Maschere per nuove insorgenze – Se l’Isis trova nella propaganda uno dei suoi più potenti cardini c’è chi usa questo marchio e la sua maschera per accreditare un’antica presenza nel sistema di potere afghano. Perciò la nuova vocazione di alcuni leader talebani ‘folgorati’ dal Daesh non sarebbe altro che una metamorfosi tattica. Almeno così la spiega il locale ministro della difesa Enayatullah Nazai: “Certi comandanti trasformano le loro apparenze, addirittura mostrando una fede salafita, ma restano attaccati alla tradizione talebana”.
Una posizione diversa se non opposta da quella sostenuta da taluni politologi che monitorano l’Asia centrale evidenziando fratture e defezioni nella galassia dei turbanti. Entrambe le tesi necessitano di verifiche, però certamente il combattentismo fondamentalista a cavallo del confine afghano-pachistano è in subbuglio.
Il recente avvicinamento fra gli apparati di due nazioni che non si amano scaturisce da questa crisi; alle crepe talebane guardano anche gli uomini del Califfato per sondare alleanze e inserimenti possibili. Un punto a sfavore del loro programma, oltre al diverso credo islamico, è l’integralismo della propria visione di jihad, considerata superiore a qualunque altra. Essa entra in conflitto col senso di appartenenza di clan talebani poco inclini a rinunciare alle radici d’un localismo atavico.
Le squadre di soccorso sono al lavoro per salvare decine di persone ancora intrappolate sotto la neve. Le autorità temono un’emergenza umanitaria.
Sale a più di duecento il numero delle vittime nelle valanghe in Afghanistan
Le squadre di soccorso stanno portando avanti le ricerche di decine di persone che si ritiene siano ancora intrappolate sotto la neve dopo che una serie di valanghe si è abbattuta nella valle del Panjshir, nel nord dell’Afghanistan.
Secondo il bilancio ufficiale, 187 persone sono morte e 129 sono rimaste ferite. Si tratta del peggior disastro causato dalle valanghe negli ultimi trent’anni e sono previste nevicate per almeno altri due giorni.
Il maltempo ha colpito anche altre parti del paese: almeno diciotto persone sono morte a causa delle valanghe nella provincia nordorientale di Badakhshan; dodici nel Nuristan, una nel Nangarhar, quattro nel Laghman (a est) e altre sei nella provincia di Bamiyan (centro). Le autorità hanno avvertito del pericolo di un’imminente emergenza umanitaria nelle aree più colpite dal disastro. Alcune zone sono ancora inaccessibili perché la neve ha bloccato le strade.
Emerge da un Rapporto dell’Onu diffuso a Kabul. Lo studio, frutto di interviste con 790 persone arrestate nell’ambito del conflitto afghano, ha mostrato che di queste 278 (35%) hanno subito torture o maltrattamenti per mano della Direzione nazionale per la sicurezza
I detenuti afghani continuano a subire torture e maltrattamenti da parte delle autorità penitenziarie.
La denuncia arriva dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Afghanistan (Unama), che su 790 detenuti intervistati ha documentato 278 casi di torture o maltrattamenti da parte delle forze delle sicurezza afghane. Vittime di torture anche ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Secondo Kabul, sono 27.800 i detenuti nelle carceri dell’Afghanistan.
“Il nuovo studio mostra che il 35 per cento dei detenuti intervistati è stato torturato o maltrattato, contro il 48 per cento dello studio precedente”” condotto nel 2011, si legge in un comunicato dell’Unama.
Forme di tortura documentata sono l’elettroshock, il pestaggio violento e la torsione dei genitali, denuncia l’Onu. In molti casi, come l’asfissia fino allo svenimento o la costrizione a posture stressanti, le torture non hanno lasciato segni fisici evidenti. Inoltre è una pratica diffusa e documentata la minaccia di violenze sessuale nei confronti di detenuti minorenni.
Il 14 febbraio è il giorno in cui in tutto il mondo tutte le società civili e le organizzazioni dei diritti umani alzano la voce in solidarietà con le vittime di violenza.
L’Afghanistan si è unito a questa campagna formalmente nel 2013 quindi , il 14 febbraio, l’evento è stato celebrato anche qui come in altri paesi.
