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Autore: Anna Santarello

IL NOSTRO PAESE AFFONDA NEL SANGUE E NEL TRADIMENTO!

Kabul – 16 Aprile 2015

HambastagiLogoComunicato Stampa del Partito Afghano della Solidarietà (Solidarity Party of Afghanistan)

L’imposizione da parte degli Stati Uniti di un “Governo Nazionale del Terrore” sta precipitando il paese nella miseria e nella barbarie quotidiana. La povertà, la disoccupazione, la corruzione, le esplosioni e gli attentati suicidi stanno rendendo impossibile la vita del popolo afghano.

Dopo il barbaro linciaggio di Farkhunda, i massacri di civili avvenuti in Badakhshan, Helmand, Balkh, Ghazni, Khost, Nangarhar, Kabul, Farah e ovunque, il nostro paese si è ritrovato soffocato in una cappa mortale. Il rapimento di 31 nostri connazionali, la macabra decapitazione in “stile ISIS” dei soldati dell’Esercito Nazionale Afghano in Badakhshan, l’indifferenza della cricca Abdullah-Ghani & Co. verso tali atrocità, hanno indotto nel nostro popolo soltanto repulsione verso questo governo corrotto.

Questo governo scellerato che non alza un dito per difendere il suo popolo dalla brutalità dei talebani – che continuano a commettere crimini feroci contro la popolazione –  ha avuto la spudoratezza di chiedere ai suoi padroni americani di scusarsi ufficialmente con i talebani! Questo governo-fantoccio definisce i talebani – questi sanguinari assassini al servizio dell’ISI (Servizi Segreti Pakistani) – “avversari politici” e rende omaggio regolarmente ai loro leader a Kabul e in Qatar.

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Kurdistan turco: svolta nell’area per la proposta di pace del leader kurdo

Il Manifesto – Giuliana Sgrena – 21.4.2015

Ocalan 150x150Ocalan e il Kurdistan turco. Il carcere di Imrali, dov’è rinchiuso, è meta di delegazioni

ll Kurdistan turco è molto cambiato dall’ultima visita, molti anni fa, e non solo perché le città come Diyarbakir si sono enormemente gonfiate, ma anche perché, nonostante tutti i problemi e le discriminazioni, i kurdi non sono più sotto assedio come in passato.

Continuano a esserci migliaia di prigionieri politici e se sono diminuiti i casi di tortura «non è tanto per il risultato delle pressioni dell’Associazione per i diritti umani ma perché la scelta del governo è di sparare sui manifestanti invece di arrestarli», afferma Sebla Arcan dell’Insan Haklari Derneci, che da 20 anni si occupa degli scomparsi insieme alle madri di Galatasaray, che ogni sabato protestano esibendo i ritratti dei loro parenti.

Merito del cambiamento del clima è anche la speranza suscitata dalla proposta di pace di Ocalan (i dieci punti che se accettati dal governo porrebbero fine alla lotta armata nel Kurdistan turco) e della nuova politica che non chiede più l’autonomia o l’indipendenza del Kurdistan ma diritti uguali per tutte le minoranze.

Il governo turco non ha risposto a Ocalan e continua a strumentalizzare la proposta a fini elettoralistici. Tuttavia il carcere di Imrali, dove Ocalan sta scontando una pena all’ergastolo, è sempre più meta di delegazioni che vanno a discutere delle prospettive future. Che non riguardano solo il Kurdistan turco, ma anche quello siriano.

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KOBANE, LE DONNE RESISTENTI

Il Manifestol Manifesto, di Giuliana Sgrena – 21 aprile 2015

donne kobane 3Rojava. Sotto le distruzioni dell’Isis vive il Contratto sociale del Rojava, ispirato dalla nuova politica di Ocalan basata sul rispetto delle minoranze, la parità di genere e uno sviluppo ecologicamente compatibile. Il protagonismo delle donne kurde supera i confini e unisce con un progetto di laicità

I turchi non permettono ai giornalisti di entrare a Kobane. Siamo a pochi metri dalle prime case della città, possiamo intravedere la devastazione, i palazzi ridotti in scheletri, le mura sgretolate e le grandi fessure da dove possono sparare i cecchini, quel che rimane dopo una guerra.

I primi soldati turchi ci avevano lasciato attraversare il ponte per parlare con il capo, ma il comandante turco è inflessibile: da qui non si passa. E non si capisce perché siano i turchi a impedirci di entrare in territorio siriano, ma siamo in zona di guerra e loro la fanno da padrone, come hanno fatto prima lasciando passare gli aiuti ai jihadisti.

