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Autore: Anna Santarello

PERCHÉ IL NOBEL PER LA PACE A RIACE E MIMMO LUCANO

PremioNobelRiace11/1/2019. Un uomo ed una Comunità dell’ex Magna Grecia, col senso omerico dell’ospitalità, aprono un cammino di speranza dando vita ad un’esperienza paradigmatica di accoglienza ed inclusione, foriera di un percorso di pace, mentre in Occidente si alzano muri e chiudono porti, riemergono nazionalismi e xenofobia per bloccare i flussi migratori dei poveri del Sud del mondo.

In questo contesto, un sindaco sognatore ed una piccola comunità’ in estinzione, posta al confine sud dell’Europa, diventano il classico granello di sabbia che inceppa la macchina dell’esclusione ,del rifiuto, della paura.
Prima “non gli italiani!” ma i più vulnerabili, qualunque sia il colore della loro pelle, il Paese di provenienza, il tipo di sofferenza o il sogno che li ha indotti alla fuga disperata.

Tutto comincia nel 1998 quando sulla spiaggia di Riace approda un veliero con a bordo 220 curdi, incrociato da Domenico Lucano e dai suoi amici che istintivamente, aprono porte e case. Imitando l’esperienza di Badolato, un paese rinato grazie al lavoro dei migranti e al sostegno della Ong Cric e di Longo Mai, si recuperano case abbandonate anche con un prestito concesso da Banca Etica e, dal 2005, con il costante, impegnato supporto della rete dei comuni solidali, si attivano botteghe artigiane, si dà il via ad un fiorente turismo sociale e solidale, si organizzano attività di ogni tipo.
Riaprono le scuole e un asilo multietnico, si crea un ambulatorio medico, si rimettono in moto attività produttive. Un Paese rivive, accogliendo, includendo, rinnovandosi, sbarrando la strada alle attività criminali, in nome dell’Umanità.

Diventa un simbolo di accoglienza e inclusione in tutto il mondo e mostra con i fatti che l’incontro, il rispetto, la conoscenza dell’altro sono le armi migliori per creare sicurezza, benessere e gioia di vivere per tutti. Non solo, dimostra che i migranti dal Sud del mondo possono contribuire a far rinascere le aree interne abbandonate in tutte le zone collinari e montuose, in Italia come nel resto d’Europa.

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Forum di Laudato si’: un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale

LaudatoSiSabato 19 gennaio 2019, dalle ore 9.30 alle ore 17.30, nella Sala delle conferenze di Palazzo Reale a Milano, si terrà il Forum dell’associazione Laudato si’: Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale.

Programma

Nel 2015 papa Francesco pubblicò l’enciclica Laudato si’, prendendo le mosse dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi: un testo rivolto a credenti e non credenti, segnato dall’abbandono della visione antropocentrica che caratterizza la nostra cultura e dal richiamo alla necessità di un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale. Un discorso rivoluzionario, che esce dagli specialismi – anche quelli umanitari – per dirci che distruzione del pianeta, guerre, corsa al riarmo, migrazione forzata, sfruttamento del lavoro e della natura a tutte le latitudini, cultura dello scarto, spregio del vivente, primato della finanza e violazione dei diritti civili e sociali sono fenomeni strettamente interconnessi.

Scopo del forum è aprire un tavolo di lavoro sulle tematiche dell’enciclica, articolate come un orizzonte di impegni da assumere per colmare un vuoto di rappresentanza, e da sottoporre già ai prossimi candidati e candidate alle elezioni europee.

Nessun manifesto ecologico e politico è infatti così completo, capace di comprendere la dimensione della giustizia sociale, del rispetto dei diritti, della cura della casa comune e del vivente, nella consapevolezza dell’urgenza di una pratica di resistenza culturale, educativa e comunicativa.
Al forum prenderanno parte intellettuali, sindacalisti, attivisti impegnati nella difesa del clima, dell’ambiente, della pace, del lavoro, dei diritti umani, dell’accoglienza di profughi e migranti che hanno sottoscritto la lettera-appello costitutiva dell’associazione Laudato si’: da Donatella di Cesare e Francesco Remotti ad Aldo Bonomi e Luca Zevi, da Massimo Scalia e Karl Ludwig Schibel a Lisa Clark e Antonio De Lellis, dalla segretaria nazionale della FIOM Francesca Re David a Luigi Manconi, Raniero la Valle, Alessandra Ballerini e Riccardo Gatti.

