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Autore: Anna Santarello

Il numero dei prigionieri in Turchia raddoppiato rispetto al periodo del colpo di stato del 12 settembre.

Rete Kurdistan Italia – 9 luglio 2016

kurkculer cezaevinde yangin IHA 20120618AW000833 3 t 630x325Il numero delle persone attualmente detenute in Turchia ha raggiunto un livello record ed è raddoppiato persino rispetto al periodo del 12 settembre quando le persone detenute erano 79 mila.

Secondo i dati della Direzione generale delle carceri e dei centri di detenzione del Ministero della Giustizia turco, ci sono 290 carceri chiuse, 60 prigioni distaccate, 2 centri di detenzione giovanile, 5 carceri chiuse per donne e 3 prigioni chiuse per ragazzini.Ben 105 prigioni e 34 edifici aggiuntivi sono stati costruiti durante il periodo dell’AKP tra il 2006 ed il 2016.

Con queste, il numero totale delle carceri e dei centri di detenzione è alito a 362.

Sebbene queste 362 prigioni e centri di detenzione hanno una capacità di 180.256 persone, ci sono un toale di 187.647 persone incarcerate in tutto il paese al 31 marzo, il che significa ulteriori 7,391 persone detenute in carceri troppo affollate.C’erano 60.968 persone in carcere in Turchia durante colpo di stato militare del 1971 e di questa cifra è scesa a 24,860 a seguito di un’amnistia dichiarata da Bülent Ecevit nel 1973.

Il numero dei prigionieri in tutta la Turchia prima del colpo di stato militare del 12 settembre 1980 era di 52,653 persone, e questo dato è salito fino a 79,786, come l’anno del 1981, dopo il colpo di stato.Nel corso del 1984 quando la legge marziale ha iniziato a essere rimossa, ci sono stati un totale di 73.064 persone in carcere in Turchia, e questo dato per il 1986 è sceso a 52,150.

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Dichiarazione congiunta di difesa dei deputati del Partito democratico dei popoli (HDP).

UIKI Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia – 7 luglio 2016

HDP 1024x768 599x275Il Partito democratico dei popoli (HDP) che io rappresento ha ricevuto oltre sei milioni di voti nelle elezioni politiche del 7 giugno , passando lo sbarramento elettorale del 10% e conquistando 80 seggi in Parlamento.

La nostra vittoria ai seggi elettorali ha posto a termine il dominio del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), ed ha impedito ad esso di formulare da solo una nuova Costituzione.

Il Presidente Recep Tayyip Erdoğan, che puntava a stabilire il suo “dominio di un uomo” nel paese e che non aveva esitato a ricorrere a tutti i generi di illegalità per adempiere al suo intento,non ha rispettato i risultati di queste elezioni.Ha impedito la formazione di ogni coalizione di governo e a chiesto semplicissime elezioni.

Nel frattempo Erdoğan ha anche posto a termine il processo di pace lungo di tre anni (con il movimento curdo), dopo aver visto che che non corrispondeva a servire i suoi interessi e per allargare la sua base elettorale, ed ha trascinato in paese in un processo di conflitto infiammato. L’ambiente di conflitto ha creato tra i nostri cittadini delle preoccupazioni a causa della sicurezza.In mezzo a questo clima di shock e di paura, le elezioni anticipate si sono svolte in condizioni che erano molto lontane dall’essere eque libere.

LAKP ha vinto le elezioni il 1° novembre 2015 e ha formato di nuovo un governo a partito unico. Dopo aver saputo dei risultati delle elezioni del 7 giugno, ha messo in scena con un grande grande panico ed in gran tumulto un colpo di Stato politico superando il Parlamento ed il paese, sottoponendo la magistratura sotto un controllo di grande portata, e monopolizzando i media.