Anche OPAWC, i cui destinatari sono donne, ha partecipato ampiamente per dimostrare la propria solidarietà alle donne vittime e ha alzato la voce per eliminare ogni tipo di violenza e molestie contro le donne in tutto il paese.
Questo evento si è svolto e celebratato simultaneamente in 34 province dell’Afghanistan da AWN (Afghan Women Network). Il direttore di AWN, il Vice Ministro degli Affari femminili e alcuni membri di alto rango del governo hanno partecipato e alzato la voce dicendo: “Oggi, in Afghanistan le donne sono state isolate e i loro diritti umani vengono violati, dobbiamo fermare tutto cio’ e questo può accadere solo e soltanto quando uomini e donne lavoreranno insieme spalla a spalla per chiedere la fine di questo fenomeno
Una donna su tre nel mondo viene picchiata o violentata nella sua vita; cioè un miliardo di donne violate, un miliardo di madri, figlie, sorelle, amanti e amiche. “
Storiografi e cronisti del jihadismo afghano e dei Warlords con la maiuscola presenti negli annali d’una guerra pluritrentennale devono aggiornare i taccuini. Da qualche mese l’Isis insinua i suoi progetti anche nel cuore dell’Asia per erodere, convertire, trasformare, cooptare. E fare “campagna acquisti” di combattenti.
Una formidabile concorrenza all’antico strapotere degli storici signori della guerra modello Sayyaf e Dostum, da tempo integrati nel sistema dell’affarismo armato che s’è piazzato nelle istituzioni con cariche onorifiche. Il Califfato va oltre e vuole tutto. Getta il seme, in quei feudi chiamate province afghane, nelle intoccabili lande delle aree tribali, sfidando gli stessi talebani cui ruba miliziani e leader.
È già accaduto dalla scorsa estate nel nord Waziristan dove l’esercito pakistano conduce azioni repressive a tuttotondo. Lì si sono viste azioni ribelli sotto la sigla Daesh, tanto che è ormai ufficiale il tentativo di convergenza fra una parte dei clan talebani (Shura di Quetta) e le leadership di Kabul e Islamabad che avvicinano i turbanti per un interesse quasi comune.
A fine gennaio lo Stato Islamico ha anche annunciato la propria espansione nella regione del Khorasan, parte nord orientale dell’Iran che confina col Turkmenistan. È la sua prima diffusione fuori da nazioni islamiche del mondo arabo.
È l’Aghanistan la destinazione del primo viaggio ufficiale del nuovo numero uno del Pentagono. Ashton Carter, che ha giurato martedì scorso, ha voluto incontrare gli ufficiali in loco per fare il punto sul processo di ritiro delle truppe americane dal Paese.
Gli accordi fra Stati Uniti e Afghanistan prevedevano la riduzione dei militari da 10.000 a 5000 uomini entro la fine del 2015, per poi completare il ritiro nel 2016.
Il Paese tuttavia ha vissuto il suo anno più sanguinoso e violento dall’inizio del conflitto con i taleban, nel 2001, dopo l’attentato alle Torri gemelle.
Barack Obama, pressato dalle autorità afgane, sta valutando se allungare i tempi di permanenza delle truppe, per garantire il passaggio di testimone alle forze locali in un clima il più sicuro possibile.
Sono stati oltre 5000 i soldati e i poliziotti afghani uccisi l’anno scorso, circa 3700 i civili.
La via diplomatica che il presidente afghano Ghani sta lastricando da mesi verso due nemici storici sembra percorribile. I colloqui con varie componenti talebane (Shura di Quetta e l’inafferrabile mullah Omar, sempre che sia vivo) potrebbero iniziare entro un mese.
Ad accompagnarlo nel percorso quello che fino a ieri era considerato un demone per la nazione afghana: l’establishment pakistano, che unisce velleità di supremazia regionale a non celati disegni destabilizzatori del problematizzato vicino proprio a opera della galassia talebana.
Con essa, o meglio con alcune sue componenti, Islamabad è anche ai ferri corti se pensiamo alla guerra aperta coi miliziani Tehreek, autori dell’assalto alla scuola di Peshawar e le repressioni nella regione del Waziristan.
