il problema è uscire. Varcare la porta. Muoversi là fuori, spostarsi è sempre un prima di qualcosa, un nodo in gola. Chissà chi puoi incontrare, chissà che succederà oggi.

Il villaggio è grande, un mondo, c’è tutto. La guerra, i fucili, l’erba verde, il dolore, il pane, il canto, il raccolto, la paura. Tutto.

La guerra c’è, i talebani si scontrano spesso con l’esercito.

Appena sentiamo gli spari, i botti, gli aerei, il battito degli elicotteri, prendiamo i fagotti che abbiamo preparato con un po’ di cibo e di tè e scappiamo, arranchiamo verso le colline, inseguiti dalle grida dei talebani e dallo scoppio delle granate. Io prendo in braccio il mio fratello più piccolo. Saliamo e aspettiamo. Guardiamo il fumo, da dove viene , dove va. Ascoltiamo. A volte arriva la voce degli spari, sembrano vicini, ma è una bugia del vento, non è vero, si stanno allontanando. Il silenzio finalmente ti fa respirare. Ma chissà se la casa sarà ancora lì. Scendiamo veloci, con i sassi che rotolano sotto i piedi e la polvere nel naso. C’è fumo, silenzio. Qualche voce dei vicini, meno male. Qualche grido isolato, di rabbia. Come uno sparo di voce. Sappiamo distinguerli ormai. Quando ci sono i morti le grida sono lunghe, una accanto all’altra, incalzanti, senza respiro. Qualche casa è stata colpita ma non la nostra. Ecco, il sollievo vero. Il respiro arriva fino in fondo. Per questa volta è andata bene. La mamma sgrida con la voce forte i piccoli. Non devono toccare niente per la strada, niente. Le battaglie lasciano sempre un po’ di piccola morte in giro, distratta. Io spero che non gli venga in mente di combattere di notte, mi farebbe più paura. Voglio dormire, accanto alle mie sorelle, nel loro calore. Siamo cinque ragazze e due maschi. Io sono la seconda.

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Omicidi mirati in Afghanistan contro la generazione che vuole la pace

internazionale.it – Pierre Haski – France Inter – Francia 5 marzo 2021

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La mattina del 4 marzo una giovane dottoressa afgana stava andando al lavoro nella città di Jalalabad, 80 chilometri a est di Kabul, quando è stata uccisa da un ordigno esplosivo piazzato sotto la sua auto. Due giorni prima, nello stesso settore, tre giovani giornaliste di età compresa tra 20 e 25 anni e dipendenti di un’emittente locale avevano perso la vita in due incidenti separati. Tre mesi prima, Malala Maiwand, 26 anni, presentatrice della stessa emittente, Enikass-Tv, era stata assassinata mentre si trovava al volante della sua auto. 

Questi omicidi e molti altri sono chiaramente mirati, e provocano l’ennesimo aumento della tensione in Afghanistan. Gli obiettivi non sono casuali: giornaliste, attiviste per i diritti umani, leader della società civile, giovani istruiti e altri rappresentanti di questa nuova generazione che alimenta una speranza per l’Afghanistan e che gli assassini vogliono distruggere. 

Gli attentati di Jalalabad sono stati rivendicati dal ramo afgano del gruppo Stato islamico, che in questo modo ha voluto rilanciare rispetto alle altre forze islamiste (al Qaeda e i taliban) responsabili di altri atti di violenza. 

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Afghanistan: il dramma degli attacchi mirati contro donne e giornalisti

sicurezzainternazionale.luiss.it – Maria Grazia Rutigliano 4 marzo 2021

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Il 3 marzo si sono tenuti i funerali delle 3 donne che lavoravano un’emittente radiotelevisiva afghana, uccise da un gruppo di uomini armati non identificati a Jalalabad. Intanto, l’Unione Europea chiede la fine degli omicidi mirati nel Paese e critica i talebani. 

Mursal Waheedi, Saadia Sadat e Shahnaz Raufi sono state uccise in due attacchi separati ma quasi simultanei effettuate da gruppi di uomini armati nel PD1 e nel PD4 della città di Jalalabad, capitale della provincia orientale di Nangarhar. Il primo assalto è avvenuto intorno alle 16, ora locale, del 2 marzo, e ha causato la morte di Waheedi e Raufi, che stavano tornando a casa. Il secondo si è verificato pochi minuti dopo, quando un uomo armato ha attaccato Sadat, in un’altra zona della città. Le donne avevano da due a quattro anni di esperienza lavorativa presso la Enikaas TV e avevano un’età compresa tra i 20 ei 26 anni. 

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Il KJAR fa appello alle donne ad “unire le lotte e porre fine al femminicidio”

uikionlus.com – 2 marzo 2021

kjar 1 800x445 copyLa Comunità delle donne libere del Kurdistan orientale (KJAR) invita le donne a scendere in piazza per la Giornata internazionale della lotta delle donne l’8 marzo con lo slogan “Porre fine al femminicidio attraverso l’unità delle donne!”.

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6 marzo, un ponte di corpi in piazza e sui confini

Articolo21.org – 2 marzo

Un ponte simbolico unirà le piazze e i confini italiani, e non solo, con la Bosnia per chiedere una reale accoglienza e l’apertura delle frontiere. Già molte le adesioni

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Il 6 marzo, lungo i confini e nelle piazze di diverse città, un gruppo di donne (e uomini) costruirà con i propri corpi un ponte simbolico per denunciare le continue violenze e i respingimenti di cui sono vittime le persone che tentano di raggiungere un luogo in cui poter vivere con dignità.