È arrivato a tal punto di annunciare pubblicamente di avere sequestrato lo Stato dichiarando egli stesso di non essere vincolato dalla Costituzione, dichiarando di fatto un cambiamento del regime , annunciando che non ha riconosciuto le decisioni della Corte Costituzionale. Erdogan si trova di fronte a gravi accuse di essere coinvolto in numerose attività criminali mentre conduceva l’Ufficio del Primo Ministro, tra cui la corruzione, il furto, il riciclaggio di denaro, la conduzione di commercio di oro con l’Iran in violazione dell’embargo internazionale, e la fornitura ad agenti terroristici in Siria di armi. E finora ha avuto successo nell’ostacolare le indagini di queste accuse con la pressione e il controllo che ha esercitato sulla magistratura.
Erdogan è consapevole del fatto che l’unico modo per coprire in modo efficace i suoi crimini è quello di monopolizzare tutti i poteri nelle sue mani. È evidente che egli non si asterrà dal fare qualsiasi cosa a breve di folle a tal fine.

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Nato a Varsavia, c’è anche Kabul.

Dal Blog di Enrico Campofreda – 6 luglio 2016

20140905 140905a 024 rdax 775x516Il prossimo vertice della Nato (il ventiseiesimo dalla creazione dell’organismo militare) previsto a Varsavia l’8 e 9 luglio troverà sicuramente le attenzioni europee e statunitensi rivolte ai confini orientali del vecchio continente e a quei focolai vecchi e nuovi (dall’Ucraina alle Repubbliche caucasiche) che vedono direttamente interessato l’ingombrante, ma diplomaticamente dotato, inquilino moscovita.

Eppure in testa alle attenzioni americane c’è la situazione afghana, che ha visto la Nato impegnata su quel territorio dal 2001 con la missione Isaf, quindi dal gennaio 2015 con Resolute Support, che pur avendo diminuito il numero dei militari in loco (11.000, più un numero imprecisato di contractors, si dice oltre 20.000 unità ma non esistono documentazioni ufficiali) ha aumentato le operazioni dal cielo con attacchi condotti con aerei da guerra e droni.

Per le azioni di terra, soprattutto di vigilanza e pattugliamento, l’esercito locale avrebbe dovuto sostituire i marines, ma dopo tre anni di reclutamento e addestramento serrati, l’Afghan National Security Forces fa più acqua della diarchia Ghani-Abdullah. Ben prima delle operazioni targate “supporto” il vertice Nato di Lisbona (novembre 2010) aveva tracciato lo scenario attuato gradualmente dal Pentagono.

Quello, appunto, della strategia dell’uscita dal “pantano afghano” che nel 2010 aveva fatto vivere l’anno orribile alle truppe dirette prima da McChrystal poi da Petraeus, che registrarono oltre 700 vittime, 630 in azioni offensive compiute dai resistenti. Ricordiamo come in quel periodo i soldati statunitensi avevano toccato quota 100.000 unità per la decisione presa da Obama di aggiungere 30.000 marines alle restanti truppe. Anche i contractors erano al top delle presenze con oltre 100.000 uomini.

A fine 2010 si stabiliva di proseguire il conflitto ma con un numero sempre più ridotto di divise Nato sul terreno (oltre a statunitensi e britannici la coalizione era formata dai militari di Italia, Francia, Germania, Daminarca, Paesi Bassi, Norvegia, Canada, Australia, Nuova Zelanda) e di far operare l’esercito locale e le armi mercenarie. Intanto si ampliavano le basi aeree da dove far partire raid sui talebani, diffusi in un numero crescente di province. Queste azioni non erano sempre rivolte su obiettivi mirati: i leader talib, che pure hanno subìto molte perdite (l’ultima quella di Mansour). Hanno, come al solito, continuato a colpire nel mucchio gli abitanti stanziali e quelli che vagano fra una provincia e l’altra, cercando di sfuggire a ogni kalashnikov, talebano, dei signori della guerra locali e di quelli con la divisa Nato, pattuglianti assoldati inclusi.

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Afghanistan: l’ennesimo passo indietro di Obama.

Panorama – 7 luglio 2016 – di Rocco Bellantone

Saranno 8.400 e non 5.550 i militari americani che rimarranno nel Paese nel 2017. Un aumento dell’impegno che riguarda direttamente anche l’Italia.

