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Autore: Anna Santarello

Rifondazione Comunista ha incontrato Malalai Joya, esempio di lotta per la pace nell’Afghanistan occupato.

Rifondazione.it – 17 aprile 2018, di Stefano Galieni

malalai 77870 210x210Incontrare Malalai Joya, una delle più incredibili combattenti per la pace e la democrazia, proprio poche ore dopo l’ennesimo bombardamento occidentale verso un altro popolo, quello siriano, costringe a non dimenticare i danni che provocano le guerre. Malalai Joya ha una vicenda personale e politica che racchiudono forse gran parte della storia afghana. Eletta nel parlamento che doveva rappresentare il “nuovo corso democratico” dopo l’occupazione NATO e l’elezione alla presidenza di Karzai, nel 2005 a soli 27 anni, ne viene espulsa dopo due anni di denunce, minacce, attentati, insulti subiti e tentativi continui di dare voce alle persone più vulnerabili, in particolar modo quelle delle donne e dei bambini.

Sono questi che più di tutti hanno pagato e pagano il prezzo di una guerra infinita in cui gli interessi dei paesi occidentali e delle potenze vicine, dei signori della guerra, dei coltivatori d’oppio, delle milizie fondamentaliste hanno depredato ogni bene e gran parte delle speranze. Grazie al CISDA (Comitato Italiano di Sostegno alle Donne Afghane), nei locali della Direzione nazionale del Prc si è potuto svolgere un lungo incontro che ha visto presenti fra gli altri il segretario nazionale Maurizio Acerbo e il segretario della federazione di Roma, Vito Meloni. Si è trattato di un incontro non formale, lungo in cui l’attivista afghana ha provato a sintetizzare le vicende di un paese che, dimenticato dai media, continua ad essere occupato militarmente da forze straniere. 900 sono i soldati italiani presenti ad oggi per una spesa complessiva, confermata dal parlamento a camere ormai sciolte per quasi 300 milioni di euro.

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Malalai Joya racconta l’Afghanistan sempre in guerra

Piuculture – 18 aprile 2018 di Francesca Cusumano

20180413 182333 1024x768Alla Comunità di Base di San Paolo, l’attivista afgana denuncia le persecuzioni contro le donne afgane.

Malalai Joya oggi ha 40 anni. Nata nel ’78 in Afghanistan non ha mai vissuto un periodo di pace nel suo paese. Dal 2001, anno della guerra al terrorismo scatenata dagli americani dopo l’attacco alle Torri Gemelle, e prima per l’invasione sovietica e il regime dei talebani, la pace in Afghanistan, negli ultimi quarant’anni, non c’è mai stata. Un’intera generazione ha vissuto e vive ancora oggi tra scoppi di bombe e attentati di kamikaze che coinvolgono la popolazione civile.

Malalai è l’attivista più conosciuta dell’Afghanistan. Eletta in Parlamento a 28 anni, dopo il crollo del regime talebano, denunciò pubblicamente la presenza di “criminali e signori della guerra” tra le file di quella che doveva essere un’istituzione democratica. Nel 2010 ha pubblicato il suo libro “Finché avrò voce” : la mia lotta contro i signori della guerra e l’oppressione delle donne afgane” che l’ha resa celebre in tutto il mondo. Da allora vive in clandestinità e da un anno non vede il suo bambino di 5 anni. Ma non rinuncia a far sentire la sua voce per denunciare le condizioni sempre più critiche del suo paese che lei addebita in ugual misura ai terroristi dell’Isis, ma anche al governo Usa e “ai suoi lacchè signori della guerra e talebani”.

Venerdi scorso Malalai Joya era a Roma, ospitata dalla Comunità di Base di San Paolo per un incontro con il pubblico e con la giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena, organizzato con la collaborazione del CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane).

In Afghanistan un recente decreto legge prevede che la gestione delle case rifugio per donne maltrattate, passi dalle Ong non governative al ministero degli Affari Femminili. Contestualmente il governo ha istituito il reato di “allontanamento da casa” per le donne che cercano rifugio nei centri di accoglienza, se non accompagnate dal marito – che spesso è proprio colui che le ha maltrattate – o di un parente maschio.

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“Una donna tra i Signori della guerra”… Quando la resistenza diventa un fatto di donne

Osnago 212x300Il 28 aprile, alle ore 18,30, al Circolo Arci La Lo.Co. di Osnago, Viale Trieste 23, Stazione FS, ci sarà l’incontro con Malalai Joya e la presentazione dei progetti del Cisda.

A seguire l’aperitivo con cibi allo zafferano, prodotto da una piccola cooperativa di donne, che si potrà anche acquistare.

