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Autore: Anna Santarello

Diritti umani, le buone pratiche Ue

di Francesco Martone – Sbilanciamoci Info

images 300x150Alcuni paesi europei prevedono misure e sistemi per la tutela dei difensori dei diritti umani, di recente presi come riferimento per le linee guida adottate dal governo canadese e da Svizzera e Norvegia.
Secondo l’ultimo rapporto  di FrontLine Defenders nel 2015 sono stati uccisi 282 difensori/e dei diritti umani in 25 paesi, metà di loro erano attivisti per i diritti dei popoli indigeni, per l’ambiente e la difesa della terra. Almeno un migliaio sono stati sottoposti ad intimidazioni di vario genere. Un’escalation che va di pari passo con l’aumento della pressione sulle risorse naturali e sulla terra da parte dei governi  e delle imprese transnazionali. I paesi maggiormente colpiti sono l’Honduras e la Colombia. A ricordarlo l’assassinio della leader indigena Berta Caceres e i 27  casi di omicidio di leader in Colombia dall’inizio dell’anno.

Nel 2004 l’Unione Europea ha adottato propri “orientamenti” sui Difensori dei Diritti Umani, dotandosi di  strumenti di pressione e tutela  degli attivisti, dalle missioni sul campo, alle attività di monitoraggio dei processi, ai contatti e dialogo politico con le autorità locali. L’Unione ha anche predisposto una Piattaforma di Coordinamento per l’Asilo Temporaneo dei Difensori dei Diritti Umani (European Union Human Rights Defenders Relocation Platform).  Alcuni Paesi membri dell’Unione Europea hanno dato di seguito  adottato procedure di applicazione degli orientamenti UE. L’ONG Olandese Justice and Peace  lavora ad un programma di città rifugio sponsorizzato dal Ministero degli Affari esteri, grazie ad una procedura accelerata per la concessione di visti d’urgenza ai difensori dei diritti umani sotto minaccia. In Irlanda, il Ministero degli Esteri ha predisposto un servizio di assistenza e coordinamento delle attività di supporto e di concessione di visti umanitari. Anche la Spagna si è dotata di buone pratiche allo stesso scopo, mentre i Ministeri degli Esteri finlandese, tedesco ed irlandese hanno proprie linee guida per l’applicazione degli Orientamenti UE ed anche la Francia è impegnata con la sua rete di rappresentanze diplomatiche.

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L’Afghanistan di una ragazza che ama la libertà

Reportage di Pierfrancesco Curzi – Il Manifesto

kabul2f011Le pecore in cerchio, il lupo nel mezzo. Lo scopo del gioco è nelle mani del predatore, cattivo solo nella trasposizione della malvagità assoluta al cospetto della pecora, vittima sacrificale e creatura indifesa. Lo scopo del gioco è quello di non farsi attaccare dal lupo, per non diventare come lui.

L’infantile passatempo come allegoria della vita, dove la pecora è, in generale, l’essere umano e il lupo è il mondo che lo circonda; tentatore aggressivo, specie in una società maschilista e misogina come quella afghana. Dalla fiaba alla realtà, dal gioco alle sfide della quotidianità in un Paese dove otto persone su dieci sono analfabete, dove la violenza scandisce le giornate e al mattino, tra familiari ci si saluta come se potesse essere l’ultima volta.

Nel suo primo lungometraggio Wolf and sheep (2014), il lupo e la pecora, presentato alla Quinzaine di Cannes dove si è aggiudicata il Director’s Fortnight Award, la regista Sharhbanoo Sadat ha raccontato l’Afghanistan dei remoti villaggi nella provincia di Bamyian, quella delle statue dei Buddha distrutte dai Talebani nel marzo del 2001.
Il cuore dell’Afghanistan, o meglio dell’Hazaristan, la terra degli Hazara, l’etnia più bistrattata sia per motivi razziali che religiosi; enclave sciita nel profondo islam sunnita dell’etnia dominante, quella Pashtun.

In questi anni, in Afghanistan, se possibile, la situazione interna è peggiorata, con una recrudescenza del terrorismo. La produzione di papavero da oppio aumenta (+43% rispetto al 2015, 210mila ettari coltivati rispetto agli 82mila del 2002, 90% della produzione mondiale), la società afghana non sta avanzando attraverso i canoni di civiltà prospettati dall’occidente e le donne continuano ad essere le vittime sacrificali e ad indossare il burqa. Ci si chiede a che punto sia il cambiamento professato dalla dottrina americana per la campagna afghana dopo quindici anni: «Io sono il cambiamento» replica sicura Sharhbanoo Sadat che vive tra Kabul e la Francia un esempio di speranza per il futuro. «Provi ad immaginare, una donna di 27 anni che, di mestiere, fa la regista. Un tempo una cosa del genere non sarebbe stata possibile. Oggi l’Afghanistan è nel caos, il terrorismo sta minando la stabilità, gli internazionali vivono blindati in una ‘Green zone’ e sembrano incapaci di arginarne le conseguenze. Col regime dei talebani, tuttavia, sarebbe stato peggio e io adesso non sarei certo qui a parlare con lei. La libertà è un concetto fondamentale, ma non legherei l’intera faccenda essenzialmente a quante donne indossano il burqa e alla coltivazione del papavero da oppio.