Numeri forniti da Barack Obama sull’avanzamento dell’exit strategy americana dall’Afghanistan ormai non fanno quasi più notizia. Per l’ennesima volta il presidente degli Stati Uniti è tornato sui suoi passi rimangiandosi la road map tracciata sul finire del 2014 e presentando un nuovo piano d’azione che però difficilmente contribuirà a migliorare lo stato della sicurezza in un Paese perennemente in balia della minaccia talebana. Per la cronaca nel 2017, quando da gennaio Obama terminerà il suo secondo e ultimo mandato da presidente, dagli attuali 9.800 militari attualmente dispiegati in Afghanistan – principalmente nelle basi di Bagram (vicino a Kabul), Jalalabad (nell’est) e Kandahar (a sud) – si passerà a 8.400 e non a 5.550 come era stato inizialmente stabilito.

Obama ha spiegato che le forze afghane non sono ancora pronte per assumere in modo del tutto autonomo il controllo della sicurezza nazionale, motivo per cui i consiglieri americani continueranno ad addestrare gli agenti della polizia e i soldati dell’esercito di Kabul e saranno in prima linea nelle operazioni antiterrorismo che verranno pianificate contro i talebani e altri gruppi terroristici che operano nel Paese.

Iniziato nel 2001 dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre, l’intervento militare americano in Afghanistan è dunque destinato a protrarsi molto più a lungo del previsto. E il bilancio dei soldati statunitensi uccisi – 2.300 negli ultimi quindici anni – potrebbe farsi ancora più tragico.

Il ruolo dei servizi segreti pakistani
Intanto all’ombra dell’incerta strategia di Obama, e in attesa di conoscere quale direzione prenderanno gli USA in Afghanistan quando ci sarà un nuovo inquilino alla Casa Bianca, sono altre potenze a incidere in maniera molto più influente sul Paese.

I servizi segreti più attivi sono quelli del Pakistan. Dal momento in cui, lo scorso 25 maggio, Haibatullah Akhundzada ha assunto la guida dei talebani, il potente servizio segreto pakistano ISI (Inter-Services Intelligence) ha gradualmente ristabilito i contatti con i vertici dell’organizzazione. L’ex leader Akhtar Mohammad Mansour, succeduto nel luglio del 2015 al Mullah Omar, nei suoi dieci mesi di mandato aveva infatti provato a voltare le spalle a Islamabad cercando sostegno a Teheran e Mosca. Per affrancarsi dal Pakistan Mansour aveva deciso di trasferire il consiglio della Shura dei talebani da Quetta, città situata nella provincia pakistana sud-occidentale del Baluchistan dove negli ultimi dieci anni ha avuto la propria sede, in Afghanistan.

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Afghanistan: il processo di riconciliazione nazionale è in un vicolo cieco.

Sputnik Italia – 5 luglio 2016

3045224In Afghanistan cresce il malconteno riguardo il processo di riconciliazione nazionale. In altre parole, nei confronti del lavoro del Supremo consiglio per la pace (BCMA), responsabile di tale processo.
Il BCMA è stato creato nel 2010 dall’allora presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, per condurre i negoziati di pace con i rappresentanti del movimento terroristico dei talebani. Il Consiglio è composto dai leader della jihad ed ex membri talebani, per un totale di circa 50 persone.

Cinque organizzazioni non governative hanno condotto uno studio il cui riusultato ha disapprovato la “road map” della riconciliazione in Afghanistan preparata dal BCMA. Inoltre, il Supremo consiglio è stato definito “un campo di incitamento all’odio, capace soltanto di aggravare i conflitti”.

Lo studio è stato condotto lo scorso anno. Ad esso hanno preso parte i rappresentanti delle parti in conflitto, così come coloro che sono responsabili per la risoluzione della situazione politica, ovvero i rappresentanti della Repubblica islamica dell’Afghanistan.

I risultati dell’indagine rivelano la delusione della popolazione per l’attività del BCMA. Di questo ne ha parlato in una conferenza stampa a Kabul Vadud Pedram, direttore dell’organizzazione per i diritti umani dell’Afghanistan.

