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Autore: Anna Santarello

DOVE STA IL CONFLITTO

Blog G. Viale – 20/11/2018

MigrantiMarciaNelle fotografie della marcia di migliaia di honduregni verso gli Stati Uniti è difficile non riconoscere il Quarto stato di Pelizza da Volpedo attualizzato; e non vedere in quel loro presentarsi disarmati e affamati a una frontiera blindata non solo la disperazione, ma anche la convinzione che la Terra è di tutti; e la rivendicazione di ripartire tra tutti i beni che i signori della globalizzazione rubano al loro paese, costringendoli a lasciarlo.

Ma è difficile anche non riconoscere nell’esercito mobilitato per impedire loro l’ingresso negli Stati Uniti una riedizione dei cannoni con cui, sul finire dell’800, il generale Bava Beccaris disperdeva e sterminava la folla dei manifestanti che lottavano per il pane. Ma questa non è che la versione americana delle tante stragi provocate dalla guerra scatenata contro i migranti nel Mediterraneo per farli affogare o respingerli nei Lager libici, alla mercè degli ascari al soldo dei governi europei; o delle barriere e dei respingimenti messi in atto nell’area Schengen; o alla cacciata dai centri di accoglienza dei tanti profughi a cui viene e verrà negata ogni forma di protezione.

Insomma, è difficile non rendersi conto che tra coloro che cercano di entrare nelle cittadelle di un benessere (in gran parte alle nostre spalle) e i poteri che si adoperano per respingerli è aperta un conflitto sociale o, se vogliamo, una “lotta di classe” di portata planetaria, destinati a dominare il nostro secolo.

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DEMIRTAŞ, GALERA A VITA

Blog – E. Campofreda, 20/11/2018.

demirtas copySordo a ogni appello di libertà il presidente turco Erdoğan ha respinto l’appello della Corte europea dei diritti umani gli aveva rivolto in merito al caso Demirtaş. Il co-presidente del Partito democratico dei popoli (Hdp) venne arrestato due anni or sono a seguito dell’estensione a ogni opposizione politica della legge marziale adottata dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016. Il bersaglio primo era stata l’organizzazione gülenista diffusa in molte strutture dell’apparato statale: esercito, polizia, magistratura, istruzione, burocrazia alta e bassa.

Ma accanto alle decine di migliaia di persone arrestate ed epurate dai pubblici incarichi il governo dell’Akp e il presidente in persona hanno cercato una vendetta diffusa, rivolta anche a parlamentari dell’opposizione com’è Demirtaş. A lui si attribuiscono rapporti col Partito kurdo dei lavoratori, messo al bando in Turchia e considerato organizzazione terrorista anche da Stati Uniti e Unione Europea. Per questo motivo il leader dell’Hdp è minacciato d’una pena di 142 anni di detenzione.

I vertici dello Stato turco snobbano l’invito della Corte di Strasburgo, sostenendo di non sentirsi affatto condizionati da quegli orientamenti che considerano le accuse rivolte a Demirtaş un’ingiustificata interferenza con la libertà di espressione e di opinione.

Così le porte delle galere turche, che rinchiudono giornalisti, intellettuali, oltreché oppositori politici, serrano anche la libera circolazione e il ritorno all’attività politica del quarantacinquenne capo della formazione che fra il 2013 e il 2015 aveva compiuto un’avanzata diventando il terzo partito turco. Una posizione conservata al cospetto dell’elettorato da Demirtaş in persona che, pur carcerato, ha riportato l’8,5% dei consensi in occasione delle blindatissime consultazioni del giugno 2017 con cui Erdoğan ha avvìato il presidenzialismo più autoritario della storia nazionale.

GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. UN LIBRO

IMG 20181112 WA0000 1 212x300 copyVenerdì  23 novembre alle ore 18.00 Cristiana Cella presenta il suo libro SOTTO UN CIELO DI STOFFA – Avvocate un Kabul alla Libreria Canova di Treviso , Piazzetta dei Lombardi, 1 per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Organizza Amnesty international .

Il libro sarà presentato anche a Montebelluna giovedì 22 novembre alle 20.30 alla Libreria Zanetti.

Cristiana Cella, giornalista e scrittrice, ci racconta l’Afghanistan dopo 40 anni di guerra e 25 di governo fondamentalista islamico, il peggior paese dove nascere donna. Private di ogni diritto, sono costrette a subire una violenza quotidiana, nelle loro famiglie, nella società, nelle istituzioni. Una violenza che continua a peggiorare nella quasi totale impunità. Ma non sono solo vittime, sono donne forti, capaci di combattere, di vincere la paura e di lottare per un destino diverso.