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Soraya d’Afghanistan: una principessa sul fronte dei diritti delle donne

di Patrizia Scotto di Santolo, Stamp Toscana

soraya 225x300 1Un caldo sole primaverile mi accoglie nella Roma dei papi, e precisissima all’appuntamento, nella piazza che prende il nome dall’omonima chiesa, che, pur avendo ormai quasi quattro secoli di vita, è ancora oggi chiamata la “Chiesa Nuova”, (con a fianco l’Oratorio dei Filippini, i membri dell’Ordine di S.Filippo Neri, costruito nel 1575, la cui facciata leggermente concava fu realizzata dal Borromini tra il 1637 ed il 1643), mi viene incontro, sorridente, la principessa Soraya Malek, primogenita di India, figlia del re d’Afghanistan Amanullah Khan, nipote del re Amanullah Khan, conosciuto come grande modernizzatore (si deve a lui l’abolizione del velo), deposto nel 1929 da una rivoluzione, e della regina Soraya Tarzi, che fu l’ispiratrice di una grande azione riformatrice, che stava trasformando l’Afghanistan in un Paese moderno.

Ci accomodiamo nella Biblioteca Vallicelliana, per parlare dei progetti sulla condizione delle donne afghane, ma anche del suo prossimo viaggio a Kabul per conto della fondazione di Luciano Benetton “Imago Mundi”, una collezione d’arte contemporanea, ovvero un progetto no-profit, che propone un nuovo modo di fare arte in nome della condivisione e diversità espressive, dei popoli della terra.

“Stiamo preparando con le donne di tutto il mondo un tulle ricamato che rappresenti una carta geografica di 2 metri per 3; le donne indiane, ad esempio, ricameranno gli oggetti musicali, le coreane del nord, alberi e piante della terra, le afghane i marmi e le pietre preziose dell’Afghanistan”: cosí ci dice Soraya con una punta d’orgoglio quando parla e ricorda le bellezze del suo Paese e  anticipa la disponibilità di Luciano Benetton  a portare un giorno parte della sua collezione Imago Mundi a Kabul per un’esposizione nei Giardini di Babur.

 
“In questi giorni mi attendono a Kandahar, la terra dei miei avi e qui incontrerò i capi tribù pashtun, che per rispetto non mi porgeranno la mano, perché, secondo le usanze, le donne non possono essere toccate in pubblico, (picchiate tra le mura domestiche sí) e sarò io a tenderla a loro, perché questi sono i tempi giusti  per cominciare a scardinare l’ipocrisia generale che vige in quel paese e che non tutela le donne“. Oggi, purtroppo in Afghanistan, come da recenti statistiche, dopo decenni di guerre, il tasso di alfabetizzazione delle donne al di sopra dei 15 anni rimane del 17%, le bambine iscritte alla scuola primaria sono il 45% e solo l’1% delle ragazze prosegue gli studi, mentre l’87% delle donne ha subito nella vita almeno una forma di violenza fisica, sessuale  o psicologica.

 
E mi racconta di quella volta che salvò dalla condanna a morte una giovane donna sposata a un cugino a cui aveva dato due figli, che fu poi ripudiata dopo appena due anni di matrimonio, segregata, tenuta a pane e acqua in una stanza della casa, costretta a vivere sotto lo stesso tetto con la nuova moglie dell’ex marito.

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Invito per Osservatori Internazionali al Referendum del 16 Aprile in Turchia

Uiki, Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia.

hayir 599x275 300x138Il 16 Aprile 2017 si svolgerà il referendum per le modifiche costituzionali per costruire un “sistema presidenziale” in Turchia. Questo referendum ha la massima importanza per il futuro della istituzioni democratiche in Turchia.

Come Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia desideriamo invitarvi in qualità di osservatori internazionali, al fine di consentire la massima trasparenza per il processo di referendum e per garantire la trasparenza e la correttezza durante la fase elettorale.

