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Autore: Anna Santarello

Mosul, liberazione e incertezza.

Dal Blog di Enrico Campofreda – 18 ottobre 2016

iraq mosul exportTutti insieme, però divisi verso Mosul. Iracheni, kurdi – in prevalenza i peshmerga di Barzani, ma a nord-ovest anche i guerriglieri del Pkk -, milizie sciite filo iraniane, turchi, e nei cieli bombardieri statunitensi e della coalizione Nato, italiani compresi. Tutti, addirittura novantamila, contro lo Stato Islamico, che perde territorio (circa il 20% nelle ultime settimane) e organizza una resistenza basata su autobomba e civili usati, contro la loro volontà, come scudi umani.
I sette-ottomila miliziani di Al Baghdadi attuano una graduale ritirata strategica a ovest verso il conteso territorio siriano, approfittando di un paio di corridoi lasciati liberi dagli attaccanti e già oggetto di contestazione.

È lo scenario che da ieri appare sotto gli occhi di osservatori e commentatori e potrà durare giorni o settimane. L’obiettivo ha un valore simbolico e parzialmente strategico, l’elemento prezioso rappresentato dalla diga sul Tigri era già nelle mani della coalizione anti Isis, che lì aveva dislocato la Brigata Aosta dell’esercito italiano.

E ci s’interroga sul dopo riconquista, sui differenti obiettivi dell’avanzata, sui disegni di ciascun attore che non collimano e in alcuni casi confliggono con quelli altrui. Perché l’Iraq del post Saddam, invaso e stuprato dagli Stati Uniti – chi non ricorda le bombe al fosforo bianco sganciate su Falluja e l’inferno della prigione di Abu Ghraib – divenne territorio conteso fra etnie, tendenze religiose con tanto di riferimenti interni (i gruppi paramilitari sunniti filo qaedisti come Ansar al-Islam e i loro contendenti mujaheddin) e di sostegni esterni.

Gran parte dell’apparato militare baathista traghettato nel dopo Saddam s’è collocato dentro gruppi armati come quelli citati e altri ancora, misurandosi in un fratricida controllo del territorio. Per questo motivo la soluzione di compromesso che aveva visto nel 2005 le istituzioni divise fra una presidenza nazionale offerta a un politico kurdo, il premierato a un esponente sciita e la presidenza del parlamento assegnata a un sunnita, una sorta di soluzione alla libanese con la differenza della voluttuosa presenza di pozzi petroliferi, non riuscì a sanare una situazione che restava esplosiva.

Per lo stillicidio di sanguinosissimi attentati e scontri tra fazioni, incentivata dall’esclusione dalle decisioni e dalla gestione socio-economica che la componente sunnita ha continuato a rivendicare durante i governi di al-Maliki, dopo la scelta federale. Quest’ultima garantisce lo sfruttamento delle risorse del territorio che in fatto di riserve energetiche favoriscono le zone abitate dalle comunità kurda e sciita. Anche dopo il ritiro degli eserciti occupanti Nato (2011) la vita civile ha incontrato l’ostacolo d’una viscerale lotta per il potere; e l’auto emarginazione della popolazione sunnita, che ha in varie circostanze boicottato le elezioni, ha ulteriormente isolato i suoi rappresentanti nell’amministrazione statale. La conseguente frustrazione, il mantenimento di un’elevata conflittualità hanno creato terreno favorevole alle posizioni fondamentaliste rappresentate dal nuovo jihad col marchio del Daesh, finito con le bandiere nere sventolate nella popolosa città e il proclama dell’autonominato Califfo.

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Dopo la Turchia l’Afghanistan. L’Europa ai saldi dei diritti umani.