IL DOLORE DELLE GUERRE AMERICANE HA UN NUMERO: 500.000 MORTI DAL 9.11

Emanuele Giordana, il manifesto, 11 novembre 2018

afgha-768x415.jpgLa “guerra al terrore” Usa. Costo Umano delle Guerre Post 9/11, curato da Neta C. Crawford, docente del Dipartimento di Scienze Politiche della Boston University e Co-Direttore del Progetto Costi della Guerra della Brown University, non tiene infatti conto delle stime dei decessi della guerra in Siria (oltre 500mila) o di altre guerre (Yemen) o conflitti minori. Il documento, che si basa su fonti aperte, guarda un fatto fatto da Usa nelle sue guerre, per così dire, ufficiali

Quanti morti è costata e sta costando la guerra al terrore scatenata dopo l’11 settembre? Se il dolore è un numero, nel novembre del 2018 questo numero ha superato quota 500mila. E solo in Afghanistan, Pakistan e Irak, i luoghi ormai iconici della guerra infinita. Lo dice un progetto della Brown University, università privata americana, che studia il costo umano delle guerre scatenate contro il terrore.

GUERRE INIZIARE E MAI FINITO  come se il crollo delle Torri gemelle fosse un mostro a più teste. Tra 480 e 507.000 persone – dadi l’aggiornamento del novembre di quest’anno – sono stati uccisi dalle guerre scatenate dopo quella data fatidica in tre soli Paesi: Irak, Pakistan e Afghanistan (147mila nel Paese dell’Hindukush come già riferivamo ieri). Costo umano delle guerre post 9/11, curato da Neta C. Crawford, docente del Department of Political Science della Boston University and Co-Director del Costs of War Project della Brown University, non tiene infatti conto delle stime dei decessi della guerra in Siria (oltre 500mila) o di altre guerre (Yemen) o conflitti minori. Il documento, che si basa su fonti aperte, guarda a quanto fatto dagli Usa nelle sue guerre, per così dire, ufficiali. Cifre che in realtà hanno a che vedere anche con i loro alleati, dunque con l’Italia, ancora partecipe a pieno titolo della guerra afgana con il terzo contingente più importante presente in Afghanistan.

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LA RESISTENZA DI KOBANE NON MORIRÀ MAI – MEMORIA DI UNA COMBATTENTE DELLE YPJ

Serkeftin (Brigata Maddalena), Rete Jin – novembre 2018

Kobane-1-768x506.jpgGli anni fa gli occhi del mondo erano puntati verso Kobane, dove le forze democratiche delle YPJ e delle YPG sono state affrontate in una liberazione della regione. 
La liberazione di Kobane non è stata semplicemente una vittoria militare, ma anche una dimostrazione di una violenza autodifesa popolare contro un nemico profondamente fascista in nome della libertà, dell’autodeterminazione dei popoli e della liberazione delle donne. 
Il 1 ° novembre è stato dichiarato un giorno per Kobane per rivendicare l’eredità di questa resistenza sull’auto-organizzazione delle donne e su di una vasta partecipazione.
Rivendicare la resistenza di Kobane significa oggi, lottare per la liberazione di Afrin, per la libertà di Abdullah Ocalan e di tutt * i detenuti politici e tenere conto della memoria dei martiri, che per questa lotta hanno dato la vita. Perché la Rivoluzione sia ora e sia ovunque. 
In occasione di questa giornata osiamo la parola a Rojin Evrim, comandante delle YPJ, in quanto compagna che ha vissuto in prima persona i giorni della resistenza di Kobane. 
“All ‘epoca facevo già parte delle Ypj e geograficamente non eravamo così lontane da Kobane. 

Quando ho deciso di partecipare alla fine della guerra non è ancora arrivata a Kobane, l’ISIS si trova nei villaggi limitrofi ed è da lì che iniziammo la nostra resistenza.
In tanti parteciparono a quella battaglia, tanti dal Bakur (Kurdistan del nord) tante donne e giovani da ogni parte, paesi compagni turchi, europei, arabi e tutti partecipati alla resistenza come volontari. Nella battaglia di Kobane la cosa è stata più importante prendere posizione, perché per la verità è importante la mentalità patriarcale di ISIS; conoscevamo i trattamenti senza scrupoli che ISIS riservava alle donne fatte prigioniere. Erano le donne che è attaccava e dovevano essere le donne a liberarsi.