Chi entra a Kobane  e ci sono alcuni fotografi e giornalisti  lo fa per altre vie, ma ci vuole tempo, troppo, che non abbiamo. Chi invece attraversa il piccolo ponte che separa la Turchia dalla Siria (Rojava, sotto controllo kurdo) sono gli sfollati  i kurdi non li chiamano profughi, tutti appartengono al Kurdistan , 2/3.000 al giorno, parecchie decine di migliaia (circa 50.000, in totale, ma la cifra aumenta ogni giorno).

Nonostante le raccomandazioni di aspettare, sono stufi di vivere in tende e impazienti di vedere com’è ridotta la loro casa, ben sapendo che ci sono poche speranze di rivederla in piedi, ma è sempre la loro terra.

«L’80% della città è distrutta e il restante 20% necessita di grandi riparazioni: i segni della guerra sono ovunque, sui muri rimasti in piedi, nei crateri che si aprono nelle strade. Ora Kobane è completamente liberata e i suoi confini sono sotto controllo dell’YPG/YPJ (Unità di difesa popolare maschili e femminili), che pattugliano la città giorno e notte, ma la maggior parte di loro stanno ancora combattendo nei villaggi vicini ancora sotto l’assedio del Daech», ci racconta Zeynep, una giovane kurda, che, pur vivendo da molti anni a Londra, ha un documento turco e così ha potuto entrare a Kobane insieme a un uomo d’affari kurdo iracheno che vuole proporre alle autorità cantonali la costruzione di 8.000 nuove case. Naturalmente dovranno essere ecologicamente compatibili secondo la Carta di Rojava.

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Afghanistan, in fila per ritirare stipendio: kamikaze fa massacro. Is rivendica attentato.

Repubblica.it – 18 aprile 2015.

attentato suicida jalalabad afghanistan orig 2 mainL’esplosione è avvenuta intorno alle otto locali quando decine di persone si trovavano all’ingresso della Banca di Kabul, a Jalalabad: 33 morti e oltre 100 feriti.

Kabul – In Afghanistan, almeno 33 persone sono morte e oltre 100 sono rimaste ferite in un attentato di fronte l’ingresso di una banca nella città di Jalalabad, 120 chilometri ad est di Kabul, vicino al confine con il Pakistan. L’attentato è avvenuto intorno alle otto locali quando decine di persone, tra le quali anche funzionari pubblici, si trovavano all’ingresso della Banca di Kabul, nella capitale della provincia di Nangarhar, per ritirare il proprio stipendio.

Una seconda esplosione sembra poi sia divampata nel momento in cui arrivavano i primi soccorsi per le vittime. Ma per fonti inquirenti invece si sarebbe trattato dello scoppio controllato per mano di artificieri di una bomba nascosta nei paraggi, scoperta e neutralizzata.

I jihadisti del sedicente Stato islamico (Is) hanno rivendicato l’attentato. Se la rivendicazione fosse confermata, sarebbe il primo grave colpo messo a segno dall’Is in Afghanistan.

In un comunicato, la ‘Wilayat (distretto) del Khorasan’ dell’Is cita il nome dell’attentatore di Jalalabad e allega una sua foto a volto coperto con un Kalashnikov accanto. Alle sua spalle si vede la bandiera nera dell’Is.

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Renzi, l’amerikano.

17 APRILE 2015 – Enrico Campofreda dal suo Blog

amerikanoSi resta a Shinland, o magari si torna in forze a Herat con parà e alpini. Parola di Renzi, che nel faccia a faccia con Obama lo impressione per sfrontatezza ed “energia”, così la definisce il presidente statunitense ben felice dello zelo militarista del premier italiano. Il quale oltre a tessere le lodi del modello americano, inseguito con passione e propinato a piene mani sul versante economico-lavorativo del Belpaese, ribadisce la posizione di supporto assoluto alla politica estera Usa.

In questo non differenziandosi da predecessori di partito e delle altre sponde politiche nazionali. Poiché in Afghanistan, nonostante i piani dell’exit strategy, la linea del grande ritiro statunitense ha vissuto adattamenti tattici, sia prima che dopo la firma al Bilateral Security Agreement col mantenimento di 13.000 marines e sicuramente anche di qualche migliaio di contractors sparsi attorno alle basi aeree presenti e rafforzate.

A Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost la Nato prepara la sua ‘presenza duratura’ incentrata su Falcon e droni per le azioni antiterroristiche nelle aree a rischio, quelle tribali delle Fata e non solo.

I “nostri ragazzi”, come amano definirli a Palazzo Chigi, tuttora sul territorio afghano sono 1.500, in gran parte concentrati a Camp Arena, la base di Herat dove la presenza aveva raggiunto anche il doppio, quando nel 2011 i militari italiani nell’Isaf contavano una punta di poco inferiore alle 5.000 unità.