Vita di Marco Ehlardo – 17 ottobre 2016

4 donne cn bimbiA fronte di centinaia di miliardi di euro ricevuti in questi anni dal governo afghano, la situazione in quel Paese, negli anni, non è migliorata. Sul fronte dell’emigrazione, oggi gli afghani rappresentano la seconda nazionalità per domande di asilo in Europa

Nella recente Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan, l’Unione Europea ed il governo afghano hanno raggiunto un accordo per il rimpatrio di richiedenti asilo afghani presenti nel nostro continente. Subito dopo, l’UE ha stanziato altri 5 miliardi di euro di “aiuti allo sviluppo” per quel Paese. L’accordo sui migranti prevede il rimpatrio, quando non volontario anche forzato, di richiedenti asilo la cui richiesta sia stata respinta. Si prevede sì un limite di 50 rimpatriati per ogni volo (solo per i primi 6 mesi), ma nessun limite sul numero dei voli, ergo potenzialmente il numero di rimpatriati non avrà limiti.

Ora, ci sarebbe già da discutere sul fatto che le centinaia di miliardi di euro ricevuti in questi anni dal governo afghano (da oltre 70 nazioni, non solo UE) non sempre si sono rivelati un “aiuto”, tantomeno “allo sviluppo”, visto che la situazione in quel Paese, negli anni, non solo non è migliorata, ma è addirittura peggiorata. Ci sarà un motivo se gli afghani rappresentano la seconda nazionalità per domande di asilo in UE. Ma le cose che ritengo inquietanti di questo accordo, come di quello con la Turchia, sono soprattutto altre due. La prima riguarda la possibilità di rimpatriare cittadini afghani.

Nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati esiste un principio detto di non refoulement (non respingimento) secondo cui a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può esso essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. Per effetto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il divieto di refoulement si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia stata riconosciuta rifugiata e persino dall’aver quest’ultima formalizzato o meno una domanda diretta ad ottenere tale riconoscimento; dunque, in sostanza, è un divieto di qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un paese non sicuro.

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Afghanistan, rimpatrio forzato: qualcuno ci pensa.

Geat Game – 17 ottobre 2016

cameraAtto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-14498
presentato da
MARCON Giulio
Venerdì 14 ottobre 2016, seduta n. 692

MARCON. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale.

— Per sapere – premesso che:
recentemente l’Unione europea ha intrapreso una strada che potrebbe segnare un grave precedente e un punto di non ritorno nelle politiche migratorie: rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il riferimento è al recente nuovo accordo tra Unione europea ed Afghanistan, il « Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU» firmato a Kabul, al Palazzo presidenziale il 2 ottobre e il suo nesso con la Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è chiusa il 6 ottobre, con la promessa di nuovi sussidi economici al Paese (altri 15,2 miliardi di euro);

per la prima volta infatti si fa un accordo di riammissione forzata con un Paese in una situazione di conflitto conclamato. Nello specifico, l’intesa dice che i cittadini afghani che non hanno base legale per restare in uno Stato membro dell’Unione, verranno rimpatriati nel loro Paese d’origine: si prediligerà il «ritorno volontario» altrimenti si procederà con i «rimpatri forzati» anche di massa;
gli afghani sono il secondo gruppo per numero di richiedenti asilo giunti nell’Unione europea – sia nel 2015 che nei primi otto mesi del 2016, ora si trovano al centro di un accordo su rimpatri, riammissioni e reintegri;

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Afghanistan, il tempo dei talib

dal Blog di Enrico Campofreda -12 Ottobre 2016

taliban riunitiInfilarsi nel colabrodo dei controlli predisposti dall’Afghan National Forces e colpire è diventato una gara aperta fra le componenti del combattentismo afghano. Chi abbia colpito ieri sera la comunità sciita raccolta davanti a una moschea di Kabul (13 vittime e una cinquantina di feriti) è ancora impossibile sapere: manca una rivendicazione e una nota governativa si limita a solidarizzare coi familiari delle vittime e stigmatizzare l’ennesimo attacco mortale.

