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Autore: Anna Santarello

Turchia, il Parlamento inizia ad avallare il Partito-Stato.

Dal Blog – di Enrico Campofreda, 12 gennaio 2017.

akp erdoganPrimi ritocchi costituzionali votati dal Parlamento di Ankara. S’è iniziato con due riforme: la prima soft che aggiunge 50 deputati ai precedenti 550, ed è giustificata dall’aumento del numero degli elettori. L’altra risulta già più invasiva, entrando nel merito del lavoro dei magistrati. Così l’articolo 9 della Carta perde l’aggettivo “imparziale” e diventa: “Il potere giudiziario deve essere esercitato da Corti indipendenti (imparziali non c’è più) a nome della nazione turca”. Entrambe le modifiche sono state approvate con un margine superiore ai 330 voti necessari (347 favorevoli, 132 contrari, 2 bianche, 2 astenuti, 1 voto non valido).

Erano assenti 66 onorevoli: tutti e 59 quelli del Partito democratico dei popoli, che protesta contro gli arresti considerati indebiti di suoi membri, compresi leader Demirtaş e Yüksekağ, più altri 7 deputati. Gli articoli che riformano la Costituzione sono ventuno, saranno al vaglio del Meclis durante il mese in corso.
Qualora i voti favorevoli a un articolo dovessero superare i 367 consensi questo entrerebbe direttamente nella nuova Carta, senza bisogno della verifica referendaria. Ovviamente una bocciatura al di sotto delle 330 preferenze escluderebbe senza appello l’emendamento. Il grande sostegno che il partito di maggioranza, Akp, sta ricevendo per attuare il progetto presidenzialista che sta a cuore a Erdoğan giunge dai nazionalisti del Mhp, ma la somma dei deputati dell’una (316) e dell’altra sponda (39) non consente di toccare quel quorum che potrebbe essere raggiunto solo con un supporto proveniente dalle opposizioni, socialdemocratica e kurda. Entrambe fanno quadrato contro un disegno favorevole a una specie di Partito-Stato che mette nell’angolo il sistema parlamentare.

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La speranza dell’Afghanistan.

Riforma.it – di Matteo De Fazio – 12 gennaio 2017.

soldier 60707 1280Un paese indebolito da 40 anni di conflitti in cui è difficile vedere il futuro.

Dopo una recente inchiesta, gli Stati Uniti hanno ammesso la responsabilità della morte di 33 civili durante un’operazione militare nel villaggio di Boz, nella provincia di Kunduz, nel novembre 2016. Sono ancora diecimila le unità militari statunitensi presenti nel paese, in una guerra “lampo” che va avanti dal 2001.

Ora l’esercito statunitense invierà altri 300 marines per addestrare le forze afghane nella provincia di Helmand ed è notizia di questi giorni che la Nato abbia inviato 200 soldati nella provincia occidentale di Farah, dove nei mesi scorsi si sono intensificati gli scontri con i talebani.
Secondo le analisi militari, la forza talebana ha ripreso piede dopo la fine della missione Nato nel 2014, detenendo la maggior parte del territorio nella provincia di Helmand da dove i gruppi attaccano gli altri distretti.

Una situazione drammatica che ancora una volta ricade sulle spalle della popolazione civile, come testimonia il costante lavoro di Emergency, presente dal 1999 in un Paese nel quale ha costruito un centro chirurgico e un centro di maternità ad Anabah, nella valle del Panshir, un centro chirurgico a Kabul, un ospedale a Lashkar-gah e una rete di centri sanitari e di primo soccorso. Ne parliamo con Manuela Valenti, pediatra dell’organizzazione.

L’invio e lo spostamento di truppe occidentali ci dice che si sta aprendo un nuovo fronte o semplicemente siamo davanti a un luogo di conflitto già conosciuto?