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TALEBANI DI LOTTA E DI GOVERNO: NUOVI ORIZZONTI

Enrico Campofreda, dal suo Blog – 14 novembre 2018

talib-768x491.jpgAver mantenuto per due anni segreta la scomparsa del mullah Omar, deceduto per tubercolosi a Karachi nel 2013, aveva un senso per i taliban. Provava a quietare gli animi. Alle differenze fra la componente afghana e quella pakistana dei turbanti si sommavano ulteriori spaccature e diversificazioni che sarebbero venute a galla nella successione e nei tentativi di raccordo fra i vari gruppi.

Dopo l’annuncio della dipartita dell’uomo-simbolo, la Shura impiegò mesi prima d’indicare in Akhtar Mansour la nuova guida. E subito avvenne la frattura con Mohammad Rasoul staccatosi dalla maggioranza talebana, che comunque perdeva quasi immediatamente il nuovo capo, ucciso in un’imboscata dai droni statunitensi che dall’alto ne seguivano l’auto in viaggio fra Afghanistan e Pakistan. Si parlò di un’operazione gestita dalla Cia, con l’aiuto in quel caso dell’Isi pakistana, che evidentemente non gradiva la leadership prescelta dalla maggioranza degli studenti coranici armati.

Rasoul formò un organismo denominato Emirato Islamico dell’Alto Consiglio dell’Afghanistan, considerato da vari osservatori una pedina iraniana in terra afghana. Il fatto che in alcune circostanze il gruppo avrebbe simpatizzato con azioni estere dell’Isis prospetterebbe un diverso orientamento, sebbene Rasoul abbia più volte affermato che per il Daesh in territorio afghano non ci sia alcuno spazio. Ultimamente il portavoce di Rasoul, il mullah Abdul Niazi ha attaccato il dialogo aperto a Mosca fra l’Alto Consiglio di Pace Afghano e i talebani che dopo Mansour sono guidati da Akhundzada. Questi, pur considerato un mullah molto conservatore, è giunto a spedire propri rappresentanti sia in Qatar sia nella piazza di colloqui. Mansour nella sua breve vita da leader non si mostrava disposto a dialoghi, e forse anche per questo è stato liquidato.

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NON SOLO SINGOLI ATTACCHI, MA UNA STRATEGIA POLITICA

Özgür Pirr Tirpe intervistato da Bernd Machielski – Rete Kurdistan – 7 novembre 2018

Nitch 700x325 copySui recenti attacchi della Turchia contro l’amministrazione autonoma della Siria del nord in Rojava e il ruolo dell’imperialismo tedesco. Un colloquio con Özgür Pirr Tirpe.

Dal 28 ottobre 2018 si moltiplicano gli attacchi contro la gestione autonoma della Siria del nord in Rojava. Scontri a fuoco nel territorio di confine non sono una novità, ci sono da anni. Cosa è successo ora? Cosa sono gli attacchi e qual è la situazione attuale nelle zone interessate?

Gli ultimi attacchi sono iniziati un giorno dopo un incontro di vertice tra Turchia, Germania, Russia e Francia del 27 ottobre a Istanbul. Lì dovrebbe essere discussa la cosiddetta “soluzione” della crisi siriana. Il giorno successivo sono iniziati gli attacchi contro il Cantone di Kobane.

Gli attacchi si vivono a ovest dell’omonima città di Kobane, nei territori che confinano con l’Eufrate. Lì, con armi pesanti e artiglieria sono state attaccate postazioni delle Unità di Difesa del Popolo e dell’Unità di Difesa delle Donne YPG / YPJ. Un appartenente alle unità è caduto. Il giorno successivo è diventato chiaro che non si tratta solo di singoli attacchi, ma di una strategia politica.

Cosa intendi di preciso?

Gli attacchi sono stati allargati, p.es. alla città di Girê Spî. Anche qui è sparato con armi pesanti sui villaggi circostanti, anche qui un compagno delle Hezên Xwe Parastîn, l’Unità di Autodifesa, è stato ucciso e un giovane membro della politica civile è stato giustiziato da un cecchino con un colpo preciso alla testa.

Qui vediamo la strategia mirata dello Stato turco di terrorizzare la popolazione civile e di costringerla a trasferirsi. Intorno alla “Giornata Mondiale per Kobane” che il 1 novembre viene celebrata in tutto il mondo, gli attacchi si sono allargati lungo l’intera striscia di confine tra Kobane e Qamislo. Le nostre forze hanno risposto in modo deciso a questi attacchi. Almeno un veicolo dell’esercito turco è stato distrutto. Ma finora il confine non è stato oltrepassato né dalla Turchia né da noi.