Non è necessaria la tessera Arci

Tribunale Permanente dei Popoli sezione Turchia dichiara la decisione il 24 maggio a Brussel

Uiki onlus – 16 aprile 2018

tribunale 599x275Il 15 e 16 marzo 2018 il Tribunale Permanente dei Popoli ha convocato una sessione a Parigi (Francia) sulla Turchia e sui curdi. Più di 400 persone interessate hanno partecipato.

In una sessione introduttiva il gruppo composto da 7 giudici ha ascoltato testimoni della negazione dei diritti politici, culturali, sociali ed economici dello stato turco nei confronti dei curdi che vivono in Turchia. È stato sostenuto dall’accusa che queste violazioni del diritto all’autodeterminazione dei curdi sono la fonte del conflitto che si combatte tra lo stato turco e l’insurrezione curda per molti decenni.

Durante gli ulteriori dibattiti i testimoni sono stati ascoltati su 2 categorie di crimini presumibilmente commessi dallo stato turco: crimini di guerra (e forse crimini contro l’umanità) durante l’assalto militare dell’esercito turco e delle forze di sicurezza sulle principali città curde tra settembre 2015 e giugno 2017 da un lato e reati di stato come uccisioni mirate, rapimenti, incendi dolosi e attentati dinamitardi, commessi per diversi decenni sia in Turchia che al di fuori dei suoi confini. Questi ultimi crimini erano ovviamente impegnati a intimidire gli attivisti curdi e a seminare confusione e paura nelle organizzazioni curde.

Durante i dibattiti sull’assalto alle città, sono stati ascoltati testimoni di Cizre, Sur (Diyarbakir), Nusaybin e Sirnak, alcuni dei quali fisicamente presenti a Parigi, altri su Skype. I testimoni hanno descritto come l’esercito turco e le forze di sicurezza hanno bombardato le città con artiglieria, come i cecchini hanno preso di mira i civili, come i civili che cercavano rifugio negli scantinati sono stati deliberatamente attaccati e uccisi ecc. Il processo ha dimostrato come tutti questi attacchi sono stati deliberatamente pianificati ed eseguiti. Il tribunale è stato costituito per scoprire questi crimini di guerra.

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Incontro con Malalai Joya a Torino

foto Torino23 aprile 2018, Torino, Via Vanchiglia 3, Presso Laadan, Centro culturale sociale delle donne – Sala Ronco, primo piano , ore 18.30

La Casa delle donne di Torino e il CISDA organizzano un incontro con Malalai Joya: “Non temo tanto la morte quanto i rischi che possono derivare dal restare in silenzio di fronte a tanta ingiustizia…”

 
Coordina Anna Santarello
Traduce Isabella Bruschi

La Turchia espelle centinaia di migranti afghani affluiti nel paese

La Turchia, il cui Primo Ministro Binali Yildirim domenica ha incontrato a Kabul il capo dell’esecutivo del governo afghano Abdullah Abdullah, è un importante punto di snodo per i migranti afghani. Sarebbero circa 18.000 le persone entrate illegalmente nel paese negli ultimi tre mesi.

AFP, TEH NEWS, 9 aprile 2018

Traduzione di Cristina Cangemi, Giulia Giunta, Ester Peruzzi, Dalila Scaglione e Sara Somaini.

Domenica, nel corso di un’importante operazione, la Turchia ha rimpatriato con voli speciali centinaia di migranti afghani dopo che nelle ultime settimane migliaia di persone sono entrate illegalmente nel paese.
La Doğan News Agency riporta che nelle prime ore di domenica mattina, 227 migranti afghani sono stati imbarcati su un volo charter partito da Erzurum, nella Turchia nordorientale, e diretto a Kabul.

Si dice che i migranti afgani, per un totale di 691persone, sarebbero stati deportati questa settimana su altri due voli attesi a Kabul e provenienti da Erzurum. I voli sono stati forniti da una compagnia aerea afghana.

La Doğan News Agency ha citato i funzionari dell’emigrazione a Erzurum, dicendo che la Turchia aveva pianificato di deportare tutti i 3.000 migranti afghani che si trovavano attualmente a Erzurum.

A Kabul, i funzionari hanno negato che i profughi fossero deportati, insistendo sul fatto che sarebbero tornati a casa per loro scelta.
“Un certo numero di rifugiati afgani sta tornando nel loro paese di propria volontà”, ha detto Islamuddin Jurat, portavoce del ministero dei rifugiati e dei rimpatri.
“Loro erano quelli che volevano usare la Turchia come via di transito per raggiungere altri paesi ma, quando non ci sono riusciti, hanno deciso di tornare.”

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La giornalista afghana che sfida i talebani

Giornale del Popolo, 18 aprile 2018, di Leone Grotti

tipress 327992Intervista a Nargis Mosavi, che ogni giorno rischia la vita per amore del suo Paese. È stata inviata in Svizzera da Reporters sens frontière per raccontare la situazione.