“L’opinione pubblica e la parte più attiva e promettente della popolazione, i giovani, hanno constatato l’inefficienza del lavoro del Supremo consiglio per la pace. Questo organo ha a disposizioni ingenti quantità di denaro, ma il suo lavoro non porta risultati. Il problema principale è che gli stessi suoi membri in passato erano coinvolti nel conflitto, ed è quindi difficile per loro essere obiettivi e imparziali. Per molti di loro è difficile pensare ai talebani come parte a pieno titolo dei negoziati e ad avviare un dialogo con loro”, ha spiegato Pedram.

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Altro che ritiro, la Nato rilancia in Afghanistan

Il Manifesto – G. Battiston – 19 giugno 2016

Sgrena Ubaid 300x189Resolute Support. Brutte notizie per i civili, l’Alleanza intende mantenere truppe e basi. La decisione al prossimo summit di Varsavia. L’Italia resta primo paese europeo per numero di soldati.

La Nato intende mantenere e rilanciare la propria presenza in Afghanistan: tenere aperte le basi militari, rivedere la programmata riduzione delle truppe presenti sul terreno e continuare a pagare milioni di dollari per il sostegno alle forze di sicurezza afghane, almeno fino al 2020.
Sono le notizie annunciate alla stampa mercoledì, dopo un incontro a Bruxelles tra i ministri della Difesa dell’Alleanza atlantica. Numeri certi non ce ne sono. Le decisioni verranno prese formalmente l’8 e 9 luglio, nel corso del vertice Nato di Varsavia.

Il segretario generale della Nato, il generale Jens Stoltenberg, in conferenza stampa ha dichiarato che sul numero dei soldati che rimarranno in Afghanistan nel 2017 e negli anni successivi la discussione è in corso, ma ha insistito molto sulla necessità di mantenere le basi militari – anche a fronte di un’ulteriore riduzione delle truppe – per «avere un approccio regionale flessibile». Tra queste, anche la base gestita dagli italiani a Herat, nella provincia occidentale afghana, al confine con l’Iran.

Tra le questioni più delicate da affrontare, quella finanziaria: Stoltenberg si aspetta di uscire dal vertice di Varsavia con l’impegno formale dei 28 paesi membri della Nato per un impegno finanziario fino al 2020 incluso. Le forze di sicurezza afghane (352.000 uomini in totale) costano circa 5 miliardi di dollari ogni anno. L’impegno maggiore ricade sugli americani: dei 5 miliardi complessivi per il 2016, gli Stati Uniti ne hanno sborsati 3.6, il resto i singoli paesi coinvolti nella guerra, inclusa l’Italia, e in parte il governo afghano, che comunque non sarà in grado di auto-sostenere le proprie forze di sicurezza prima del 2024.

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UIKI: Appello per Mobilitazione Nazionale Contro la Guerra 25 giugno -16 luglio

dal sito di UIKI  – 24 giugno 2016

uiki onlusBOYCOTT TURKEY!

Dal 25 Giugno al 16 Luglio parte in Italia una mobilitazione nazionale contro la guerra in corso in Turchia e le violenze verso il popolo Curdo.

Dal mese di Luglio dello scorso anno, il governo Turco ha dichiarato una nuova guerra al popolo curdo, interrompendo i negoziati con il presidente Abdullah Öcalan, detenuto in totale isolamento nell’isola carcere di Imrali e aprendo una campagna militare e politica dentro i suoi confini.

La campagna in corso del governo Erdogan ha portato nel corso dell’ultimo anno alla distruzione di decine di città curde e all’imposizione del coprifuoco permanente. Interi quartieri delle grandi città di Diyarbakir, Sirnak, Cizre, e innumerevoli villaggi sono stati rasi al suolo, in un operazione militare che ha colpito innanzitutto civili, donne, anziani, bambini, bruciati vivi all’interno delle loro case. La campagna militare non ha risparmiato neanche i vicini confini della Turchia colpendo i villaggi del Kurdistan del Sud in Iraq con bombardamenti a tappeto e con le operazioni in corso sul confine siriano che accumulano vittime tra i profughi.

