La repressione in Turchia contro il Partito democratico dei popoli (HDP) è in corso. Dopo la rimozione dei sindaci di Siirt, Igdir, Baykan, Kurtalan e Altinova,il co-presidente di HDP Mithat Sancar ha affermato: “Da un pò di tempo a questa parte il portavoce del governo sta facendo perdere tempo alla gente con voci di colpo di stato. Diffondendo queste voci stanno cercando ancora una volta di recitare il ruolo delle vittime.
“Come trattiamo la natura, come vengono trattate le persone, come si tratta la nostra interiorità, qui è dove inizia il dibattito sulla salute” – Intervista a un’operatrice sanitaria internazionalista in Siria del Nord-Est (10 maggio 2020)
Condividiamo l’intervista pubblicata originariamente in spagnolo sul blog Buen Camino del quotidiano spagnolo El salto. L’intervista è in lingua inglese ed è stata pubblicata il 16 maggio 2020 sul blog Women defend Rojava. Sempre il 16 maggio, sul blog dell’ANF, è apparsa anche la versione tedesca.
Jiyan Bengî è un’internazionalista tedesca che dopo il massacro di Sinjar e l’attacco a Kobane nel 2015 ha deciso di trasferirsi nel Nord della Siria per unirsi alla democrazia confederalista rivoluzionaria promossa dal movimento di liberazione curdo. Sta attualmente svolgendo lavori di assistenza sanitaria sulla linea del fronte. Abbiamo parlato con lei dell’impatto del Coronavirus in Rojava, del concetto di salute nella rivoluzione, della forza trasformatrice del movimento delle donne e delle difficoltà di costruire un’alternativa alla crisi del capitalismo in Europa.
Si sono accordati ieri rappresentando se stessi, la propria foia di potere, le miserie con cui nominano maresciallo (onorificenza offerta solo in due occasioni nella storia del Paese) uno sciacallo del panorama afghano, che già avevano fatto vicepresidente. Il lugubre trio è tristemente noto: Ghani, Abdullah, Dostum.
I primi due che, dopo le elezioni farsa dello scorso settembre s’erano proclamati entrambi presidenti, non bisticciano più. Come nel 2014 Ghani sarà capo di Stato, Abdullah rappresenterà il governo nei colloqui inter-afghani finora bloccati dalla rigidità di Ghani. Il quale non accettava di applicare l’accordo sottoscritto a Doha fra la delegazione dei turbanti e la rappresentanza statunitense, ripagato col disprezzo e disconoscimento di qualsiasi leadership dai talebani stessi. Ora si ritroveranno tutti nel governo di transizione con l’aggiunta del generale uzbeko. Un assassino matricolato, al pari di altri signori della guerra degli anni Novanta, ma più di altri rimasti in vita inserito ai vertici dell’amministrazione “democratica” che seguiva quella di Karzai.
Sei anni fa Dostum, che dispone di diverse centinaia di miliziani, aveva spostato la forza delle sue armi su Ghani, che lo aveva reso vicepresidente. Ora è Abdullah a insistere per il prestigioso titolo militare, Ghani acconsente e i comandi Nato presenti a Kabul annuiscono, sebbene negli ultimi tempi qualche grana Dostum l’avesse creata allo stesso governo fantoccio. Da boss della guerra è difficile ostacolarne affari e vizi, in alcune circostanze in cui reparti dell’Afghan National Army erano intervenuti a limitarne certe malefatte s’era sfiorato il duello amico.
Cinque anni sono trascorsi dalla gioia dell’exploit politico-amministrativo del Partito democratico dei popoli alla caduta nell’inferno carcerario di tanti suoi membri. Il sorriso della prima settimana di giugno 2015, che nelle elezioni politiche dava all’Hdp ottanta deputati nel Meclis, veniva insanguinato dall’assedio armato di alcuni centri del sud-est anatolico, su cui spiccò il settembre nero di Cizre.