E accanto a questi soldati dichiarati ufficialmente, c’erano anche gli uomini fuori lista, quelli coperti da segreto in quanto inseriti nei gruppi d’attacco (la Task Force 45 era una di queste) della ‘guerra sporca’ praticata con rendition e omicidi mirati studiati e preparati dalla Cia. E finiti, in varie occasioni, con stragi di civili, meglio noti come “danni collaterali”.

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Manifestazione di Hambastagi contro il massacro di civili e soldati e per la liberazione di 31 giovani afghani rapiti dall’IS.

15 aprile 2015 – Afghanistan, Kabul – SildaritySildarity

Manifestazione di Hambastagi Solidarity Party of Afghanistan, CONTRO il massacro di civili e soldati nel Badakshan e a Mazar, PER LA LIBERAZIONE DEI 31 giovani afghani rapiti dall’IS. Il governo Ghani/Abdullah, sostenuto dagli USA, non muove un dito per fermare le violenze quotidiane a cui è sottoposto il popolo afghano.

La manifestazione indetta per protestare contro gli ultimi terribili eventi successi in Afghanistan, aspirando inoltre a costruire un’idea di NAZIONE: i soldati uccisi a Mazar, i civili uccisi a Badakshan, i 31 ragazzi hazara rapiti dall’ISIS. Unendo tutte queste vittime in un’unica rivendicazione si ribadisce il concetto di unità nazionale, che le vittime non hanno identità etnica, è un punto molto importante della linea politica di Hambastagi.

Chi comanda in Afghanistan?

RAWA News – 12 aprile 2015

warlords collection photo wpNella foto: vecchi e nuovi criminali afghani, alcuni fortunatamente morti, a cui è stato consentito di restare IMPUNITI al governo del Paese.

Balkh. Un enorme ritratto di un uomo di mezza età domina la ruota panoramica di un parco divertimenti. Di notte, l’immagine è illuminata, visibile da un quarto di miglio di distanza.
I suoi ammiratori lo chiamano “Ustad,” o “Maestro”. I suoi critici lo chiamano il “re”.

Per più di un decennio, Atta Mohammad Noor, governatore della provincia di Balkh, ha controllato la regione settentrionale con pugno di ferro, con le milizie private, con le armi, con un immenso patrimonio economico.

È accusato di gravi violazioni dei diritti umani, eppure continua a governare impunemente.

image copyPer molti afgani stanchi di guerra, questi signori della guerra come Atta Mohammed Noor DEVONO ESSERE EMARGINATI per consentire all’Afghanistan una possibilità di progresso. Ma la missione militare americana, che sostiene questi signori della guerra, è ben lontana dal ritirarsi…”

«Io ho portato la bara di Farkhunda Nessuno se l’aspettava da noi afghane»

La 27ventisettesima Ora – Iblog del Corriere della sera – 16 aprile 2015, di Viviana Mazza

farkhunda funeral 655x422 471x250“Una ragazza uccisa dalla folla, le donne protagoniste al suo funerale. Ora parla una di loro, Munera Yousufzada, 30 anni e una figlia di 10: “Abbiamo violato le regole della tradizione e della religione perché sono state dirottate dagli uomini”

Sono stati gli uomini ad attaccare Farkhunda e a guardare senza far nulla per salvarla. Nella nostra cultura e nella nostra religione, non è permesso alle donne di portare la bara al funerale. Questo perché la religione è stata dirottata dagli uomini, che l’hanno usata come strumento per raggiungere obiettivi egoistici.

Per mostrare che non accettiamo più queste strumentalizzazioni, ci siamo caricate il feretro sulle spalle. D’altra parte, se l’avessero trasportato gli uomini, il caso sarebbe stato dimenticato in fretta. Invece, per rendere questa storia immortale e mostrare che questi atti di violenza non sono più accettati, abbiamo fatto una cosa che nessuno si aspettava in Afghanistan.

Parla Munera Yousufzada, che ha 30 anni e una figlia di dieci: è una delle donne di Kabul che hanno portato fino alla tomba il corpo di una giovane uccisa e bruciata dalla folla lo scorso mese nella capitale afghana.

Un gesto ribelle di cui abbiamo scritto sul Corriere della Sera e in questo blog, ma quelle donne che gridavano «oggi è toccato a lei, domani toccherà a noi», erano anonime. «Farkhunda è stata uccisa con l’accusa di aver bruciato il Corano – racconta ora Munera – Ma dall’inchiesta, che non si è ancora chiusa, è emerso che aveva litigato con una persona che stava scrivendo degli amuleti nel nome della religione. Sono maghi cui la gente analfabeta si rivolge perché risolvano i problemi. Poiché Farkhunda aveva criticato uno di loro, lui l’ha accusata di aver bruciato il Corano».

