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Autore: Anna Santarello

IBRAHIM ABED, IL COMICO AFGHANO CHE SE LA RIDE DELLA MORTE (E DELLA CENSURA)

Bianca Senatore linkiesta.it.it 8 novembre 2018

download.jpgIn Afghanistan la censura è ancora forte, ma il comico Ibrahim Abed, dalla sua trasmissione “Shabake Khanda” tiene incollati tutti ai televisori con i suoi sketch grotteschi sui mali del paese: dalla violenza ai rapimenti, dalla corruzione del governo al traffico di armi fino alla bigamia

Chi lavora nel settore del giornalismo, nel mondo della tv e dello spettacolo in Afghanistan, sa che ci sono molte cose che sono assolutamente vietate. Anche se dopo il ritiro delle truppe internazionali nel 2014 nel Paese sono stati sviluppati molti progetti editoriali e sono poi nate anche molte tv come Tolo, 1TV, Ariana News, Shamshad TV e Khurshid TV, la macchina della censura è diventata feroce: parole vietate, situazioni da non raccontare, luoghi inaccessibili perfino a giornalisti con l’accredito governativo. C’è un solo programma che, incredibilmente, sembra godere di un’illimitata quanto bizzarra libertà. 
Ogni venerdì alle 20, che sia stata una bella come una brutta giornata, la maggior parte degli afgani si sintonizza su Tolo tv, una delle emittenti più famose dello Stato, perché comincia “Shabake Khanda”, lo spettacolo satirico di Ibrahim Abed, cabarettista, comico per passione, divenuto in poco tempo uno dei personaggi più famosi della televisione. Quasi un divo, tanto che per le strade di Kabul lo riconoscono e lo fermano per una foto o un autografo.

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Elezioni afghane, i voti non tornano.

Enrico Campofreda dal suo Blog – 7 novembre 2018

election day 300x169Pur limitate dall’astensionismo, voluto o forzato, le elezioni afghane hanno dribblato gli attentati sanguinari di taliban e jihadisti più di quanto riescano a superare l’ostacolo dello spoglio elettorale. Questo è stato sempre oggetto di schermaglie fra candidati che, con stratagemmi e presenza di soggetti compiacenti nella commissione elettorale, provavano a manipolare i risultati a proprio favore. Quando tratta di elementi prossimi ai poteri forti (governi fantoccio, signori della guerra e simili) i tentativi vanno sicuramente a buon fine, a danno dei pochi politici democratici privi di quelle protezioni. Anche le tanto attese elezioni 2018 potrebbero mostrare casi del genere, ma la particolarità è fornita dalla novità introdotta dall’attuale Commissione Elettorale Indipendente: il riconoscimento biometrico dell’elettore. Un sistema adottato per evitare il primo tipo di brogli, il plurivoto, diffuso e praticato in tutti i collegi in cui taluni politici forzano la mano. Così l’inchiostro, cosiddetto indelebile, che certificava l’avvenuta operazione di voto viene sostituito dall’identificazione biometrica dell’elettore riconosciuto tramite le impronte digitali.

Afghan voting 9 18 2005 male 1Purtroppo parecchi di questi macchinari indispensabili alla verifica non sono giunti nei seggi, non hanno funzionato a dovere oppure si bloccavano rallentando l’azione degli addetti che, in tanti casi, si son visti costretti a ritornare al vecchio sistema di marcatura dell’indice.

Ora che si è votato come si è potuto subentra l’ennesimo scoglio. Accanto alla Commissione Elettorale Indipendente lavora una Commissione Elettorale dei Reclami, le due stanno discutendo già da tre settimane sull’attribuzione di voti a vari candidati. Preferenze contestate o ritenute dubbie rispetto alla regolarità d’identificazione dell’elettore. Si chiede di non considerare valide le schede prive del marchio biometrico, cosa che rende problematica l’assegnazione di molti voti.