Il risultato del referendum rimodulerà il sistema politico in Turchia. Se il governo Erdogan-AKP vincerà al referendum, allora il Presidente in un regime totalitario monopolizzerà tutte le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie. Non ci sarà separazione dei poteri, nessun vincolo di legge, e una magistratura non indipendente nel paese.

Il governo Erdoğan-AKP, con il pretesto del tentativo di golpe del 15 luglio 2016, ha dichiarato uno stato di emergenza nazionale riducendo così al silenzio tutta l’opposizione in Turchia, cominciando dai politici curdi, arrestando 11 deputati, 90 co-sindaci, commissariando 82 su 103 comuni. Sono stati inoltre dimissionati dall’incarico, quando non arrestati, più di 11 mila accademici,tra cui democratici, giuristi, insegnanti. Ogni giorno gli arresti e i licenziamenti continuano ad aumentare. Inoltre i media, il mondo accademico e la società civile sono sottoposti ad una forte pressione da parte del governo. Centinaia di mezzi di comunicazione e migliaia di ONG che criticavano il governo sono state chiuse.

Il governo è determinato a paralizzare totalmente tutta l’opposizione che si impegna per la campagna per votare NO al referendum.

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Video: Il coraggio della musica. L’orchesta femminile di Kabul

Sabrina Scampini e Danilo Bianchi Rainwes.it – 31 marzo 2017

AfcecoDavos 300x224La musica come libertà. A Kabul è nata una orchestra tutta femminile che sta ottenendo riconoscimenti a livello internazionale. Una piccola rivoluzione in un Paese dove, al di la delle grandi città, la condizione femminile è ancora terribile.

Vi proponiamo il reportage “Il coraggio della Musica” di Sabrina Scampini e Danilo Bianchi realizzato dal ministero della Difesa, dal contingente italiano in Afghanistan e dall’Istituto affari internazionali.

In Afghanistan bisogna rompere il silenzio sui bambini ridotti in schiavitù

Anuj Chopra, Afp, Francia  Internazionale – 30 marzo 2017

135604 md 300x200Finalmente il suo telefono ha squillato. Ci provavo da un sacco di tempo. Ero seduto nel giardino della sede di Kabul dell’Afp per avere una ricezione migliore sul cellulare, nel disperato tentativo di raggiungere un uomo nella remota provincia dell’Uruzgan. Suo figlio adolescente, mi avevano riferito alcuni anziani, era stato rapito da un comandante della polizia perché diventasse il suo schiavo sessuale.

Mi ero quasi arreso quando la chiamata finalmente è partita, con una suoneria islamica dal tono metallico al posto del messaggio in pashtun che significava “numero non raggiungibile” che ero ormai stufo di sentire.

Con mia grande delusione, però, quando ha risposto si è rifiutato di parlare, forse per paura, o magari per vergogna. “Il tuo articolo non cambierà niente”, mi ha detto attraverso la linea gracchiante, prima di riattaccare.

La storia che deve essere raccontata
Ascoltando gli uccelli che cantavano tra gli alberi, sono giunto a una conclusione. Stavo cercando di penetrare in un muro invisibile di silenzio. In quanto giornalista non mi sono mai sentito più solo di così nel seguire una storia. Una storia di cui nessuno vuole parlare. Una storia coperta da una nebbia di vergogna. Nei mesi successivi questo scenario si è ripetuto diverse volte mentre cercavo le vittime degli abusi sessuali sui minori. Ma sentivo di dover andare avanti. La storia doveva essere raccontata.

Poche settimane prima, nell’estate del 2016, avevo scritto come i taliban usassero i piccoli schiavi sessuali come cavalli di Troia per uccidere i loro molestatori tra le forze di polizia, una pratica che rende i bambini due volte vittime delle fazioni in guerra in Afghanistan.

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Galassia talebana: i taliban uzbeki

Enrico Campofreda dal suo Blog – 29 marzo 2017

talifight 1024x614Le trasformazioni in corso in seno alla famiglia dei taliban afghani possono aiutare a comprendere le tattiche e la strategia da loro attuate nell’ultimo biennio. Un periodo in cui questi particolari signori della guerra hanno ammesso la dipartita del mitico mullah Omar, celata per due anni, si sono riuniti per eleggere un successore, si sono divisi e contrastati. Hanno trovato la quadratura del cerchio nella nomina d’un nuovo leader (Akhtar Mansour), hanno risubìto una menomazione con la sua uccisione tramite un drone, con molti sospetti su possibili fughe di notizie verso la Cia che ha commissionato quell’eliminazione.

