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Autore: Anna Santarello

LA DEMOCRAZIA IN AFGHANISTAN? UN BEL REGALO AI TALEBANI.

Il Manifesto – di Giuliano Battiston

lp 87102211Farsa nelle urne. La Commissione per i reclami elettorali annulla i voti espressi a Kabul, causa brogli e irregolarità, quella elettorale “indipendente” insiste: elezioni valide. E la comunità internazionale plaude al «processo democratico»

Vi ricordate le elezioni afghane per il rinnovo del Parlamento? Posticipate di tre anni e mezzo, organizzate comunque in fretta e furia, si sono tenute il 20 ottobre.

Era un sabato, una bella giornata di sole in gran parte dell’Afghanistan. Quel sabato 4 milioni di persone – su 9 milioni di iscritti alle liste elettorali e su una popolazione di 30 milioni e passa – sono andate a votare scegliendo tra i 2.500 candidati che si contendevano i 250 seggi della Wolesi Jirga, la Camera bassa del Parlamento. Solo a Kabul erano in lizza ben 804 candidati per 33 seggi. È stata una giornata costellata da ritardi nelle aperture dei seggi, liste elettorali incomplete, personale impreparato, macchine di riconoscimento biometrico malfunzionanti, interferenze di politici e signorotti locali, soprattutto nelle aree rurali lontane dai radar dei media (che avevano tacitamente concordato di non dare notizia degli attentati fino alle 12, per non scoraggiare la partecipazione). Un vero e proprio caos, che ha spinto la Commissione elettorale indipendente (Iec, indipendente solo di nome) a una mossa a sorpresa: l’apertura dei seggi più problematici anche il giorno successivo.

Com’è andata domenica 21 ottobre? Come il giorno precedente. Eppure la comunità internazionale ha plaudito al «processo democratico» e al «coraggio del popolo afghano», tanto determinato da rischiare la pelle pur di votare. A Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, dove abbiamo seguito il voto, tutti ci siamo stupiti che non fosse accaduto niente di grave. Perlomeno in città. I Talebani avevano scelto di attaccare perlopiù fuori dai centri urbani, con questo argomento: «Le elezioni sono fasulle, tanto più sotto occupazione: le impediremo attaccando le forze di sicurezza che proteggono i seggi, non i cittadini»

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URGENTE RICHIESTA DI SOLIDARIETÀ

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Alle donne solidali con il popolo curdo 

A tutte le realtà della solidarietà italiana 

Leyla Güven, deputata del Partito Democratico dei Popoli eletta a giugno nel Parlamento turco e agli arresti dall’inizio di quest’anno, il 7 novembre durante l’udienza principale del processo intentato contro di lei, ha annunciato di entrare in sciopero della fame contro l’isolamento del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan, richiuso in isolamento da quasi 20 anni nell’isola carcere di Imrali.

“Questo isolamento non è contro una sola persona, ma contro un intero popolo. L’isolamento è un crimine. Porterò avanti il mio sciopero della fame fino a quando la giustizia non modificherà le sue decisioni illegittime e metterà fine all’isolamento“, ha fatto sapere in una sua dichiarazione.

Lo sciopero della fame a oltranza di Leyla Güven è giunto al 32° giorno, e le sue condizioni stanno peggiorando sempre più, dando motivi di grave preoccupazione.

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TURCHIA. NIENTE APPELLO PER IL CURDO DEMIRTAS: IL “SULTANO” ERDOGAN NON VUOLE OPPOSITORI

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Notizie Geopolitiche – 6 dicembre 2018 – di Shorsh Surme 

Nonostante le aspre critiche da parte della Corte europea dei Diritti umani dello scorso 20 novembre al sistema giudiziario della Turchia, continua la lunga detenzione di Selahattin Demirtas, il leader dell’opposizione e l’ex co-presidente del partito Democratico dei Popoli (HDP). Esso è divenuto la terza forza politica del paese con l’11,7% dei voti e ben 67 parlamentari, cosa che il “sultano” Recep Tayyp Erdogan non è riuscito mai ad accettare continuando a privare i deputati curdi del loro diritto all’immunità parlamentare per via dell’accusa infamante di terrorismo.
E proprio ieri un tribunale di Istanbul ha confermato la condanna a Selahattin Demirtas. Il suo avvocato, Mahsuni Karaman, ha infatti annunciato che l’appello del suo assistito, presentato nel settembre scorso, è stato rifiutato.