E ci si chiede quanto sia stato diffuso il problema. Anche qui c’è una ridda di dati, spesso contraddittori, perché i due organismi, giunti quasi ai ferri corti mescolano le rilevazioni. Una per tutte: calcolare le percentuali di rilevazione biometrica su centri elettorali e sui seggi non è la stessa cosa, visto che solo il passaggio in quest’ultimi incide sicuramente sul voto espresso. Eppure i dati s’intersecano.

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CERCASI SPONSOR PER UN PROGETTO DI REINSERIMENTO SOCIALE DELLE DONNE MALTRATTATE IN AFGHANISTAN

AFTER SHELTER

6 novembre 2018

Care amiche e cari amici del Cisda, come sapete uno degli aspetti della nostra organizzazione è sostenere e promuovere i progetti delle associazioni di donne che collaborano con noi. Tutti i nostri progetti nascono sempre da esigenze e richieste sollecitate dai loro che vivono ogni giorno la realtà di quel martoriato paese. Ci è giunta dalla nostra associazione partner locale Hawca (in inglese: Associazione Umanitaria per l’assistenza alle donne e ai bambini dell’Afghanistan) una proposta per un nuovo progetto. L’idea è di seguire la continuazione dei progetti in corso: la Casa Protetta di Kabul ei Centri di aiuto legale, progetti che il Cisda sostiene (non senza difficoltà, ma d’altronde cosa c’è di facile in Afghanistan?).

Sia con donazioni singole ma particolari con sponsorizzazioni di enti e fondazioni. Nella Casa Protetta “rifugio” le donne che traggono e traggono situazioni da un posto dove si rifugiano lontano dai loro aguzzini, siano familiari o potenti membri della loro comunità. Molto spesso in queste fughe sono accompagnate anche dai loro bambini. In quella casa assistenza medica e psicologica, acquisiscono coscienza dei propri diritti e, tramite il lavoro di centri legali, possono avere il supporto necessario durante l’iter per il divorzio ecc.

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POESIE DA UN AUTUNNO GUERRIGLIERO

Uikionlus.com – 6 novembre 2018

autunno 1 599x275 copyUn libro di poesie dal Kurdistan per apprezzare il valore della libertà

Autunno è il titolo di un piccolo, prezioso libro di poesie, pensieri, frammenti di vite. Un libro di appunti partigiani dal Kurdistan, come il sottotitolo dice. Raccoglie poesie e scritti di Atakan Mahir, Salvatore Ceccarini, Piergiorgio Daltoni, Ali Haydar Kaytan e Abdullah Öcalan. Le fotografie, immagini di quotidianità di guerriglieri e guerrigliere del PKK sono della guerrigliera turca Gülnaz Ege (nome di battaglia Nuran Er).

Pubblicato nella sua versione originale in italiano, il libro sarà tradotto anche in spagnolo. Nel prologo i curatori del volume si fanno alcune domande, Cos’è la libertà? Chi è morto per noi? Perché tanti e tante, più o meno anonimi uomini e donne, sono stati disposti a sacrificarsi per le generazioni a venire? Cosa c’entra con noi? Alcune delle risposte sono nelle poesie e nei pensieri di questo libro. ANF ha chiesto ai curatori di raccontare come è nato questo libro, in che contesto. Il volume è disponibile anche presso l’Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia e i proventi saranno devoluti a progetti per il Kurdistan.

Formato: 64 pagine, Prezzo : 10 Euro, ordini da info@uikionlus.com

Due autori del libro Salvatore Ceccarini, Piergiorgio Daltoni, hanno risposte le domande dell’agenzia stampa di ANF.

Com’è nata l’idea di questo libro?

Sono arrivati questi piccoli quaderni stropicciati, quaderni che in montagna i compagni e le compagne usano per prendere appunti e scriverci i propri pensieri.