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Futuro afghano: si discute in Qatar

Blog – E. Campofreda, 8/1/2019

TalibanI taliban rivendicano: ritiro totale delle truppe statunitensi, scambio di prigionieri, rimozione del divieto di movimento dei propri leader, probabilmente oltre l’area delle Fata sul confine pakistano. Non sembrano volere l’azzeramento delle basi aeree, l’unico, e non certo secondario, punto a favore dell’occupazione Nato, perché sanno che Washington non lo concederà mai.

Il tavolo si tiene a Doha ed è frequentatissimo. Il mese scorso ha visto la presenza di sauditi, pakistani ed emiratini, non degli iraniani il cui interesse per le vicende afghane è sempre elevato, ma non partecipano per il veto americano.

Ora i colloqui sulla persistente occupazione militare che determina l’insorgenza telebana, vivranno due giornate di confronto; però solo fra taliban e statunitensi con Zhalmay Khalilzad nella veste di gran maestro di cerimonie.

Dunque, fra i turbanti prevale la linea dura che punta a chiudere le porte in faccia al governo di Kabul, considerato un manipolo di pupazzi che gli studenti coranici attaccano, denigrano, umiliano. Non gli riconoscono alcun ruolo se non quello d’essere servitori delle truppe Nato, senza le quali sarebbero da tempo stati spazzati via dall’insorgenza. Una verità evidenziata dai continui attentati fin dentro i palazzi del potere o dalle occupazioni di città e campagne che solo i fitti bombardamenti attuati dall’aviazione statunitense riescono a liberare. Tutte azioni che producono migliaia di vittime civili.

La mancata presenza, diretta o per interposta persona, al tavolo delle trattative preoccupa non poco il presidente uscente Ghani, soprattutto in vista delle presidenziali del prossimo mese d’aprile.

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Afghanistan: talebani annullano negoziati di pace con funzionari USA

Sicurezza Internazionale 8/1/2019

Former Taliban fighters return armsI talebani hanno annullato le trattative di pace previste nei giorni a venire in Qatar con i funzionari americani per via di un “disaccordo sul programma”, specialmente riguardo la partecipazione di rappresentanti del governo afghano e la possibilità di una tregua e uno scambio di prigionieri.

I negoziati sarebbero dovuti iniziare mercoledì 9 gennaio per protrarsi fino al giorno successivo, tuttavia, secondo quanto ha reso noto il gruppo talebano, tale vertice è stato annullato quando è stata imposta ai militanti anche la presenza del governo di Kabul al tavolo negoziale.

Al quarto round di trattative, volte a porre fine al conflitto in Afghanistan, che è in corso da 17 anni, avrebbero dovuto inizialmente partecipare solamente i leader dei talebani e l’inviato speciale degli Stati Uniti, Zalmay Khalilzad, per discutere varie questioni: il ritiro delle forze straniere, un possibile cessate-il-fuoco nel 2019, l’eventualità di uno scambio di prigionieri, e infine la rimozione del divieto di movimento imposto ai membri di punta del gruppo talebano.

I leader del gruppo islamico avevano già respinto l’offerta di trattative dirette da parte del governo di Kabul, nonostante a livello internazionale fosse salita la pressione perché il governo afgano sostenuto dai Paesi occidentali prendesse comunque parte ai negoziati, ed è stata proprio questa circostanza uno dei motivi principali che ha indotto i talebani a disdire la riunione. Il movimento ha declinato ripetute richieste da parte di potenze regionali che facevano loro appello affinché includessero il governo afghano nei negoziati; dal canto dei talebani, il principale avversario con cui la lotta è in corso da 17 anni sono gli Stati Uniti, e il governo di Kabul sarebbe solo un “governo fantoccio” tenuto in piedi grazie all’intervento USA.

“I funzionari americani hanno insistito per far incontrare i talebani con le autorità afgane in Qatar, ed entrambe le fazioni erano in disaccordo sulla dichiarazione di un cessate-il-fuoco nel 2019”, ha spiegato all’agenzia di stampa Reuters una fonte interna al gruppo, concludendo che ambo le parti hanno infine deciso di non incontrarsi in Qatar.