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L’UE “gravemente preoccupata” per le continue pressioni contro HDP

UIKI Onlus – 24 febbraio 2021 

hdp 20rallyPeter Stano, portavoce capo per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, ha rilasciato una dichiarazione sulle azioni in corso contro i membri del Partito Democratico dei Popoli (HDP) in Turchia.

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Contrordine: non ci si ritira più dall’Afghanistan.

Il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan non avverrà secondo quando si apprende dopo le prese di posizione dell’amministrazione Baiden, anche se in un’audizione alle  commissioni Difesa di Camera e Senato il Capo di Stato maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli aveva annunciato il rientro dei militari italiani nella seconda metà del 2021.

Contropiano – 23 febbraio 2021, di Alessandro Avvisato Afghanistan militari

Alla fine Biden non farà quello che voleva fare Trump ma che vuole anche la maggioranza dell’opinione pubblica statunitense. Per non parlare poi della popolazione afghana.

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Delegazione internazionale di pace a Imrali 2021: “Non vogliamo più che ci vengano consegnati cadaveri sulla porta di casa”.

UIKI Onlus – 22 febbraio 2021

imraliNoi partecipanti alla Delegazione Internazionale di Pace a Imrali 2021 abbiamo concluso la nostra missione di due giorni in Turchia, tenutasi quest’anno in forma virtuale a causa della pandemia di Covid.

La nostra “visita” si è svolta nel solco delle precedenti delegazioni a Imrali, che negli ultimi anni si sono recate in Turchia per sostenere la riapertura del processo di pace, interrotto bruscamente nel 2015, tra le autorità turche e la leadership curda. I nostri incontri hanno messo in luce molto chiaramente che la precondizione assoluta affinché il processo di pace possa ripartire è la fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan nella prigione di Imrali.

Prima di iniziare i nostri incontri abbiamo inviato una richiesta al Ministro della Giustizia turco, Abdulhamit Gül, per chiedere che fosse consentito ai partecipanti alla nostra delegazione di incontrare virtualmente Abdullah Öcalan. Abbiamo anche richiesto un incontro online con il ministro, senza ricevere alcuna risposta.

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Afghanistan, tutto fermo da un anno

I cosiddetti “colloqui di pace” sono fermi  il cessate il fuoco non c’è mai stato solo due giorni fa ci sono stati attentati a Kabul e a Lashkar–gah. Come denunciato dal recente rapporto UNAMA  sono aumentati i civili uccisi e feriti in Afghanistan dopo l’inizio dei negoziati di pace a settembre.

Dal Blog di Enrico Campofreda, 23 febbraio 2021 bambini afghani pistole

Uno dei portavoce talebani a Doha ha lanciato l’ennesimo invito, che è quasi un monito, per la ripresa dei colloqui fermi da oltre un mese. C’è un cambio di staff fra gli statunitensi – Joe Biden introduce nuovi collaboratori al gran cerimoniere degli incontri, Khalilzad, confermato dal nuovo capo della Casa Bianca – ma il surplace sembrerebbe foriero di ripensamenti. Le delegazioni che firmarono l’accordo un anno fa ricalcano le posizioni: gli americani nel chiedere la rigida applicazione d’un cessate il fuoco, che non c’è mai stato. L’ultimo sangue sparso risale a due giorni fa con un doppio attentato a Kabul e Lashkar, obiettivi governatori e amministratori, vittime reali alcuni passanti. I turbanti vogliono il ritiro totale delle truppe Nato, fra cui circa 3.000 marines, e anche su questo versante tutto è bloccato. Dopo dodici mesi di promesse suggellate con tanto di firme ufficiali, ognuno ribadisce che terrà fede a quanto pattuito solo quando l’altro farà altrettanto. Ma chi inizia? Un circolo vizioso che non fa progredire d’un centimetro la situazione. In tal senso la diplomazia perde colpi, anche per la presenza di altri attori. I fuori tavolo del governo di Kabul, nella persona di primo piano: il presidente Ghani, detestato dai taliban, finora snobbato dal realismo politico di Washington che gli ha preferito il vice Adbullah e rappresentanti vari d’una sedicente società civile (in vari casi figli di potentati locali presenti nella Loya Jirga e fuori). E i jihadisti dell’Isil, sia nella veste dei dissidenti del Khorasan, sia come altri aggregati. 

I think tank di parte statunitense sanno che uno stallo prolungato non giova ad alcuna soluzione. Egualmente il gruppo di trattativa che Akhundzada ha messo in mano a Baradar se sta sfiorando il traguardo di tornare a governare Kabul, pur in condominio con altri fondamentalisti e non, può perdere un’occasione d’oro. Perciò la mega diplomazia internazionale ha smosso i suoi rappresentanti: il generale McKenzie da parte statunitense e Zamir Kabulov inviato di Putin, per sondare le posizioni pakistane e far intercedere Islamabad per bloccare la sequela di attentati. Il Pakistan dovrebbe agire su un doppio binario: quello dell’ortodossia talebana che gestisce le trattative e attraverso la sua Intelligence sulla sigla jihadista. Una sola esse divide l’Isi di Islamabad dall’Isis del Khorasan, ma dietro l’acronimìa certe strategie del caos collimano, ben oltre il credo fondamentalista. C’è poi la gran massa per cui non cambia nulla: milioni di dannati afghani, gli sfortunati che muoiono per via stroncati dalle esplosioni mentre arrangiano un lavoro anche per un paio di dollari al giorno, quando va bene. E chi muore di fame nei ghetti ai margini delle città. Le Ong tuttora impegnate in quelle latitudini dichiarano che i fondi internazionali sono diminuiti, povertà e disoccupazione crescono esponenzialmente, la sopravvivenza abbrutisce gli individui che vendono figli e parte dei propri organi per poter mettere qualcosa sotto i denti.