Ci abbiamo trovato pensieri, sogni, paure, amore, dolore, speranza, tutto in forma di poesie e di immagini. Tante persone, diverse fra loro hanno sentito questi appunti, questi schizzi di due militanti qualunque, messi su carta in fretta e furia fra un passo e l’altro, come una finestra sulla vita in montagna, su quello che c’è da scoprire fra una roccia e un’altra: È nata la voglia di trascrivere «in bella» questi quaderni e di condividerli assieme alle fotografie della compagna turca Nuran Er, caduta sotto le bombe turche ad Amed Lice nel settembre 2017 e alle parole di Atakan Mahir, compagni e compagne che hanno fatto della montagna la loro casa in movimento.

Le due poesie che chiudono questo libretto sono di due dei fondatori del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), tra cui Abdullah Öcalan, il leader del popolo curdo, dal 1999 lotta rinchiuso nella prigione/isola di massima sicurezza di Imrali, in condizioni di reclusione inumane.

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AFGHANISTAN, IL LUOGO PIÙ PERICOLOSO DOVE LAVORARE COME GIORNALISTA.

Articolo 21 – 1 novembre 2018, di Nico Piro

80601426 E1A1 4ED1 9B54 04FFED3ACC55Negli ultimi 12 anni nel mondo sono stati uccisi circa 1000 giornalisti, l’anno scorso il numero dei giornalisti uccisi in aree non di conflitto ha raggiunto quota 55% sul totale, superando quindi il numero dei reporter uccisi in zone non di conflitto. Questi crimini restano quasi sempre senza un colpevole, è l’ “impunità” alla cui sconfitta l’Unesco ha dedicato la giornata del 2 novembre (vedi la pagina “End Impunity Day”).

A Kabul abbiamo “celebrato” la ricorrenza con un giorno d’anticipo perché domani è venerdì, giornata di preghiera e di festa, l’equivalente della nostra domenica. Non è stata un celebrazione rituale ma il tentativo di mettere intorno allo stesso tavolo al Ministero per l’Informazione, i vari soggetti che si muovono in una realtà tanto complessa.
Purtroppo l’Afghanistan è il luogo probabilmente più pericoloso al mondo dove lavorare come giornalista, nel 2018 in una sola giornata sono stati uccisi 11 colleghi in diverse aree del Paese, 9 di questi in un singolo attentato “mirato” a Kabul.

Dando seguito all’orrenda linea partorita dall’abisso del sedicente “califfato”, anche in Afghanistan lo Stato Islamico (qui definito “del Korasan”) ha classificato i giornalisti non per quello che sono – civili – ma come obiettivi militari, possono quindi essere colpiti e trattati come forze combattenti nemiche.

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NUOVA STRAGE A KOBANE. CONTRARIA A OGNI NORMA DI DIRITTO INTERNAZIONALE.

Articolo 21 – 1 novembre 2018, di Stefania Battistini e Ivan Grozny

untitledDa Kobane in queste ore arrivano video molto simili a quando la città siriana in mano ai curdi veniva attaccata da Isis. Questa volta però le bombe sono sganciate dalla Turchia, il secondo esercito della Nato. Dopo Afrin, Erdogan viola ancora una volta il diritto internazionale e bombarda i villaggi abitati dai civili. L’obiettivo è colpire l’esercito curdo YPG e YPJ, il primo che ha resistito, combattuto e vinto contro Daesh, sostenuto dalla coalizione internazionale.

Nei video postati dagli abitanti si vede il terreno saltare, si sentono le urla delle persone. Le stesse persone che da tre anni stanno pazientemente ricostruendo tutto ciò che lo Stato islamico aveva distrutto. Con Ivan Compasso Grozny, a giugno, siamo stati a Kobane. A 4 anni dalla devastazione di Isis abbiamo visto la rinascita di una città e della sua gente, dopo il sangue versato. Abbiamo visto muratori ricostruire case e quartieri. Abbiamo visto nuovi ospedali e nuove scuole nate anche grazie ai soldi raccolti dalle fondazione delle donne del Rojava in Germania, Austria, Svizzera, Olanda. Coi finanziamenti della provincia Trento è stato rifatta una scuola per i bimbi rimasti orfani perché Daesh ha ucciso i loro genitori: si chiama l’Arcobaleno di Aylan, il piccolo curdo trovato sulle rive del Bosforo in Turchia, simbolo del dramma dei popoli che sfuggono dalle guerre.