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AFGHANISTAN, MOLESTIE E ABUSI: LO SCANDALO TRAVOLGE IL CALCIO FEMMINILE.

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Corriere della Sera – 4 dicembre 2018, di Andrea Nicastro

Accuse di violenze sessuali sui vertici della Federazione afghana e il vice allenatore . La denuncia delle atlete. Il presidente Ashraf Ghani: «choc nazionale»

Un orrendo scandalo sessuale sta travolgendo l’intero mondo dello sport femminile afghano. È cominciato tutto durante un ritiro della nazionale di calcio in Giordania dove le giocatrici erano andate per allenarsi tutte assieme, afghane che vivono in patria ed emigrate. Le «straniere» hanno notato qualcosa che non andava negli atteggiamenti degli accompagnatori (maschi) delle compagne. I due rappresentanti della Federazione afghana, il «responsabile del calcio femminile» e il «vice allenatore», allungavano le mani, minacciavano, comandavano e soprattutto si chiudevano nelle camere d’albergo con le ragazze.
Le giocatrici che vivono a Kabul hanno impiegato quasi sei mesi a confidarsi con le compagne. Non si trattava di un episodio, ma di un sistema. Ne è emerso un quadro spaventoso di abusi, ricatti, stupri che continuerebbe da anni.

Nella capitale afghana, l’ufficio del presidente federale, dotato di tutti i comfort, letto compreso, ha serrature a riconoscimento palmare. Una giocatrice che entra non può più uscirne senza l’aiuto del presidente. Trasferte, raduni, allenamenti, persino la firma di un contratto improvvisamente si poteva trasformare in violenza sessuale.

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JINWAR, IL VILLAGGIO DELLE DONNE NEL KURDISTAN SIRIANO APRE I BATTENTI

Tratto da Il Messaggero  – Alix Amer, 27 novembre 2018

4135979 2131 villaggio2Il progetto è partito da tempo, da almeno due anni. Ma ora finalmente tutto è pronto. Jinwar, il villaggio di sole donne, ha aperto le sue porte. E così nel mezzo della guerra le donne del Rojava, nel Cantone di Cizire, vicino alla città di Dirbèsiyè, nel nord della Siria, si costruiscono una nuova vita. Un vero e proprio esperimento di auto-organizzazione che potrà diventare un esempio anche per altri Paesi. Il suo nome Jinwar, che in curdo vuole dire “luogo delle donne”, racconta già la sua essenza.

Il portale siriano “Snack Suri” era presente all’inaugurazione avvenuta per scelta il 25 novembre, in concomitanza con la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Un segnale forte e rivoluzionario per certi versi. Secondo quanto riporta il sito web “Enf News”: «Alla cerimonia di apertura erano presenti le donne dell’Eufrate, così come i combattenti delle unità di protezione delle donne curde».

«È il primo nel suo genere in Siria – racconta una delle promotrici del progetto, Rhumic Haval – non sarà monopolio solo delle donne curde, ma aprirà le porte a ogni donna che vorrà venire a viverci». «Vorrei sottolineare che la donna è stata da sempre amica della terra, parte attiva nel lavoro e nel raccolto, è lei che da sempre si prende cura dei figli e della comunità – aggiunge – Insomma sono in grado di determinare il loro destino a 360 gradi». E ha poi spiegato: «Sono arrivate qui da diverse città della provincia di Hasaka, come ad esempio Al-Shaddadah, Tell Tamer, Kobanî, e Al-Darbasiyah. La maggior parte di loro sono vedove, madri divorziate o che comunque hanno attraversato tante difficoltà. Prima fra tutte: la guerra. Ma da oggi hanno una speranza».

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AUMENTA LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE NEL KURDISTAN DEL NORD

Tratto da Rete Kurdistan Italia – 25 novembre 2018

donne 630x325La sezione di Amed dell’Associazione per i Diritti Umani IHD ha pubblicato un rapporto sulla violenza contro le donne nel Kurdistan del nord. Nella metropoli di Amed (Diyarbakir) venerdì è stato pubblicato un rapporto dell’Associazione per i Diritti Umani IHD sulla violenza contro le donne nel Kurdistan del nord. La valutazione dell’associazione locale ad Amed evidenzia: tra il 25 novembre 2017 e il 23 novembre 2018 sono state uccise 53 donne dalla violenza maschile domestica e dalla violenza maschile negli spazi pubblici.