Da lì, assieme all’esercito di Ankara che sparava sulle case e su chi le abitava, iniziò la decurtazione del sogno amministrativo kurdo. La co-sindaco Leyla İmret venne esautorata dall’incarico dal premier dell’epoca Davutoğlu e sostituita da un funzionario scelto dal ministro dell’Interno Altinok.
Due sodali di Erdoğan col tempo scomparsi, almeno dal governo, mentre la linea di cancellazione della rappresentanza kurda ha proseguito il suo corso, specie dopo il mancato golpe del luglio 2016. Mentre l’attacco al voto popolare continua ad andare di pari passo con la persecuzione giudiziaria di amministratori e deputati kurdi.
Una nuova campagna denominata Acqua per il Rojava è stata lanciata oggi allo scopo di incrementare i fondi per aiutare a finanziare le cooperative femminili e le municipalità democratiche locali nel Rojava e in altre zone della Siria nord-orientale.
Nella regione della Siria nord-orientale conosciuta anche con il nome curdo di Rojava,dal 2012 è stato istituito un sistema democratico di autonomia amministrativa – un sistema basato sulla democrazia di base, l’ecologia e la libertà delle donne, in cui tutte le diverse comunità etniche e religiose possono vivere insieme alle proprie condizioni, attraverso autonomia, autodeterminazione ed uguaglianza.
NdR: Human Rights Watch dichiara che l’attacco all’ospedale di Kabul è un crimine di guerra. Ma questo purtroppo non è il solo caso che si è verificato in un Paese martoriato dalla guerra. Nel report UNAMA sulla protezione dei civili nei conflitti armati, emerge che in Afghanistan nel 2019 si sono verificati 75 attacchi di cui 53 da parte dei talebani, 2 da parte ISIS e 17 da parte di forze pro-governative. Questi sono i signori che si siedono al tavolo “della pace”.
(New York) – L’attacco di aggressori non identificati contro un ospedale a Kabul, in Afghanistan, il 12 maggio 2020, mostra palese disprezzo per la vita dei civili ed è un evidente crimine di guerra, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Un attentato suicida e i conseguenti scontri con armi da fuoco hanno ucciso almeno 13 civili, tra cui 2 neonati e 15 feriti. Più di 80 pazienti, compresi i bambini, sono stati evacuati dall’ospedale.
Non c’è tempo per vivere nell’Afghanistan devastato da kamikaze e autobomba. Non c’è futuro nella tua vita di poche ore o pochi giorni. Così muori in fasce fra le braccia di tua madre, oppure muori tu e lei si salva. Se accade il contrario è davvero cosa peggiore. Perché da maschio, pur sopravvivendo ad altri attentati, se ti va bene finirai in un orfanotrofio, dove con difficoltà però sarai nutrito. Altrimenti t’aspettano gli stenti della strada, col tuo corpicino offerto alla miseria che impera, le membra che possono essere offese, stuprate, usate da chicchessia.
E da bambino c’è chi ti guarda e, oltre a sfruttarti col lavoro minorile, sonda il disorientamento per gettare il tuo cuore nella mischia del fondamentalismo armato. Oppure cuce sul tuo corpo una divisa a difesa del leader corrotto che un certo mondo geopolitico designa e t’indica di votare come Presidente.
Se sei una bambina e futura donna, la vita sarà ancora più dura, dentro e fuori le mura domestiche. Le storie le conosciamo e, fra coloro che non hanno voce, solo le ribelli – che rischiano, ma quale alternativa resta? – danno una luce e vendono cara la pelle. Ieri a Kabul la strage di neonati e delle loro mamme, ventiquattro vittime e decine di feriti, inizialmente non rivendicata, è opera dello Stato Islamico del Khorasan.
Gli “accordi di pace” non hanno sicuramente fermato le violenze in Afghanistan, anzi le forze talebane ora sono pienamente legittimate come interlocutori anche se il loro progetto rimane quello della costruzione di uno stato islamico. Le milizie talebane in realtà sono una realtà variegata al soldo di diverse potenze nazionali senza considerare le forze ISIS che si fanno largo a forza di stragi di civili.