Abbiamo visto le strade tornare a vivere. Fino a mezzanotte donne, uomini, bambini insieme per respirare la libertà ritrovata.

Abbiamo visto il Cimitero dei martiri di Kobane: più di mille combattenti hanno dato la vita per liberare il mondo dal terrorismo di matrice islamista.

Abbiamo visto cosa è diventato concretamente il confederalismo democratico alla base l’organizzazione delle città del Rojava ispirato alle teorie socialiste del filosofo statunitense Murray Bookchin: una democrazia senza Stato, flessibile, multiculturale, anti-monopolistica; laicità, femminismo, ecologismo come pilastri. Abbiamo visto che non sono solo tensioni ideali, ma fatti concreti: la parità di genere e la laicità nel bel mezzo dell’estremismo religioso islamista, l’introduzione del matrimonio civile e l’abolizione della poligamia. Le donne hanno ruoli politici e militari, fanno parte delle forze di sicurezza e gestiscono l’organismo di polizia contro la violenza sessuale.

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DALLA NORVEGIA ALL’AFGHANISTAN, LA STORIA DI MOHAMMAD: «ORA NON VADO PIÙ A SCUOLA»

Corriere della sera / Esteri di Marta Serafini, 28 ottobre 2018

Mohammad1 kpX U3050686712903CRF 1224x916Corriere Web Sezioni 593x443La testimonianza di un 13enne costretto a rientrare nel suo Paese di origine dopo 6 anni in nord Europa. Il rapporto di Save the Children: «L’Ue faccia cessare i rimpatri forzosi»

«Mi piaceva andare a scuola, mi piacevano i miei insegnanti e i miei compagni di classe in Norvegia». Mohammad (il suo nome è stato modificato per ragioni di privacy e sicurezza), 13 anni, aveva 5 anni quando lui e la sua famiglia sono scappati dalla provincia di Ghazni, in Afghanistan, una delle più colpite dai combattimenti tra esercito e talebani.

Dopo essere passati dall’Iran Mohammad e la sua famiglia sono arrivati in Turchia. Da qui, via mare sono entrati in Grecia e infine in Norvegia dove hanno fatto richiesta di asilo politico. Dopo 4 anni la domanda è stata rifiutata. A Mohammed e la sua famiglia è stato detto che dovevano lasciar il Paese.

Mohammed e la sua famiglia sono rientrati nell’elenco dei cosiddetti rimpatri forzosi verso l’Afghanistan, un Paese ancora in guerra. Non sono tornati a Ghazni, ma a Kabul, nella capitale.

Qui il padre di Mohammed lavora per due dollari al giorno e Mohammad ha smesso di andare a scuola per paura degli attentati. «Vorrei tornare in Norvegia, per vedere i miei compagni e non voglio essere ucciso qui», ha raccontato Mohammad ad un’operatrice di Save the Children il mese scorso. Oltre alla paura della guerra e delle bombe, per la famiglia di Mohammad e per lui stesso tornare non è stato per nulla facile. «Ci hanno caricato su un aereo con pochi soldi. E una volta atterrati abbiamo subito cambiato modo di ragionare, dato che questa è una zona di guerra», ha spiegato Farah, la madre di Mohammad.

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2.350 CIVILI RAPITI AD AFRIN DALL’OCCUPAZIONE

Tratto da UIKI Onlus – 24 ottobre 2018

afrin2 700x325 599x275 copyL’esercito turco invasore e i mercenari alleati continuano con i loro crimini contro i civili, i valori umani, la cultura e la natura ad Afrin, che è sotto la loro occupazione da più di 7 mesi.