«Quello che ti è successo è perfettamente normale, visto che sei una giornalista e una donna». È con questa sufficienza che la polizia ha trattato Nargis Mosavi, quando l’allora 20enne si è presentata per denunciare un tentato rapimento. Il suo. Era il 2015 e la ragazza, l’unica nel Paese a condurre un programma televisivo, era appena uscita dagli uffici dell’emittente privata afghana TOLOnews. Un’auto nera l’ha affiancata e dalla portiera aperta all’improvviso si sono protese verso di lei delle braccia nel tentativo di trascinarla dentro.

Le sue grida hanno richiamato l’attenzione delle persone circostanti e il tentato sequestro è fallito. Mosavi non è mai venuta a conoscere l’identità dei rapitori, ma da allora viaggia sotto scorta dentro un mezzo blindato fornito dalla sua azienda. Né il Governo, né la polizia hanno fatto niente per aiutarla. «Funziona così in Afghanistan», sorride la giornalista, che abbiamo incontrato nella sede del GdP. La 23enne è stata invitata in Svizzera da Reporters sans frontières per raccontare la situazione del suo Paese, dove infuria ancora la guerra senza quartiere contro talebani e Stato islamico, e delle donne. Durante l’intervista lascia che i lunghi capelli scuri le ricadano liberamente sulle spalle. «Nel mio Paese sono obbligata a portare il velo, ma per me non ha alcun significato, quindi ora che sono qui non lo indosso. Il mio rapporto con l’islam non è così buono», spiega.

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Demirtaş: non mi aspetto giustizia da questa corte.

Uiki onlus, 14 aprile 2018

selahattindemirtasSelahattin Demirtaş, ex co-Presidente dell’HDP nel suo intervento di difesa al tribunale di Ankara ha detto: “Non ho né speranza né aspettative rispetto al fatto che questa corte eserciterà la giustizia.“

La terza udienza del processo per il co-Presidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP) n carcere Selahattin Demirtaş è proseguita a Ankara per il terzo girono con l’intervento di difesa dell’imputato.

Il processo nel complesso del carcere di Sincan è stato seguito da deputati HDP e dal vice co-Presidente del CHP Tekin Bingöl. Come nei due giorni precedenti di processo, il numero di spettatori era limitato a 50 persone. Demirtaş ha commentato il fallimento del processo di risoluzione e detto che il Primo Ministro Davutoğlu non ha mai creduto in un processo di soluzione: “È un politico miope che si è fatto carico dell’organizzazione imperiale neo-ottomana dello Stato. Non ha mai considerato il popolo curdo uguale. È un guerrafondaio che ha fatto la sua parte per mettere fine al processo di soluzione. “

Non mi aspetto giustizia.

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Crimini di guerra afghani: processi a piacere.

Dal Blog di Enrico Campofreda, 17 aprile 2018

11336774535 e4e09f4a4e bIl Tribunale Penale Internazionale, su cui l’associazione afghana Saajs (Social Association of Afghan Justice Seekers) confida per condurre alla sbarra i responsabili di omicidi, rapimenti, torture, stupri, vessazioni che continuano a rappresentare la triste quotidianità in Afghanistan, ha deciso di rinviare la decisione se investigare o meno attorno ai reati compiuti da truppe d’occupazione Nato, governative e milizie talebane. Si dovrà decidere se esaminare il materiale raccolto e ascoltare i testimoni per procedere penalmente, si badi bene, contro individui, non contro governi o gruppi armati.

Cosicché già viene meno uno dei cardini per ottenere giustizia su tante nefandezze che hanno presupposti collettivi e rispondono a strategie geopolitiche. In tal senso testimoni e familiari di vittime, come quelli incontrati in un recente viaggio a Kabul (cfr. http://enricocampofreda.blogspot.it/2018/03/afghanistan-saajs-la-giustizia-contro.html), difficilmente potranno vedere una ricaduta sociale e politica d’una simile procedura. Essa eleva una barriera fra le responsabilità soggettive di chi materialmente ha compiuto gli atti criminali e quelle dei mandanti, svincolando i delitti dai progetti dei vari attori che si muovono nel Paese. Il rinvio assume i contorni della brutta diplomazia, quella compiacente coi poteri forti, quasi non si volesse disturbare il doppio programma in atto: i sempre aperti (sebbene improduttivi) colloqui coi talebani della Shura di Quetta e la preparazione della scadenza elettorale del 2019.

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Il silenzio assordante sul massacro dei curdi

Left, 29 marzo 2018, di Marco Rovelli

imagesFin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza.

In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali.

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