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LE DONNE SEMINANO ZAFFERANO E FUTURO

di Andrea Nicastro – Corriere della Sera del 2 Gennaio 2019 – sezione Buone notizie

women working on fields 1.800x0 300x169In Afghanistan avanza un progetto italiano che dà lavoro onesto e riduce il potere dei gruppi armati: al posto dell’oppio i pistilli che finanziano l’assistenza

L’idea per dare una mano in Afghanistan sembrava perfetta. Un modo per dare un lavoro onesto a chi ne ha più bisogno e allo stesso tempo ridurre il potere dei gruppi armati che spadroneggiano con la forza o con la scusa dell’Islam. L’idea era: sostituire i papaveri da oppio con i bulbi dello zafferano. Le due piante crescono nelle stesse condizioni, con poca acqua e terreni poco fertili; la polverina rossa che si ricava dai pistilli, lo zafferano appunto, ha un valore al grammo superiore all’oro e paragonabile a quello dell’eroina che si ricava dall’oppio; come l’oppio anche lo zafferano richiede un’enorme quantità di lavoro manuale e l’Afghanistan ne ha in abbondanza.
Così la Costa Family Foundation, l’ong di Belluno “Insieme si può” e il Cisda (Coordinamento per il sostegno delle donne afghane, probabilmente l’onlus italiana con i migliori contatti nel Paese) hanno avviato nel 2017 un progetto pilota nella provincia di Herat per dare ad alcune donne in difficoltà la possibilità di guadagnarsi da vivere coltivando zafferano.

All’inizio tutto bene. Le donne vengono selezionate secondo i consueti criteri socio-economici: hanno estremo bisogno di denaro e hanno famiglie abbastanza aperte da permettere loro di lavorare fuori casa; si individua un campo e dei contadini (maschi) disponibili a passare il know how alle donne, cosa niente affatto scontata in Afghanistan. Ad agosto parte la semina, le piantine crescono, a dicembre c’è anche un piccolo raccolto, ma a inizio 2018 il disastro. Le donne non vogliono più andare nel campo. Troppo lontano, dicono, e soprattutto troppo pericoloso.

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Malalai Joya: la mia vita clandestina nel Paese che oggi odia le donne.

Left.it – Stefano Galieni, 31 Dicembre 2018

Malalai Joya la pasionaria de Kaboul«A chi dice che il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan porterebbe alla guerra civile, rispondo che qui la guerra c’è già. Arrivano le notizie dei bombardamenti in Siria e resto convinta che anche lì non porteranno pace». A parlare con questa nettezza è Malalai Joya, instancabile attivista afghana. La sua vita è un susseguirsi di guerre, fughe, atti di disobbedienza, senza mai arrendersi.

Neonata ai tempi dell’invasione sovietica, poi esule, quindi insegnante clandestina, dopo la presa del potere dei talebani. Nel 2003, a 25 anni entra nella Loya Girga, nel 2005 nel parlamento eletto dopo l’occupazione. Viene cacciata presto, perché continuava a denunciare i soprusi commessi dai Signori della guerra senza farsi corrompere.

Oggi la sua voce, nota in tutto il mondo, è totalmente bandita in Afghanistan. I media di regime per denigrarla dicono che è scappata, anche quando sono costretti a parlarne perché ottiene riconoscimenti. Invece continua a vivere e a lottare nel suo Paese. Insieme a donne splendide, come lei. «Quando 17 anni fa, la Nato realizzò l’invasione con la scusa della guerra al terrore, promisero pace e liberà. Da allora la situazione è peggiorata sotto ogni aspetto. Hanno tolto potere ai talebani consegnandolo ai Signori della guerra. Per questo dico che fondamentalismo e imperialismo sono alla base del nostro disastro. In Europa ne vedete i risultati con l’arrivo dei tanti rifugiati».

Che ora vengono rimpatriati perché si considera l’Afghanistan un “Paese sicuro”.
Chi scappa non ha prospettive o è in pericolo di vita. Poi scopre che l’Europa è diversa da come se l’era immaginata. Si ritrovano in centri di accoglienza in cui (mi è capitato in Germania) è impossibile entrare. Per arrivare si vendono tutto. Col rimpatrio hanno due sole possibilità: diventare tossicodipendenti o arruolarsi nelle milizie dei Signori della guerra o dell’Isis per 600 dollari al mese. Ma molti non vogliono contribuire ai loro crimini.