Accanto alla campagna militare, una campagna politica ha portato in carcere in questi mesi migliaia di persone: dagli intellettuali e docenti universitari impegnati per la pace, ai giornalisti non filo governativi, agli amministratori locali delle municipalità curde. Ogni manifestazione di dissenso è ancora oggi sotto attacco.

L’ultimo decisivo capitolo della campagna di aggressione è stato ottenuto con la convalida governativa della riforma istituzionale che revoca l’immunità parlamentare ai deputati del Partito Democratico dei Popoli, l’HDP, la più larga opposizione ufficiale verso il progetto di riforma presidenziale del presidente Erdogan e al contempo concedendo però immunità giudiziaria ai militari complici delle operazioni dell’Isis in Turchia e autori delle violenze nella guerra contro il popolo curdo.

A fronte di ciò il popolo curdo e il movimento di liberazione del Kurdistan continuano a portare avanti una battaglia di resistenza, contro l’annientamento fisico e politico per un autonomia democratica in Turchia.

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L’occupazione dell’Afghanistan: un inferno per le donne.

Solidarirty Party of Afghanistan – 18 giugno 2016.

crimes against women under us rule in afghanistanL’esecuzione pubblica di Zarmina da parte dei talebani sconvolse il mondo e diventò il pretesto per più di quaranta paesi di invadere l’Afghanistan per “la Liberazione delle donne afghane”.

Tuttavia nel corso degli ultimi 15 anni, in ogni momento le donne afgane sono maltrattate e uccise sotto il controllo “democratico” e “diritti umani” degli USA / e dei servitori della NATO, ma il mondo non se ne preoccupa! L’agonia di Shakila, Tabasum, Farkhunda, Rukhshana e migliaia di altre donne afgane non fa più notizia per i media internazionali.

I paesi NATO e gli USA tradiscono e abusano delle loro sofferenze, e presentano un gruppo di donne indegne e filogovernative in ogni evento e ai media internazionali.

E ripetono spudoratamente “con l’arrivo della comunità internazionale e dei partners internazionali, le donne hanno ottenuto la libertà e molti progressi”, ma è possibile guardare la dura realtà delle donne afgane:

Corso di formazione per il personale del dell’ HAWCA peace building center sui tipi di abusi sui minori

Dal sito di HAWCA – 13 giugno 2016.

training of peace buildingGli abusi sui minori è una delle questioni più importanti che esistono in Afghanistan. Purtroppo nessuna decisione o iniziativa importante è stata presa dal governo in questo senso. Ogni giorno migliaia di bambini in tutto l’Afghanistan sono vittime di varie forme di abuso.
Percosse nelle scuole, la negazione di istruzione, matrimoni forzati e precoci, non poter avere cibo adeguato una serena vita fsmiliare, l’abuso sessuale, ecc sono alcuni degli abusi che i bambini afgani subiscono ogni giorno. Il problema principale è che la maggior parte delle persone non sanno “Che è un abuso ad un bambino” e così volontariamente o per errore diventano colpevoli di abusi sui minori.

Per contribuire alla eliminazione di abusi sui minori e rendendo le persone consapevoli di ciò che è la pedofilia; HAWCA con l’aiuto di un donatore “KNH” sta preparando una guida per la protezione dei minori, dopo il completamento sarà distribuita ai soci, alle ONG che lavorano per i bambini e le autorità governative in modo che possano usarla nel loro lavoro.

Il primo passo compiuto in questo senso è stato fatto con un corso di formazione sui tipi di abusi sui minori in Afghanistan organizzato per il personale del centro per la delle costruzione delle pace di Ahmad Shah Baba Mina.

Il personale era molto interessato alle informazioni fornite, e si sono resi conto di come i diritti dei bambini sono violati nelle scuole e in altri luoghi. HAWCA proseguirà i suoi corsi di formazione in materia di abusi sui bambini con diverse realtà della società e farà del suo meglio per rendere una buona pratica comprendere e attuare i diritti dei bambini nelle loro case, luoghi di lavoro e in altri luoghi.