Inoltre attualmente ci sono informazioni sul fatto che la Turchia sta raccogliendo nella zona di confine membri dell’Esercito Libero Siriano ESL islamista e di altre bande jihadiste, soprattutto da Idlib e da Afrin sotto occupazione, gli fornisce nuovo equipaggiamento e inoltre li addestra. Preparano queste milizie a una possibile operazione contro di noi.

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GLI STATI UNITI NON HANNO MAI LANCIATO TANTE BOMBE IN AFGHANISTAN COME NEL 2018

Niall McCarthy – Forbes – 13 novembre 2018

grafico17 anni dopo che le forze americane e l’Alleanza del Nord hanno conquistato Kabul, metà dell’Afghanistan è stata riconquistata dai talebani e la guerra si protrae tuttora. Anche l’ISIS è sempre più attivo e circa 14.000 soldati statunitensi sono ancora nel paese nel tentativo di contenere un’ondata crescente di estremismo.

Anche se il conflitto ha fatto meno titoli negli ultimi anni, mai tante bombe come quest’anno sono state lanciate dagli Stati Uniti sull’Afghanistan. Secondo i dati del Comando centrale delle forze aeree statunitensi, tra gennaio e fine settembre 2018 gli aerei con equipaggio e senza equipaggio hanno rilasciato 5.213 armi.

In precedenza, il 2010 aveva segnato il record di armi sganciate in Afghanistan, con 5.101 lanci totali. Quello fu un anno mortale, che vide 711 soldati ISAF e 1.271 civili uccisi. Verso la fine della presidenza di Obama, il numero di bombe è diminuito a 947 nel 2015 e 1.337 nel 2016.

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CONDANNIAMO LA DECISIONE DI PREVEDERE RICOMPENSE IN DENARO FINALIZZATE ALL’ELIMINAZIONE DEI COMBATTENTI PER LA LIBERTÀ CURDI

Uiki – 9 novembre 2018

nLuT3Vk0 400x400Appello urgente Ai difensori critici della democrazia e dei popoli, al Presidente degli Stati Uniti d’America, al Congresso e al Senato.

Condanniamo la decisione di prevedere ricompense in denaro finalizzate all’eliminazione dei combattenti per la libertà.

Il 6 novembre l’appena nominato vice-assistente Segretario di Stato per gli affari europei ed euroasiatici, il sig, Matthew Palmer, ha annunciato – durante un incontro con i funzionari del governo turco – che il programma del Dipartimento di Stato USA Ricompense per la Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) – Murat Karayilan, Cemil Bayik e Duran Kalkan – ha scritto: “ha autorizzato una prestazione per informazioni che conducono alla localizzazione”.

Condanniamo questa decisione palesemente ingiusta. È ovvio che si tratta di una politica che intende promuovere la lotta contro il popolo, spesso con le sofisticate armi e l’intelligence militare della NATO. Le radici dell’attuale stato d’animo del trattato di Losanna (1923) con la fondazione dello stato turco, il quale scatenò subito una guerra contro il popolo e altri popoli indigeni al fine di imporre il proprio nazionalismo esclusivo.

I mezzi usati dallo stato turco spaziano dal terrorismo sponsorizzato dallo stato fino alla negazione dei diritti politici, della libertà di associazione ed espressione e all’eliminazione culturale dell’identità curda. Durante tutti i decenni di oppressione, il Movimento di Liberazione Curdo ha usato solo le forme minime di resistenza per la propria autodifesa, i modi pacifici dell’organizzazione e dell’attività politica, il reclamo dell’identità culturale e la rinuncia a ogni atto di terrorismo.

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TALEBANI, PARLIAMO CON USA, NON KABUL

ANSA – MOSCA 9 novembre 2018

975cebd1dd76a95dc9cadc3c81ba403eI talebani dicono ‘no’ ai colloqui con il governo di Kabul e dichiarano che discuteranno con gli Usa di una soluzione pacifica al conflitto in Afghanistan. “Anzitutto – ha detto il capo della delegazione talebana alla conferenza di Mosca, Mohammad Abbas Stanikzai – non riconosciamo l’attuale governo come legittimo, perciò non condurremo negoziati con esso.

Kabul – ha proseguito – non ha neppure mandato un suo rappresentante a questo evento. Tenendo conto che la nostra richiesta principale è il ritiro delle truppe straniere – ha concluso – discuteremo la ricomposizione pacifica con gli americani”.