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Afghanistan, di fallimento in fallimento.

da Washington Examiner – 3 novembre 2018 – trad. di Ester Peruzzi

poverty afghanistan girl buildingAbbiamo fallito in Afghanistan e il nostro governo sta iniziando ad ammetterlo.

Le cifre indicate al Congresso nella 41° relazione trimestrale del SIGAR, l’Ispettorato generale speciale Usa per la ricostruzione in Afghanistan, offrono un’analisi chiara e desolante e ribadiscono ciò che la gente e i legislatori hanno sempre saputo: l’ambizioso progetto del presidente George W. Bush di creare uno stato-nazione in quel remoto territorio tribale era inefficace e poco realistico e ha fallito clamorosamente.

Nonostante le migliaia di vite americane, i miliardi di dollari spesi e più di 17 anni di operazioni militari americane, il governo di Kabul sta perdendo e non guadagnando il controllo del territorio: continuano gli scontri con i Talebani, la corruzione è diffusa e dilagante, le elezioni sono violente, la democrazia è incapace di prendere piede e la guerra alla
droga è un vero fallimento.

Il governo di Kabul, che sosteniamo, controlla poco più del 55% del paese, la percentuale più bassa registrata da quando l’Ispettorato generale ha iniziato a monitorarla a livello distrettuale nel 2015. Persino nei distretti considerati sotto controllo l’influenza di Kabul è diminuita. L’ispettore generale quest’anno ha contato 56 attacchi contro la difesa nazionale afghana e le forze dell’ordine provenienti dal proprio interno.
Sebbene gli americani offrano consigli e addestramento alle forze afghane, il report indica che il Pentagono “non riesce a monitorare gli eventuali progressi”. Dunque, nonostante gli anni di spese ingenti, non riusciamo neanche a capire quanto stiamo fallendo nel rendere le truppe afghane all’altezza della situazione.

Anche le misure principali impiegate per la creazione dello stato, come ad esempio gli sforzi per mettere fine o ridurre la corruzione, sono un fallimento. Il Dipartimento di Giustizia (Doj) rileva che “il procuratore generale afghano ha ottenuto scarsi risultati nel perseguire figure corrotte importanti e influenti” e conclude affermando che “il lavoro del procuratore generale è carente, i risultati ottenuti scarsi e che non collabora con l’Ambasciata americana per le questioni riguardanti l’anticorruzione”.
Il Centro Anticorruzione, fondato nel 2016 dal presidente Ashraf Ghani, viene descritto dal DOJ come inconcludente e lacerato da “agitazioni, affronti diretti, frecciatine ai colleghi e nell’aria si respira un costante senso di presunzione e supponenza”.

Nonostante siano stati spesi più di 1,5 milioni di dollari al giorno per debellare il commercio di oppiacei, la coltivazione di oppio è quadruplicata rispetto al 2002.
Il numero di morti civili è aumentato. UNAMA, la Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, ha rivelato che tra il 01/01 e il 30/09 sono state registrate circa 8.500 morti civili, di cui 2.798 uccisioni. È il dato più alto mai registrato dal 2014. Molte di queste morti, 649 secondo UNAMA, sono state causate da attacchi aerei filogovernativi, segnando un aumento del 39% rispetto ai dati del 2017.

E il costo di questo misero fallimento? Il report indica che “gli Stati Uniti hanno stanziato circa 132,07 miliardi di dollari per la ricostruzione e le relative attività in Afghanistan.” Di cui 4,93 miliardi di dollari stanziati con il Defense Appropriations Act 2019 per la ricostruzione. Questa è la somma destinata unicamente alla ricostruzione, una piccola parte del totale speso per la guerra, che nel 2018 il Pentagono stimava fosse di 45 miliardi all’anno.
È ormai giunto il momento che Washington riconsideri la sua politica di finanziare l’Afghanistan nella vana speranza che qualche miliardo di dollari possa comprare la pace e, cosa ancora più improbabile, la democrazia. Dovremmo limitare il nostro ruolo lì per tenere d’occhio i nemici mortali come Al Qaeda e lo Stato Islamico, e usare la nostra forza schiacciante per sradicare le basi del terrorismo. Il sogno di costruire uno stato pacifico e stabile deve essere ormai abbandonato.