«Non c’è stata mai nessuna chiusura di nessun fronte, e quindici anni di guerra non hanno portato a nessun miglioramento per le condizioni della popolazione: non hanno portato strade, infrastrutture, scuole o sanità, cose di cui il paese aveva bisogno. Non dimentichiamoci che l’Afghanistan era già in guerra ben prima dell’invasione statunitense del 2001: almeno dal 1979, prima per l’invasione sovietica e poi per gli attacchi talebani. Quasi quarant’anni di conflitto hanno destabilizzato completamente il Paese. Negli ultimi quindici anni gli scontri non si sono mai ridotti, ma anzi, nei nostri ospedali, soprattutto Kabul o Lashkar-gah, che si trova in una delle provincie più interessate dai conflitti, abbiamo registrato un incremento di vittime, soprattutto civili».

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Afghanistan, ispettore Usa lancia allarme: “Talebani conquistano territorio e comprano armi da esercito di Kabul”

IlFattoQuotidiano.it – 12 gennaio 2017

talebani 675Nel novembre 2015 le istituzioni afgane sostenevano di avere il controllo del 72% del territorio nazionale. Una percentuale scesa al 63,4% nell’agosto 2016. Intanto arriva un’ammissione di colpa degli Stati Uniti per la morte di 33 civili, uccisi in un bombardamento a Kunduz, durante uno scontro con i fondamentalisti, nel novembre 2016.

I talebani in Afghanistan guadagnano territorio. E comprano equipaggiamento, armi, munizioni e carburante direttamente dai soldati dell’esercito afghano. Lo ha denunciato John Sopko, ispettore generale dell’organismo americano che supervisiona la ricostruzione (SIGAR), in occasione di un intervento nel Centro per gli studi strategici e internazionali, presentando un rapporto sui rischi che sta correndo in Afghanistan il processo di stabilizzazione.

L’ispettore ha lanciato un allarme sulle conquiste territoriali realizzate dalle forze antigovernative. Nel novembre 2015 il governo di Kabul sosteneva di avere il controllo del 72% del territorio nazionale. Una percentuale scesa al 63,4% nell’agosto 2016. Nel documento, Sopko ha sottolineato anche che lo sforzo delle forze di sicurezza afghane per sottrarre agli insorti aree strategiche del Paese ha causato molte decine di soldati misteriosamente scomparsi. Infine, l’ispettore generale ha presentato una lista dei maggiori rischi che ostacolano in Afghanistan il successo della ricostruzione nazionale. Fra questi, la corruzione, l’impossibilità di consolidare i successi ottenuti, l’incapacità del governo afghano di gestire in maniera efficace il suo budget e la cattiva gestione dei contratti.

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Afghanistan,Onu:1/3 ha bisogno di aiuto.

RAI News – 10 gennaio 2017

campoAshrafAlmeno un terzo della popolazione afghana, ossia 9,3 milioni di persone, avrà bisogno quest’anno di assistenza umanitaria. Lo rivela un rapporto Onu sottolineando che questa cifra è in aumento del 13% rispetto al passato a causa della “estensione geografica e inasprimento del conflitto”.
L’allarme è stato lanciato anche perché – si dice – migliaia di bambini stanno morendo di fame, e un numero enorme di persone sono costrette ad abbandonare le loro case.

Solo nello scorso novembre esse sono state 500.000.

La rivoluzione delle donne in Rojava: vincere il fascismo costruendo una società alternativa.

Dinamopress – di di Dilar Dirik* – 11 gennaio 2017

 media rokgallery 4 462cb7f5 aef1 4bfe 823c ea7aec965563 d30f84ed 7d92 4b21 f746 f1a6a45bf734Le vediamo spesso su Internet o sulle pagine dei giornali: le donne curde non stanno combattendo solo l’Isis sui monti del Rojava, stanno anche distruggendo il sistema patriarcale.