Il rapporto è stato presentato in una conferenza stampa nella sede dell’IHD. L’avvocata Derya Yıldırım, che è anche la responsabile dell’ufficio IHD ad Amed e componente della commissione delle donne, nell’introduzione ha dichiarato che le donne si trovano davanti a molteplici forme di violenza. Oltre alla violenza sessualizzata, culturale, psicologica e fisica nei confronti delle donne, si sta verificando anche una forma di mobbing. La politica dello Stato turco non starebbe impedendo questa forma di violenza, al contrario; la promuove e la rende possibile, ha constatato Yıldırım.

La politica statale promuove la violenza
In conclusione l’attivista per i diritti umani ha fatto notare la chiusura di molte organizzazioni delle donne da parte del governo e ha proseguito: “Le molte donne che sono morte in territori di conflitto sono espressione dell’aumento della violenza nella società. Poi sono stati nominati fiduciari e le dirigenti donne sono state messe in carcere. Un’altra forma di violenza sono i licenziamenti per decreto di emergenza. Notiamo che la violenza e le perquisizioni notturne nelle carceri e i maltrattamenti, così come la violenza in tutti gli ambiti, sono in costante aumento. La concezione patriarcale dello Stato diventa del tutto chiara nel suo comportamento nei confronti delle donne”.

L’attivista per i diritti umani Yüksel Aslan Acer ha fatto notare l’aumento di femminicidi e violenze. Tra gli anni 2012 e 2016 c’è già stato un aumento di casi sospetti di morti di donne. Così nel periodo citato ci sono stati almeno 33 casi di morti sospette. Anche per quanto riguarda la morte e il ferimento di donne attraverso la violenza in famiglia, anche in questo caso il numero sarebbe cresciuto. Questo numero starebbe crescendo in modo particolarmente rapido dal 2014, ha detto Acer.

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LA POLITICA CARCERARIA DELLO STATO TURCO: 437 PRIGIONI, 260.000 DETENUTI

Tratto da Uikionlus, 30 novembre 2018

carceri 599x275Oltre alle attuali 384 prigioni in Kurdistan e Turchia, sono in costruzione 53 nuove prigioni. Il numero di arrestati e detenuti ha raggiunto le 260.000 unità, compresi almeno 1500 detenuti malati. Le politiche carcerarie dello stato turco causano violazioni più gravi dei diritti ogni giorno che passa, pur continuando a costituire un problema sociale e politico. Soprattutto in termini di prigionieri politici, le prigioni in Kurdistan e in Turchia non sono altro che centri di tortura. Fino ad oggi tutti i governi hanno cercato di approfondire la questione, di non risolvere nulla. I metodi sono diventati “più ricchi” durante i governi dell’AKP.

Perquisizioni, intense azioni disciplinari , esili, torture, maltrattamenti, isolamento, trattamento indegno dei visitatori e pratiche simili, sono le più importanti tra le politiche di intimidazione contro le prigioni dell’AKP.

53 nuove carceri
Molti stati cercano modi per migliorare la qualità della vita della propria gente, mentre lo stato turco promette alle persone nuove prigioni. Sono stati completati progetti per 18 carceri per un totale di 2.269.924 metri quadrati. Secondo la pianificazione 2018 del Ministero della giustizia , verranno costruite 53 nuove prigioni con una superficie totale di 4.115.558 metri quadrati.
Ciò aggiungerà altre 53 prigioni al numero di carceri da 291 prigioni chiuse, 70 prigioni libere indipendenti, 3 strutture penali giovanili, 8 prigioni chiuse per donne, 5 prigioni aperte per donne e 7 prigioni chiuse per minori, per un totale di 384.

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ROJAVA: IL VILLAGGIO DELLE DONNE JINWAR APRIRÀ IL 25 NOVEMBRE

ANF – 22/11/2018

20181122 jj195f3f imageDopo 2 anni di lavoro, il villaggio di Jinwar aprirà il 25 novembre. Le organizzazioni femministe nella regione di Cizire della Siria settentrionale hanno terminato il villaggio per donne Jinwar, la cui costruzione è iniziata nel dicembre 2016. I residenti si trasferiranno il 25 novembre. Il villaggio ospiterà 30 famiglie, la Mother Uveysh School, l’Accademia Jinwar, un museo e un centro medico.