Non è, però, in grado di evitare spargimenti di sangue. Anzi, una voce dell’Intelligence interna rivela all’emittente Tolo tv che si temono nuovi attentati per le celebrazioni dell’Ashura (la festa sciita in cui si ricorda la morte di Hussein, nipote del profeta). In contraddizione con questi timori non si comprende perché ieri, in occasione dell’arrivo di centinaia di fedeli, la moschea in altre occasioni presidiatissima risultasse poco vigilata. Lo sostenevano ai microfoni della tivù afghana alcuni feriti. L’ipotesi che nelle file del fondamentalismo sunnita ci sia chi vuole innescare un conflitto religioso con la minoranza hazara (di fede sciita) era stata già avanzata nella scorsa estate in occasione della strage (oltre ottanta vittime) che aveva colpito questa comunità riunita in corteo per le vie della capitale.

Se si tratti di talebani dissidenti che si sono avvicinati all’Isis oppure di quel fondamentalismo deobandi, comunque presenta fra alcuni clan taliban, non è tuttora chiaro. Sebbene negli scossoni, non senza conflittualità, che hanno attraversato quella galassia negli ultimi diciotto mesi per rimpiazzare alla guida il defunto mullah Omar, anche gli irriducibili della rete di Haqqani s’erano accordati coi mullah di Quetta per una strategia unitaria.

E questa da tempo non prevede fratture etniche né religiose.
Certo, gli hazara sono sempre trattati come paria dai gruppi tribali pashtun, ma un’offensiva interna mirata contro gli sciiti non era all’ordine del giorno. Almeno finora. Indiziati i guerriglieri irriducibili Tehreek-e Taliban, schierati col disegno del Daesh e sostenuti dell’Isi pakistana. Oppure, facendo un’escursione nel passato, qualche miliziano di Hekmatyar, lo storico massacratore di hazara all’epoca della guerra civile interna. Ma quest’ultima è un’ipotesi poco credibile. Hekmatyar ha appena firmato un patto col governo d’Unità Nazionale, s’appresta a essere un interlocutore dei talebani disposti al dialogo con Ghani così da finire imbarcati in un governone aperto a tutti: amministratori filo occidentali, signori della guerra più o meno fondamentalisti, talebani. “Se non puoi battere il nemico, fattelo amico” sentenzia uno storico motto.

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Afghanistan: 15 anni di massacri in nome della “lotta al Terrore”

di Salvo Ardizzone, Informarexresistere.it – 11 ottobre 2016

savas 599x275In questi giorni è caduto il 15° anniversario dell’invasione Usa in Afghanistan; era il 7 ottobre del 2001 quando cominciò, meno d’un mese dopo l’11 Settembre: con la bugiarda scusa della “lotta al Terrore”, Washington inaugurò un ciclo sciagurato di guerre d’aggressione con cui la Superpotenza riteneva di poter imporre il proprio ordine a un mondo allora ancora unipolare dopo il crollo dell’Urss.

Dietro il risibile paravento dell’esportazione della “Democrazia” a Stelle e Strisce, erano due gli obiettivi fondamentali: uno politico, ovvero assicurarsi che nell’enorme blocco dell’Eurasia non emergessero competitor, né si affermassero aree indipendenti alla sua pretesa egemonia globale; un altro economico, vale a dire avere libero accesso alle risorse di quell’area sterminata, e impedire che qualcuno ostacolasse i suoi interessi.

Ormai sono passati 15 anni, le guerre si sono succedute alle guerre, e Washington stenta sempre di più a imporre il proprio dominio a un mondo divenuto multipolare. Dalle crisi sanguinose scatenate dagli Usa e dai suoi alleati del Golfo, sta emergendo un nuovo Medio Oriente che stravolge gli antichi equilibri funzionali a Washington ed a Riyadh con i loro satelliti, e dai confini dell’Europa, passando per l’Asia Centrale e fino al Pacifico, la rinnovata forza di Mosca e soprattutto l’affermarsi di Pechino, stanno mettendo in discussione l’ordine e l’egemonia dello Zio Sam.

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Droga e militari italiani in Afghanistan, il servizio delle Iene VIDEO

di Redazione Blitz, 12 ottobre 2016

droga afghanistan le iene 300x167Clicca qui per guardare il servizio.