1. UNA FIRMA CHE NON FERMA LA GUERRA
L’accordo di pace firmato da Khalilzad – che lo vedeva fin dall’inizio piegato alle imposizioni talebane – e Abudl Ghani Baradar che acconsente a dialoghi intra-afghani solo a ritiro USA avvenuto, concluso a Doha lo scorso 29 febbraio, si sta rivelando fallimentare. La non inclusione del Governo afghano nel processo di pace sta generando violenza e insicurezza, presentando i talebani come entità politica legittima e delegittimando i rappresentanti governativi. A poche settimane dalla firma dell’accordo i talebani hanno ripetutamente violato lo stop alla violenza, conducendo più di 4.500 attacchi terroristici e uccidendo più di 900 persone tra le Autorità afghane. Il gruppo terroristico risponde alle accuse affermando che non ha mai rinunciato all’instaurazione di un emirato islamico in Afghanistan, soprattutto ora che il gruppo ritiene di non avere nessun obbligo verso il Governo afghano circa la fine delle proprie operazioni.
In Afghanistan si continua a morire, secondo un rapporto ONU nel 2019 le vittime civili sono state più di 10.000. Non c’è limite all’orrore pur di spartirsi aree di influenza e di potere. Queste sono le milizie ufficialmente combattute ma che spesso in Afghanistan, Iraq e Siria trovano appoggi e finanziamenti da parte delle potenze internazionali.
Un gruppo di uomini armati, con tutta probabilità dell’Isis-Khorasan, ha assalito il reparto maternità di Kabul. Le forze di sicurezza stanno evacuando madri e neonati. Nella provincia di Nangarhar un suicida si fa esplodere fra la gente raccolta per un lutto, almeno 20 persone uccise
Un gruppo di uomini armati ha attaccato questa mattina l’ospedale di maternità gestito in partnership da Medici senza Frontiere, nella zona di Dasht-e-Barchi, a Kabul. Secondo la stampa locale l’offensiva è cominciata con due esplosioni, seguite da colpi d’arma da fuoco. In queste ore le forze di sicurezza stanno ancora lavorando a ripulire l’edificio da attentatori. Obiettivo degli integralisti potrebbe essere stato il viceministro della Sanità, che era in visita ai medici. Ad aprire la strada all’attacco, centrato sul reparto maternità, sarebbe stato almeno un terrorista suicida.
Foto diffuse sui social network mostrano gli agenti delle forze di sicurezza che fanno evacuare pazienti e portano in braccio bambini appena nati. Un bilancio del Ministero degli Interni parla di almeno 13 morti, tra cui 2 neonati e quattro feriti.
Nei cantoni della Federazione democratica della Siria del Nord l’epidemia non avanza ma la situazione del Rojava, dopo l’offensiva dell’aggressione turca che ha distrutto anche buona parte delle apparecchiature sanitarie, resta molto fragile. Per una popolazione di circa quattro milioni di abitanti, c’è un ventilatore polmonare ogni centomila persone. La difesa della salute, in una delle pochissime zone del mondo dove viene davvero considerata un bene comunitario e non individuale, si basa in primo luogo sull’autonomia, la prevenzione sociale e l’educazione. Una scelta molto diversa da quella dove vengono imposte misure statali repressive e centralizzatrici. L’auto-organizzazione, quando decide restrizioni delle libertà di movimento, lo fa dopo averlo discusso a fondo e deciso con il consenso di tutti. Anche con la pandemia, così come contro l’aggressione militare ancora in corso, l’organizzazione politica delle Comuni del Rojava e l’attività delle cooperative che producono il cibo e quel che serve alla protezione sanitaria di tutti, si fonda sulla stessa quotidianità della resistenza che serve a difendersi dalle aggressioni armate. Non esiste separazione reale tra la gente e chi deve occuparsi più direttamente di difendere la comunità dai pericoli che la minacciano