Nel suo primo lungometraggio Wolf and sheep (2014), il lupo e la pecora, presentato alla Quinzaine di Cannes dove si è aggiudicata il Director’s Fortnight Award, la regista Sharhbanoo Sadat ha raccontato l’Afghanistan dei remoti villaggi nella provincia di Bamyian, quella delle statue dei Buddha distrutte dai Talebani nel marzo del 2001.
Il cuore dell’Afghanistan, o meglio dell’Hazaristan, la terra degli Hazara, l’etnia più bistrattata sia per motivi razziali che religiosi; enclave sciita nel profondo islam sunnita dell’etnia dominante, quella Pashtun.
In questi anni, in Afghanistan, se possibile, la situazione interna è peggiorata, con una recrudescenza del terrorismo. La produzione di papavero da oppio aumenta (+43% rispetto al 2015, 210mila ettari coltivati rispetto agli 82mila del 2002, 90% della produzione mondiale), la società afghana non sta avanzando attraverso i canoni di civiltà prospettati dall’occidente e le donne continuano ad essere le vittime sacrificali e ad indossare il burqa. Ci si chiede a che punto sia il cambiamento professato dalla dottrina americana per la campagna afghana dopo quindici anni: «Io sono il cambiamento» replica sicura Sharhbanoo Sadat che vive tra Kabul e la Francia un esempio di speranza per il futuro. «Provi ad immaginare, una donna di 27 anni che, di mestiere, fa la regista. Un tempo una cosa del genere non sarebbe stata possibile. Oggi l’Afghanistan è nel caos, il terrorismo sta minando la stabilità, gli internazionali vivono blindati in una ‘Green zone’ e sembrano incapaci di arginarne le conseguenze. Col regime dei talebani, tuttavia, sarebbe stato peggio e io adesso non sarei certo qui a parlare con lei. La libertà è un concetto fondamentale, ma non legherei l’intera faccenda essenzialmente a quante donne indossano il burqa e alla coltivazione del papavero da oppio.