ROMA – “Droga e militari italiani in Afghanistan“: questo il servizio delle Iene – firmato Marco Maisano – che svela un traffico di droga tra l’Afghanistan e l’Europa. Traffico di droga gestito da alcuni militari. Secondo quanto rivela un ufficiale dell’Aeronautica, la droga arriverebbe dall’Afghanistan attraverso i carichi di armi.

Il militare, intervistato da Maisano, confessa che tutti sanno della situazione, compresi i vertici, e ammette che più volte alcuni militari sono stati in missione mentre erano sotto l’effetto della droga.

Maisano va a Kabul ed ascolta alcune persone del luogo che conoscono il traffico di stupefacenti ma non ne conoscono a fondo le dinamiche. Poi c’è il racconto di un ragazzo che è sicuro di aver venduto droga ai militari. Il ragazzo racconta il giro che potrebbe fare il carico di droga prima di arrivare in Italia ed in Germania.

Accordo Ue-Afghanistan per rimpatriare i migranti: “Pericoloso precedente”

dire.it – 7 ottobre 2016

migranti 300x200ROMA – Rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il senso del nuovo accordo tra l’Unione europea e l’Afghanistan sarebbe proprio questo. Da Bruxelles si susseguono le smentite ma in molti hanno sottolineato il nesso tra il Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU firmato il 2 ottobre e la Conferenza internazionale sull’Afghanistan che si è chiusa ieri, con la promessa di nuovi sussidi economici al paese (altri 16 miliardi di euro). C’e’ chi parla senza mezze misure di un pericoloso precedente: per la prima volta infatti si fa un accordo di riammissione forzata con un paese in una situazione di conflitto.

“Dopo di questo non ci sono piu’ limiti“, dice Cristhopher Hein, consigliere strategico del Consiglio italiano rifugiati ed esperto di diritto internazionale.

Cosa dice l’intesa tra Ue e Afganistan

Nello specifico, il documento dice che i cittadini afgani che non hanno base legale per restare in uno stato membro dell’Unione, verranno rimpatriati nel loro paese d’origine: si prediligera’ il “ritorno volontario” altrimenti si procederà con i “rimpatri forzati” anche di massa.

Nel testo si parla di un numero massimo di 50 rimpatriati a volo, per i primi sei mesi. Non c’e’ invece un limite al numero dei voli. Le due parti sottolineano inoltre la volonta’ di esplorare la “possibilità di costituire un apposito terminal aeroportuale a Kabul per questo scopo”.

Esclusi dall’intesa, invece, i minori non accompagnati, che non saranno rimpatriati se non verranno prima rintracciati i familiari o se in Afghanistan non ci sono adeguate condizioni di accoglienza. Infine, sono previste misure di sensibilizzazione verso la popolazione “sul pericolo della migrazione irregolare”.

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Progetto Casa delle Donne di Kobane

dal sito di UIKI – 10 ottobre 2016

casadonnekobane 599x275Il progetto prevede la costruzione di un edifico di 1500 mq sviluppato su tre piani.

Finanziato con un contributo dell’otto per mille della Chiesa Evangelica Valdese sarà costruito da imprese locali e gestito dalle donne di Kobane che gestivano la Casa delle Donne prima che fosse abbattuta da Isis.

Sarà un centro internazionale per scambi di saperi e di buone pratiche, ma anche di prevenzione della salute delle donne e di bambini/e e empowerment. Il progetto gestito dall’associazione Pontedonna vede come partner Lucha y Siesta, Koerdisch Instituut di Bruxelles e UIKI Onlus.

La Casa delle Donne di Kobane rientra nel progetto di ricostruzione del Rojava distrutto da Isis e risponde ai principi democratici del Patto Sociale della Carta del Rojava.

Maggiori informazioni su Progetto Casa delle donne di Kobane e sulla pagina facebook PonteDonna Kobane.