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Il Presidente Ghani offre ai taliban la condivisione del potere mentre l’ISIS avanza in Afghanistan (CeMiSS).

Afghanistan sguardi e analisi Claudio Bertolotti – 13 aprile 2015, dal suo blogblog

images copyIl Governo di unità nazionale è in difficoltà?
Sul piano politico, il Governo di unità nazionale guidato dalla diarchia Ghani-Abdullah ha concretizzato nella sostanza quanto da mesi già annunciato; lo ha fatto offrendo ai taliban parte del potere dello stato, in quello che possiamo definire un formale processo di power-sharing (si rimanda all’Osservatorio Strategico 10/2014).

Benché i taliban non abbiano accettato – nessun si sarebbe aspettato il contrario – questo fatto pone i riflettori sulle grandi difficoltà di governo e, in particolare, sul mantenimento di equilibri politici precari e sotto la minaccia dalle spinte competitive dei due principali gruppi politici che fanno capo a Ghani, da un lato, e ad Abdullah, dall’altro.

I soggetti indicati da Ghani quali auspicabili collaboratori erano il mullah Zaeef (ex ambasciatore dei taliban in Pakistabn), Wakil Muttawakil (ex ministro degli Esteri dell’epoca talebana) e, infine, Ghairat Baheer, parente di Gulbuddin Hekmatyar, capo del secondo principale gruppo di opposizione armata afghano (l’Hezb-e-Islami), movimento in competizione-collaborazione con i taliban.

Nel concreto, la spartizione del potere avrebbe previsto l’assegnazione del ministero degli Affari Rurali, il ministero dell’Haji e degli Affari Religiosi e il ministero dei Confini; ai ministeri si sarebbero sommate le nomine di soggetti indicati dai taliban per i governi provinciali di Nimruz, Kandahar e Helmand. In particolare, la nomina dei governatori di queste province sarebbe andata a formalizzare uno stato di fatto, poiché i taliban già detengono il potere nella maggior parte di tali aree; una soluzione che, a ragion veduta, avrebbe potuto indurre a una possibile riduzione delle conflittualità a livello locale.

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Afghanistan. La vita “sul filo” delle donne che difendono le donne

Osservatorioiraq – 12 aprile – Anna Toro

arton1994 fb6e6Ogni giorno subiscono violenze, minacce, uccisioni a causa del loro lavoro in difesa dei diritti e dell’educazione femminile, mentre il governo e le autorità non fanno nulla per difenderle. La denuncia arriva dall’ultimo rapporto di Amnesty International.

Nargis è una giovane giornalista tajika che durante il suo lavoro si rifiuta di apparire in TV con indosso un chador. Malalai dirigeva una scuola femminile in Afghanistan, dove ha lavorato fino al 2014. Lailuma è un’attivista per i diritti umani che si batte per l’emancipazione e l’educazione delle donne afghane. E poi c’è Adeena, educatrice ed ex membro del parlamento alla Camera, c’è Brishna, medico, c’è Homaira, poliziotta, e tante altre.

Cos’hanno in comune queste donne, oltre alla provenienza geografica? Hanno tutte subito minacce, violenti attacchi e brutali assassinii di familiari per via del loro lavoro, per aver rotto quel tabù culturale che in molte parti dell’Afghanistan vede ancora le donne come mere “custodi del focolare”, adatte solo ad occuparsi della casa e della famiglia.
Le loro storie e testimonianze sono state raccolte dall’ultimo report di Amnesty International uscito martedì 7 aprile e intitolato “Their lives on the line” (Le loro vite a rischio) in cui ad essere denunciata è soprattutto l’inerzia delle autorità di fronte a questi crimini e l’incapacità del governo e delle istituzioni di proteggere queste donne simbolo del progresso del paese.

Donne che, nonostante i progressi raggiunti in questi anni, ancora oggi sono prese di mira da ogni parte: dai talebani, certo, ma anche dai signori della guerra, dalle proprie stesse famiglie, dalle agenzie di sicurezza e perfino da funzionari del governo.

E mentre le leggi recenti create per sostenere i diritti delle donne sono scarsamente o per nulla applicate, secondo l’ong anche la comunità internazionale sta facendo troppo poco per alleviare la loro situazione.

“Le donne che difendono i diritti umani provengono da tutti i ceti sociali e nel corso degli ultimi 14 anni hanno combattuto coraggiosamente per l’ottenimento di alcuni risultati significativi – ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, a Kabul durante la presentazione del rapporto – molte hanno anche pagato con la vita. E’ scandaloso che le autorità afghane le lascino sole, in una situazione così pericolosa”.

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