Il Cantone di Afrin, nel nord della Siria, rimane sotto l’invasione dell’esercito turco e dei mercenari alleati da più di 7 mesi. Durante questo periodo, le forze di occupazione di cui sopra hanno rapito 2.350 civili. Le conseguenze su 835 di queste persone, di cui 139 donne, rimangono sconosciute. D’altro canto, più di 4.500 ulivi sono stati confiscati.

Le forze di occupazione continuano anche con la demolizione dei cimiteri dei martiri, la turchificazione – nella misura di nomi di strade – e simboli di occupazione di decorazioni lungo i bordi delle strade e gli insediamenti civili.

Durante questo periodo di 7 mesi, si presume che oltre 9 mila alberi siano stati bruciati o abbattuti sul territorio di Afrin. I luoghi storici sono stati saccheggiati, i reperti storici – il comune patrimonio dell’umanità – sono stati saccheggiati e inviati all’estero e una superficie di oltre 5 ettari è stata incendiata.

Cimiteri distrutti
Secondo i resoconti, il Cimitero Martyr Seydo dei Martiri è stato completamente demolito a seguito degli attacchi dell’artiglieria da parte dell’esercito e dei mercenari turchi.

Civili rapiti
I mercenari di Al-Amshat hanno compiuto un raid contro le case dei civili nel villaggio di Koxre, nel distretto di Mabata, due giorni fa. Un civile di nome Semîr Mieratê è stato rapito nel raid.

Simboli di occupazione ovunque
I nomi delle scuole e delle strade di Afrin sono stati tra gli obiettivi principali della politica di turchificazione condotta durante l’occupazione. Manifesti del presidente turco Erdogan e bandiere dello stato turco stanno sventolando lungo le strade nel distretto di Shiye.

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UN MILIONE DI CARICHE ESPLOSIVE: CAMPO MINATO KURDISTAN

Tratto da UIKI Onlus – 22 ottobre 2018

kurdistn 599x275 300x138Secondo quanto riferito dall’Iniziativa per una Turchia senza Mine (Mayınsız bir Türkiye Girişimi) nelle regioni curde si celano ancora circa un milione di mine – di cui ben 100.000 nelle aree rurali. Le mine terrestri fanno parte delle armi più crudeli che l’uomo abbia mai inventato. La Turchia fa parte dei dieci Paesi più colpiti al mondo. Secondo quanto riferito dall’Iniziativa per una Turchia senza Mine (Mayınsız bir Türkiye Girişimi) nelle regioni curde si nascondono ancora circa un milione di mine, di cui ben 100.000 nelle aree rurali.

La Turchia ha una superficie di circa 783.652 km². La superficie contaminata da mine secondo stime dell’organizzazione umanitaria tedesca DEMIRA (Deutsche Minenräumer e.V.) è di almeno 214,74 km². Le mine sono state piazzate dalle autorità stesse per proteggere i confini nazionali.

Mentre le prime mine sono state collocate tra il 1956 e il 1959 sui confini con Siria, Armenia, Iran e Iraq per fare da deterrente contro gli attraversamenti illegali del confine da parte dei contrabbandieri, tra il 1984 e il 1999 lungo il confine con la Siria si sono aggiunti sempre più campi minati per impedire alla guerriglia del PKK di raggiungere i suoi campi di addestramento sul lato siriano.

Turchia senza mine nel 2022?
Il confine della Turchia con la Siria è lungo circa 900 chilometri. Solo lì negli anni ’50 sono state piazzate circa 650.000 mine terrestri. La superficie contaminata nella zona di confine turco-siriana si estende su una superficie di circa 180 km2 (…). Entro il 2014 la Turchia avrebbe dovuto sgomberare la zona di confine dalle sue cariche mortali. Questo è previsto dalla Convenzione di Ottawa sul divieto di mine antiuomo, al rispetto della quale la Turchia si è impegnata con la sottoscrizione nel 2003. Questo obiettivo tuttavia non è stato raggiunto da Ankara, motivo per cui la Turchia ha chiesto una proroga dei termini che le è stata accordata. Secondo indicazioni governative tutte le zone minate devono essere completamente bonificate entro il 2022.

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