Le donazioni in denaro ci possono pervenire anche tramite bonifico
Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia – UIKI ONLUS
IBAN: IT 89 Z 02008 05005 000102651599
BIC SWIFT: UNICRITM1002
Causale: Casa Donne

CONTATTI : info@uikionlus.com, info@pontedonna.org, segreterialys@gmail.com
-Per richieste d’informazione (powerpoint file, ect…), organizzare presentazioni ect…

UIKI: La guerra di Erdogan contro la libertà di stampa arriva in Italia

dal sito di UIKI – 12 ottobre 2016

uiki onlusLa guerra del AKP contro i media Curdi e dell’opposizione democratica contro il Regime continua.
Ancora una volta dobbiamo denunciare l’assordante silenzio che sta interessando i media Internazionali e Italiani su i recenti avvenimenti che hanno visto coinvolto anche il territorio italiano. Un Silenzio che ancora una volta si trasforma in complicità.

Una tv curda, Med Nuce, che trasmetteva dal Belgio ma che ha sede legale in Italia, è stata oscurata nei giorni scorsi per effetto di pressioni arrivate dalla Turchia.

Un segnale gravissimo che segue la dura repressione successiva al tentativo di colpo di Stato che ha ulteriormente aggravato la drammatica situazione democratica in Turchia. Repressione che non ha risparmiato il mondo degli accademici, degli intellettuali, i rappresentanti politici curdi e gli attivisti ed in genere le forze democratiche che hanno espresso un forte rifiuto del ritorno ad uno stato di guerra e che si sono visti invece colpire da un’ondata senza precedenti di arresti per reati d’opinione.

Di seguito al recente colpo di Stato, la volontà di controllare i media da parte dello Stato fascista turco di Recep Tayyip Erdogan ha rafforzato gli episodi continui di censura con l’obiettivo di eliminare e silenziare tutti i mezzi di Comunicazione che raccontano la guerra sporca in corso in Turchia.
In queste settimane per questo sono stati arrestati centinaia di giornalisti, corrispondenti, e proprietari di media; piu di 12 canali televisivi e 11 stazioni radiofoniche sono state chiuse. Tra di queste sono state colpite in maniera particolare Zarok TV (canale curdo per bambini), TV 10 (il pubblico di destinazione sono gli aleviti), Jiyan TV (favorisce il dialetto curdo in pericolo il”Kirmancki”) e Hayat TV (focalizzato sulla classe lavoratrice e i suoi problemi).

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Il Report della delegazione Italiana in Kurdistan Basur

dal sito di UIKI – 5 ottobre 2016

mahmura 599x275CAMPO DI MAKHMUR

Il campo aperto nel 1998, ospita 13.000 kurdi fuggiti dalla Turchia nel 1993 e passati, prima di arrivare a Makhmur, attraverso vari campi.
Incontriamo in mattinata l’attuale co-sindaco sig. Mehmet, l’ex sindaco Polat, Zeinet responsabile internazionale del campo, sig.ra Kashar resp.sanità e il co-sindaco Haci dell’Assemblea del Popolo. Dopo i rituali saluti, il co-sindaco ci informa che esistono contrasti con il governo federale di Barzani (kurdistan nord Iraq) perché i rifugiati sono vicini alle posizioni del PKK.

Il campo in questo momento è in sofferenza perché molti lavori sono stati bloccati ed è sottoposto ad embargo di aiuti. A Erbil, tutti i giovani del campo, che andavano a lavorare, sono stati licenziati.
Non sono più stati rilasciati i permessi di soggiorno, il che significa non poter uscire dal campo; sono stati bloccati i permessi di guida con la conseguenza che molti mezzi sono fermi nel campo; 2000 nuovi bambini non sono stati registrati; il grano per il pane viene venduto a prezzo contenuto solo dal governo centrale dell’Iraq; l’ambulatorio UNHCR, prima gestito da loro funzionari, ora è gestito dai giovani medici del campo.
“Riusciamo però ugualmente a mantenerci – ci dicono – con le sole risorse del campo ma siamo preoccupati per il futuro”.

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