La scuola del villaggio è stata intitolata alla madre Uveysh del capo del popolo curdo Abdullah Öcalan. Il villaggio è stato costruito per soddisfare i bisogni vitali dei residenti. Il centro medico fornirà anche rimedi naturali.

PERCHÉ JINWAR?
Jinwar è un villaggio che è nato dalla dea Ishtar come riferito dal capo del popolo curdo Abdullah Öcalan e dalla realtà delle donne autosufficienti.
Prima dell’avvio della costruzione, le persone che hanno avviato lo sforzo si sono incontrate con vari ingegneri e organizzazioni femminili e hanno chiesto il loro parere su come il villaggio avrebbe potuto essere costruito. Sulla base delle discussioni, hanno deciso di costruire tutte e 30 le case con l’argilla. La costruzione del villaggio, destinata ad avere una vita comunitaria, è iniziata il 25 novembre 2016. Dopo le analisi di fattibilità e i preparativi, la costruzione delle case è iniziata nel 2017.

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“VOI VANDEA, NOI MAREA”: IN 200 MILA A ROMA AL CORTEO DI NON UNA DI MENO

Dinamopress – 24 novembre 2018

copLa potenza ha tante forme. Quattro ragazzine che camminano abbracciate con il pañuelo fuxia tirato sopra il naso. Gli striscioni che puntellano il corteo con i nomi delle città più disparate. I cartelli e i cori che esprimono le richieste più urgenti: basta violenza maschile sulle donne, libertà di scelta, no al Ddl Pillon e al decreto Salvini.

il corteo è stato segnato da diverse azioni performative. Si è aperto con le ancelle che hanno letto il proclama contro il Ddl Pillon e gettato la loro cuffia al grido di «ci volete ancelle, ci avrete ribelli!». È proseguito con i palloncini pieni di riso per le tante donne uccise da femminicidio e violenza di cui non sempre sappiamo i nomi.
A Piazza Esquilino è stato simbolicamente chiuso con il nastro bianco e rosso l’accesso al Viminale, un grande pañuelo fuxia riportava la scritta «freedom of movement is our struggle». A piazza Santa Maria Maggiore le precarie Istat vestite da ancelle hanno protestato contro la candidatura “inconcepibile” del pro-life Blangiardo  alla direzione dell’Istituto. Diversi interventi hanno denunciato l’apertura della nuova sede di Provita, ulteriore conferma dell’alleanza tra antiabortisti e estrema destra. prima di entrare in piazza le donne Curde hanno letto un testo inviato dalle compagne delle Ypj e dato vita a una danza tradizionale sulle note di una delle canzoni più toccanti della lotta di liberazione della Siria del Nord.

Tantissime le città da nord a sud scese in piazza: Alessandria, Bari, Bergamo, Bologna, Brescia, Brindisi, Firenze, Genova, Latina, Livorno, Lucca, Mantova, Milano, Monterotondo, Napoli, Padova, Vicenza e Ferrara, Pavia, Perugia, Pescara, Pisa, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini, Salerno, Siena, Torino, Trento, Treviso, Trieste, Venezia, Verona, Viareggio.

In piazza sono scese 200 mila persone. Ma più dei numeri conta l’energia della manifestazione. «Ho 18 anni – racconta Marta, studentessa romana – vengo alle manifestazioni di Non Una Di Meno da quando ne avevo 16. Dobbiamo lottare contro questo governo che vuole portarci indietro al Medioevo». Dietro di lei sfila lo spezzone della Casa internazionale delle Donne, minacciata di sgombero dalla giunta Raggi. Le donne che reggono lo striscione hanno combattuto tante battaglie.

Accanto passa una mamma con tre figlie. «Chi dice che i femminicidi non esistono, che sono omicidi come gli altri – dice Roberta, studentessa universitaria di 21 anni – lo fa perché vuole nascondere una società maschilista in cui l’uomo sente sua moglie, sua sorella, la ragazza che passa per strada come sua proprietà».