La resistenza contro lo Stato Islamico a Kobane ha fatto conoscere al mondo la causa delle donne curde. Con la loro tipica miopia, i media non hanno preso in considerazione le radicali implicazioni del loro gesto, ovvero l’essere pronte ad abbracciare le armi in una società patriarcale, e per di più contro un gruppo che sistematicamente stupra e vende donne come schiave sessuali, anzi, persino riviste di moda si sono appropriate della lotta delle donne curde per i loro scopi sensazionalisti.

Le combattenti più “attraenti” finiscono nelle interviste e nei servizi che ne fanno poi un’immagine esotica da toste amazzoni. La verità è che, per quanto possa essere affascinante – soprattutto in una prospettiva orientalista – scoprire una rivoluzione femminile tra i curdi, la mia generazione è cresciuta riconoscendo le donne combattenti come parte della nostra identità.

L’Unità di Difesa Popolare (curdo: Yekîneyên Parastina Gel, YPG) e l’Unità di Difesa delle Donne (curdo: Yekîneyên Parastina Jin, YPJ) di Rojava, regione a maggioranza curda nel nord della Siria, affrontano il cosiddetto “stato islamico” da due anni e stanno opponendo una strenua resistenza nella città di Kobane. All’incirca il 35 per cento dei combattenti, un numero stimato di 15.000, sono donne.
Fondata nel 2013 come un’armata delle donne indipendente, il YPJ dirige autonomamente operazioni e addestramenti. Ci sono centinaia di brigate femminili sparse nel Rojava. Quali sono le motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobane non è caduta? La risposta si trova nella radicale rivoluzione sociale che accompagna i loro fucili di autodifesa.

Innanzitutto bisogna analizzare le implicazioni di stampo patriarcale, nella guerra e nel militarismo, per comprendere la natura della lotta delle donne contro l’ISIS e della sistematica guerra condotta dall’ISIS contro le donne. Normalmente, in guerra, le donne vengono percepite come parti passive nei territori difesi dagli uomini, mentre al contempo il sistematico ricorso alla violenza sessuale è strumento di dominio e umiliazione del nemico. Essere militante è “non-femminile” (un-womanly); scavalca le norme sociali e mina lo status quo. La guerra è vista come una questione maschile: suscitata, condotta e conclusa da uomini.
Che “combattente” possa dunque essere anche donna, crea disagio generale. Nonostante la tradizionale divisione di genere esemplifichi e idealizzi le donne come delle sante, la punizione è altrettanto feroce una volta che abbiano osato violare il ruolo prestabilito. Questo è il motivo per il quale tante donne combattenti, ovunque nel mondo, sono soggette a violenza sessualizzata in quanto combattenti in guerra o prigioniere politiche. Come molte femministe hanno indicato, lo stupro e la violenza sessuale hanno poco o nulla a che vedere con il desiderio sessuale, ma sono strumenti per dominare e imporre la propria volontà su un’altra. Nel caso delle donne militanti, il fine della violenza sessualizzata, fisica o verbale che sia, è di punirle per essere entrate in una sfera maschile.

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Afghanistan, libero il signore delle torture.

Dal Blog di Enrico Campofreda – 11 gennaio 2017.

desaparecidosSi chiama Assadullah Sarwari, è stato a suo modo un signore della guerra, fedele esecutore e sterminatore degli oppositori, alcuni testimoni sostengono anche con le proprie mani. Sopravvissuto a tutto: invasioni, guerra civile, vendette, pena capitale, ergastolo, galera.

Da qualche giorno può girare liberamente nell’Afghanistan che per realismo politico, e per cavilli legali, favorisce i colpi di spugna. Sebbene la pena inflitta l’abbia scontata, grazie però ai vari sconti ricevuti
La sua storia va a ritroso fino al 1978, quando Sarwari aveva 27 anni ed era membro del Partito comunista afghano, ala Khalq in costante lotta con un’altra componente del partito chiamata Parcham. Dall’aprile 1979 l’uomo gestiva l’Intelligence nazionale e nel settembre partecipò al complotto per assassinare il premier dell’epoca Hafizullah Amin.