Un supporto probabilmente giunto dall’Intellegence pakistana, imbeccata dai turbanti pakistani dissidenti. Comunque il fronte talib non s’è perso d’animo. Velocemente ha nominato un nuovo capo (Haibatullah Akhundzada), proseguendo quella campagna d’attacco contro l’Afghan National Force per dimostrarne l’inconsistenza militare, smentendo coi fatti la narrazione occidentale sulla presunta normalizzazione del Paese e avanzando le proprie pretese politiche. I successivi passi di Ghani, che già dal 2015 aveva riavviato colloqui con la Shura di Quetta per una “pacificazione nazionale”, hanno cercato un’àncora nel fondamentalista Hekmatyar affinché fungesse da mediatore verso i colleghi islamisti.

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Erre come Resistenza: la lotta delle donne afghane per la pace

Camilla Mantegazza  thebottomup. it 29 marzo 2017

Sono le donne di RAWA, ma in ambienti non protetti è meglio chiamarle con una singola lettera: le “Erre”. L’acronimo RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) evoca infatti lotte incessanti, parole che profumano di democrazia, costanti richieste di un diritto alla pace. In Afghanistan, tutto questo è considerato come un nefasto influsso occidentale, da debellarsi al più presto, per rendere il Paese un perfetto stato islamico.

womens photojournalismFotografia di Camilla Mantegazza

RAWA fu fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal, un’attivista che lasciò l’università per intraprendere la sua battaglia contro l’oppressione delle donne. Meena fu uccisa il 7 febbraio del 1987, all’età di 30 anni, nella sua casa di Quetta, in Pakistan, per mano di un contingente della polizia segreta afghana, il KHAD. Meena, mai tornerò indietro è il libro edito dal CISDA – il coordinamento che da anni sostiene politicamente RAWA – che racconta la sua vita, il suo coraggio, le umiliazioni subite, la misoginia e l’oscurantismo religioso che hanno colpito il suo Paese. Dopo quasi 40 anni, le donne affiliate all’Associazione continuano a combattere la propria battaglia in clandestinità, in un Paese non ancora pacificato, in una situazione di pericolo costante.

Quelle che noi chiamiamo Erre hanno un nome e un cognome, una madre, un padre, un marito, a volte dei figli, anche se averne può essere pericoloso per la loro stessa incolumità. Hanno una casa, ma per questioni di sicurezza in modo pressoché costante cambiano residenza.

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Afghanistan: la guerra del poliziotto Massimo ai trafficanti di eroina

Paolo Salom, Kabul, Corriere della Sera  – 28 marzo 2017

125263 md 300x168Nel Paese la produzione di oppio è in aumento e raggiunge l’80 per cento del totale mondiale: in Europa l’emergenza cresce. Un poliziotto racconta la vita in prima linea: gli agenti afghani, gli agguati, i colleghi caduti sul campo.

La guerra di Massimo contro i signori della droga afghani non ha orari, non conosce festività e si svolge, come in quei giochi di intelligenza dove bisogna indovinare una figura immersa in un’altra, sullo sfondo del conflitto contro i talebani. «Gli scontri armati sono un dato di fatto che non si può ignorare — ci dice, seduto su un divanetto nel suo ufficio a Kabul —. Può capitare che un’operazione pianificata per settimane venga interrotta da un attentato che investe l’area dove stai per agire. Oppure i sospetti che stiamo seguendo improvvisamente si facciano scudo dei combattimenti che sbarrano la strada a interi distretti di questo immenso Paese».

Massimo è vicequestore della Polizia in forza alla Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa), ufficio interforze (Carabinieri, Polizia, Finanza) che porta la lotta al narcotraffico là dove ha origine. «Siamo in diverse sedi nel mondo — spiega al Corriere — e non svolgiamo soltanto un lavoro di prevenzione contro gli stupefacenti diretti in Italia ma siamo veri e propri esperti per la sicurezza che lavorano presso le rappresentanze diplomatiche».

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I principali eventi nei teatri di guerra che ISW (Institute for the study of war) monitora

Press ISWISW (Institute for the study of war) 24 marzo 2017

american soldiersQuesti sono i principali eventi dal 24 marzo 2017 nei teatri di guerra e relativi ai  vari gruppi trans-nazionali che ISW monitora:Siria, Iraq, Afghanistan, Egitto, Russia, Ukraina e ISIS

Afghanistan: L’azione della Russia di estendere la propria influenza sui Talebani e parallelamente collaborare ai colloqui di pace internazionali per far finire il conflitto afghano mira a controllare l’azione degli Stati Uniti in Afghanistan. Gli Stati Uniti annunciano che non parteciperanno ai colloqui a 12, che concernono il futuro dell’Afghanistan, organizzati dalla Russia a Mosca nell’aprile 2017.

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