Slogan e voci raccontano una condizione di violenza strutturale che attraversa la società: dalla vita quotidiana ai provvedimenti del governo. «Sono qui perché non è giusto che devo aver paura di tornare a casa di notte, come fanno i miei compagni maschi», dice Alessia, 18 anni. «I problemi delle donne – aggiunge Marta, che di anni ne ha 40 – vengono da molto lontano, dalla storia di questa società. Noi adesso abbiamo deciso di cambiare tutto e non sarà questo governo sessista e razzista a fermarci».

Un grido ha attraversato tutta la mobilitazione: stato di agitazione permanente. Contro questo governo e contro questa società patriarcale: le voci e gli slogan che rimbalzano nel corteo testimoniano della capacità del movimento femminista di tenere assieme rivendicazioni generali e mobilitazioni diffuse sui territori.

Mentre si svolge la manifestazione romana, Giulia racconta che a Verona erano previste per oggi due iniziative: «il convegno di Forza Nuova che riuniva molti leader dell’estrema destra internazionale e il comitato “No 194” a cui è iscritto anche il Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana che sfilava per le vie della città per chiedere l’abrogazione della legge». «Poco più di 100 persone – continua Giulia – diversamente dalle molte centinaia che hanno preso parte alla piazza organizzata da Nudm Verona e dagli altri movimenti della città».

L’attacco contro l’accesso delle donne all’aborto era passato recentemente dalla mozione presentata proprio a Verona e riproposta anche nei Consigli Comunali di Roma, Milano ed Alessandria, suscitando una forte mobilitazione da parte delle reti territoriali del movimento. Come sottolinea un intervento dal microfono, si sta consolidando «un’alleanza tra pro-life e fascisti che oggi sfilano insieme contro la libertà e l’autodeterminazione delle donne per abolire la 194».

Adele di Pisa ci parla della nomina ad Assessore alla Cultura Andrea Buscemi accusato di stalking e condannato per questo in sede civile: «è in corso una mobilitazione in città per far dimettere questo assessore».

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HERAT: PARLA UNA MADRE CHE NON HA “ALTRA SCELTA” SE NON QUELLA DI VENDERE LA FIGLIA DI 6 ANNI

CNN, 22/11/2018 di Nick Paton Walsh and Masoud Popalzai (dal sito di RAWA)

102706502 88732678 e557 4675 b75d e2aad5e96e8bHerat. Una siccità senza precedenti in Afghanistan ha portato le famiglie a vendere i loro figli solo per poter nutrire le loro famiglie.

La CNN ha parlato con diverse famiglie nella città occidentale di Herat, costrette a lasciare le proprie case a causa di un periodo di siccità che, secondo le Nazioni Unite, nel 2018 ha costretto più persone a lasciare le proprie case che non la violenza senza pari che affligge il paese.

L’ONU stima che oltre 275.000 persone siano state sfollate a causa della siccità, 84.000 nella stessa città di Herat e 182.000 nella regione di Badghis. 

Quattro anni senza piogge hanno devastato l’agricoltura della regione, e persino il raccolto di oppio è diminuito di un terzo quest’anno, nonostante i risultati record del 2017. Le condizioni meteorologiche estreme stanno causando preoccupazioni sul fatto che il cambiamento climatico globale sta avendo un forte impatto sul paese più fragile del mondo, dove decenni di guerra hanno polverizzato l’economia e la società.

Fuori da Herat, in un campo profughi, un cameraman della CNN incontra Mamareen, che ha perso il marito per la guerra, la sua casa per il clima e ora sua figlia per l’urgente bisogno di dar da mangiare agli altri suoi figli. Akila, 6 anni, è ora vittima dell’economia perversa di questa tendopoli, in possesso di un’altra famiglia. Mamareen ha venduto Akila per $ 3.000 a Najmuddin, che l’ha promessa a suo figlio di 10 anni, Sher Agha.

“Sono fuggito dal mio villaggio con i miei tre figli a causa della grave siccità”, dice. “Sono venuto qui pensando di ricevere assistenza, ma non ho ottenuto nulla. Per evitare la fame tra i miei figli, ho dato mia figlia chiedendo a un uomo circa $ 3.000, ma ho ottenuto solo $ 70. Non avevo soldi, niente cibo e nessun capofamiglia – anche mio marito è stato ucciso. “

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