La trama fallì e lui riparò in Unione Sovietica. A seguito dell’intervento delle truppe di Mosca che invasero l’Afghanistan nel dicembre 1979, Sarwari tornò in patria, ricoprendo incarichi di vice presidente, vice premier e ministro dei trasporti del governo filo sovietico di Babrak Karmal. Ma la carriera, sviluppata all’ombra dell’ultimo protettore, durò poco. Nel 1980 Karmal lo rimosse dall’incarico spedendolo a far l’ambasciatore in Mongolia.

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Attentati al parlamento di Kabul e a Kandahar, quasi 50 morti e decine di feriti

RAI News – 10 gennaio 2017.

310x0 1484064118807.rainews 20170110165953993Attacco al cuore dello stato a Kabul. Due esplosioni anche a Kandahar, 9 morti e numerosi feriti.

Un duplice attentato rivendicato dai talebani ha colpito Kabul oggi provocando la morte di circa 38 persone e il ferimento di un’ottantina. L’attacco, con una bomba e un kamikaze, è avvenuto nei pressi del Parlamento e il ministero della Salute ha sottolineato che il bilancio potrebbe salire perché molti feriti sono in gravi condizioni. Poche ore dopo a Kandahar in un hotel dove si trovavano il governatore della città afgana e diplomatici degli Emirati Arabi si sono verificate due esplosioni: si contano almeno nove morti e diversi feriti.

Secondo i media locali, citati da Sputnik, anche il governatore e un diplomatico sono tra i feriti. La spirale di violenza nel Paese è in aumento. L’attentato di oggi a Kabul è avvenuto a poche ore dall’attacco kamikaze talebano che ha ucciso sette persone a Lashkar Gah, capitale della fragile provincia sudorientale dell’Helmand.
Nel duplice attentato di Kabul sono stati colpiti i dipendenti che uscivano dal Parlamento e anche un deputato, Rahima Jami. “Un kamikaze a piedi ha causato la prima esplosione, uccidendo e ferendo diversi lavoratori innocenti – ha spiegato una delle guardie di sicurezza del Parlamento, Zabi, anche lui ferito – La seconda era un’autobomba.

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Risoluzione su Kobane approvata dal consiglio comunale di Firenze.

UIKI – 10 gennaio 2017.

firenze 1024x518 599x275RISOLUZIONE n. 01008 /2015 – Proponenti: Tommaso Grassi, Donella Verdi, Giacomo Trombi
Oggetto: per l’avvio delle procedure che conducono, al Gemellaggio con la Città di Kobane

IL CONSIGLIO COMUNALE DI FIRENZE

PREMESSO CHE

  • Kobane, città curda simbolo della resistenza all’avanzata dello Stato Islamico, situata nel nord della Siria ai confini con la Turchia, ai primi di ottobre del 2014 era stretta d’assedio dalle forze dell’ISIS che si muovevano da sud e da ovest finché, penetrate nei sobborghi della città, sono state costrette a combattere casa per casa dai resistenti curdi, giungendo il 12 ottobre a conquistare l’80% circa dell’intera area urbana prima di essere costrette a un parziale arretramento a causa dell’efficace contrattacco dei Curdi di ambo i sessi che giorno e notte difendono la città
  • il 26 gennaio 2015, dopo oltre quattro mesi di combattimenti e circa 2.000 morti, le forze Curde riconquistano la città, grazie anche al sostegno della coalizione internazionale;
  • il 26 giugno 2015 i miliziani dell’Ypg hanno ripreso il controllo della città al confine con la Turchia, da mesi sotto l’assedio dell’Esercito islamico che aveva ripreso il controllo della Città di Kobane

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NOI, MINORI AFGHANI DI ATENE, COSTRETTI A PROSTITUIRCI CON GLI ANZIANI PUR DI SOPRAVVIVERE.