Straziante appello del Kurdistan National Congress al mondo: fermate la Turchia

By staff RR – 20 dicembre 2018

Asia Antar kurdistanRiceviamo e con vicinanza e amicizia al popolo curdo pubblichiamo lo straziante appello del Kurdistan National Congress (KNK) a tutto il mondo affinché il popolo curdo non rimanga in balia dell’estremismo islamico della Turchia.

A gennaio di quest’anno, lo stato turco ha avviato una campagna di aggressione militare contro la regione un tempo pacifica di Afrin in Rojava, e questa campagna, condotta in coordinamento con vari gruppi jihadisti, è culminata con l’occupazione di Afrin.

La guerra dello stato turco nella regione di Afrin ha provocato una tragedia umana di vaste proporzioni: centinaia di civili indifesi sono stati massacrati e altre migliaia feriti, e la regione è stata bruciata, saccheggiata e distrutta dallo stato turco e dai loro alleati jihadisti.

Centinaia di migliaia di persone sono stati sfollati con la forza dalle loro case, e la guerra e la successiva occupazione e le continue campagne di terrore da parte dello stato turco e dei suoi alleati jihadisti nella regione hanno significativamente modificato la demografia di Afrin.

Lo stato turco ora cerca di ottenere lo stesso risultato visto ad Afrin in altre regioni del Rojava e si sta attualmente preparando ad attaccare una regione di 500 km in Siria tra i fiumi Tigri ed Eufrate.

I primi obiettivi nella regione sono le aree di confine di Kobane, Manbij, Tal Abyad, Serêkaniyê (Ras al-Ain), Darbasiyah, Amude, Qamishlo, Tirbespî (al-Qahtaniyah), Dêrik (al-Malikiyah) e migliaia di città e villaggi. Accanto a città come Qamishlo, Hasakah e Raqqa con grandi popolazioni urbane, ci sono circa un centinaio di villaggi e migliaia di villaggi nell’area, che attualmente ospita circa 3 milioni di persone. Ogni assalto dello stato turco porterebbe a un’insopportabile tragedia umanitaria di grandi dimensioni.

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Appello urgente – Le nostre richieste

Uikionlus  – 19 dicembre 2018

foto UikiLe minacce dello Stato turco, le preparazioni per un attacco militare su vasta scala e l’occupazione militare del Rojava (Siria del nord) si stanno intensificando. Nel gennaio di quest’anno, lo Stato turco ha iniziato una campagna di aggressione militare contro la regione un tempo pacifica di Afrin nel Rojava e questa campagna, condotta in modo coordinato con vari gruppi jihadisti, alla fine è culminata nell’occupazione di Afrin.

La guerra dello Stato turco contro Afrin è risultata in una tragedia umana di ampie proporzioni – centinaia di civili indifesi sono stati massacrati e migliaia sono stati feriti, la regione è stata incendiata, saccheggiata e distrutta dallo Stato turco e dai suoi alleati jihadisti. Centinaia di migliaia sono stati espulsi con la forza dalle loro case, la guerra e la successiva occupazione e le campagne terroristiche dello Stato turco e dei suoi alleati jihadisti in corso nella regione hanno significativamente alterato la demografia di Afrin. La catastrofe che ha investito la popolazione di Afrin era l’obiettivo ultimo della campagna dello Stato turco.

Lo Stato turco ora cerca di ottenere in altre regioni del Rojava lo stesso risultato visto ad Afrin e in questo momento si sta preparando ad attaccare in Siria una regione lunga 500 chilometri tra i fiumi Tigri e Eufrate. I primi obiettivi nella regione sono le aree di confine di Kobane, Manbij, Tel Abyad, Serêkaniyê (Ras al-Ain), Darbasiyah, Amude, Qamishlo, Tirbespî (al-Qahtaniyah), Dêrik (al-Malikiyah) e migliaia di città e villaggi. Insieme a città come Qamishlo, Hasakah e Raqqa, con grandi popolazioni urbane, ci sono circa cento città e migliaia di villaggi nell’area che attualmente ospita circa 3 milioni di persone. Qualsiasi attacco da parte dello Stato turco porterebbe a un’insopportabile tragedia umana di grandi dimensioni.

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