The Post Internazionale – di Fernanda Pesce Blazquez – 10 gennaio 2017.

minori afghani si prostituiscono atene orig mainBloccati nella capitale, migliaia di minori stranieri non accompagnati vendono il loro corpo agli anziani, a cifre irrisorie, per sostenersi e poter lasciare la Grecia.

ESCLUSIVO DA ATENE – Amir è un ragazzo afghano di 16 anni e ha un grande sogno: diventare medico. Ogni notte attraversa la strada, attento a non farsi vedere, e con un gruppo di amici si addentra nel buio di un parco di fronte al campo profughi di Elliniko, nel quale vive da mesi, alla periferia di Atene.
Ma lui e i suoi compagni non giocano a nascondino in mezzo alla boscaglia. Aspettano i clienti. Ogni notte si prostituiscono per meno di trenta euro, sotto gli occhi del governo greco, che gestisce il campo e fa finta di non vedere.

Dietro un albero, ben nascoste, le decine di preservativi e fazzoletti usati sono il racconto di quello che accade tra i cespugli quando cala il sole. All’interno di questa cornice desolante avvengono gli incontri tra i minori non accompagnati, provenienti dall’Afghanistan, e gli uomini greci, perlopiù anziani, in cerca di rapporti sessuali a pagamento.

“La prima volta è successo nei pressi di piazza Syntagma, in pieno centro. Un vecchio mi si è avvicinato e mi ha fatto l’occhiolino. Solo dopo ho capito”, racconta Amir, seduto su una delle panchine del parco. “A volte mi toccano. Mi si siedono accanto e mi stringono il braccio per farmi capire che vogliono venire a letto con me. Guarda, ti faccio vedere come fanno”.

Amir mima il gesto, sorride nervosamente e non si sofferma troppo sui dettagli. È visibilmente spaventato. Chiede di non essere immortalato in viso e di falsificare la sua identità. Nessuno deve scoprire quello che fa quando esce dal recinto del campo di Elliniko.

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Escalation bellica in Afghanistan: a Helmand tornano i Marines.

AD Analisidifesa -9 gennaio 2017

2 360x245Una media di 70 persone sono morte o sono rimaste ferite quotidianamente negli ultimi cinque mesi in Afghanistan, con un importante picco in ottobre. Lo riferisce l’agenzia di stampa Pajhwok, precisando che questo bilancio è andato via via attenuandosi con la fine della stagione dei combattimenti causata dal duro inverno afghano.

Secondo un rapporto preparato dall’agenzia sulla base di differenti fonti, 5.887 persone sono state uccise e 4.410 hanno riportato ferite in 777 attacchi realizzati negli ultimi cinque mesi del 2016. Metà di questi attacchi sono avvenuti in solo sei delle 34 province afghane: Nangarhar, Helmand, Kandahar, Faryab, Kabul e Farah. Infine il rapporto segnala che la maggior parte delle vittime sono state causate da scontri ravvicinati e da bombardamenti aerei o di artiglieria.

L’escalation della pressione talebana (di cui AD si è occupata anche nei giorni scorsi con dati aggiornati sulle perdite alleate) sta costringendo le forze alleate dell’Operazione Resolute Support (che ha compiti di addestramento, assistenza e consulenza per le forze di sicurezza afghane) a tornare sempre più spesso a operare in prima linea in appoggio alle truppe afghane.

In ottobre gli italiani (che schierano ancora quasi un migliaio di militari a Herat con forze speciali, fanteria aeromobile, consiglieri militari e 8 elicotteri tra A-129D Mangusta e multiruolo NH-90) sono intervenuti in modo decisivo nella pianificazione e supporto di una duplice controffensiva tesa ad alleggerire la pressione talebana su Farah City, capoluogo dell’omonima provincia, una delle più importanti per la produzione di oppio.

La battaglia ha avuto scarsa eco in Italia ma il reportage di Ettore Guastalla per Rai News 24 ha riferito di centinaia di perdite tra gli insorti.

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