Su quale sia l’aggressione e la ritorsione ogni attore racconta la propria verità. Eppure la tattica del capo delle Forze Armate pakistane Raheel Sharif alterna repressione e dialogo, ovvero le dispensa a soggetti diversi, puntando sulle loro contraddizioni.
In tal senso l’Isi compie un lavoro d’informazione efficace, avendo individuato e relazionato sulle divergenze e spaccature in atto fra i clan talebani.
Ghani segue con convinzione questa linea e s’affida, raggiungendo quei colloqui il cui esito è incerto ma che, dopo l’input americano, anche Karzai praticò fra il 2009 e 2010 senza ottenere benefici e il Pentagono con lui. Stavolta potrebbe essere diverso, perché gli ulteriori anni d’insorgenza hanno logorato il Paese che è diviso nello stesso progetto di governance perseguito su pressione di Washington.
L’attuale presidente afghano ha ultimamente consultato anche i vicepresidenti ex signori della guerra, uno è Dostum, e le eminenze grigie del jihadismo locale.
Fra esse Sayyaf, che ha lanciato giorni fa parole durissime all’Isis, accusandolo di sporcare con la sua violenza cieca e gratuita lo spirito dell’Islam. Da questi soggetti intransigenti, oltre che dalla maggioranza pashtun e varie componenti tribali, Ghani ha ricevuto l’assenso per i colloqui coi Taliban e si sente perlomeno sicuro che il peso di quel combattentismo interno, ormai radicato in politica, approvi il suo piano diplomatico.
Un piano che rilancia l’idea d’unità nazionale, esorcizzando le paure di guerra civile e di annessioni, facendosi condurre per via proprio dal diabolico stato pakistano.
Qualche osservatore ritiene la mossa presidenziale azzardata ma acuta, probabilmente l’unica possibile in un panorama che durante le elezioni di primavera aveva portato alle stelle le divisioni interne. Un panorama che vede gli Stati Uniti ridisegnare il proprio impegno militare nel Paese, dove continuano a operare almeno 13.000 soldati di altissima specializzazione, compresi reparti mercenari d’incursione, e mostra una frammentazione del fronte talebano e i tentativi d’espansione del progetto Daesh anche a est.
Una “mass casualty” è un afflusso massiccio di molti pazienti in breve tempo, che di solito avviene in seguito a combattimenti, esplosioni, incidenti… Gestire le “mass casuality” non è facile: servono organizzazione, freddezza, velocità, esperienza. Nei giardini dei nostri ospedali a Kabul e Lashkar-Gah sono sempre pronte le tende da montare in caso di un evento del genere – per accogliere il flusso di pazienti e fare il “triage”. Un piano apposito, il “Mass Casualty Plan”, assegna a ciascun membro dello staff un ruolo ben preciso.
Nostro malgrado, nel corso degli anni siamo diventati specialisti nel gestire questo tipo di eventi. Tante, troppe volte abbiamo dovuto mettere in opera il Mass Casualty Plan nei nostri anni di lavoro in Afghanistan. Ora, come potete vedere nelle foto scattate qualche giorno fa, mettiamo questa nostra esperienza a disposizione del sistema sanitario locale, eseguendo simulazioni di Mass Casualty Plan per medici e direttori di ospedali del Paese.
“È stato molto interessante e costruttivo e siamo stati sommersi da complimenti e da richieste di continui training”, ci ha raccontato Luca, il nostro coordinatore medico in Afghanistan, al termine della giornata.
È un triste record quello che le Nazioni Unite hanno riscontrato in Afghanistan e riguarda il numero di vittime civili nella guerra tra Talebani e forze governative in corso da 13 anni.
Nel 2014, ha denunciato l’Onu, si è infatti registrato un aumento del 22 per cento di vittime civili rispetto all’anno precedente, con 10.548 tra morti e feriti. Secondo quanto riporta la missione di assistenza Onu all’Afghanistan, i civili morti sono stati 3.699 e 6.849 quelli feriti. Si tratta del numero più alto dal 2009.
A causare il maggior numero di vittime civili sono stati combattimenti sul campo, mentre negli scorsi anni lo erano gli ordigni collocati sul ciglio della strada.
L’Onu accusa quindi le ”parti in conflitto” di aver aumentato l’uso ”di armi esplosivi come mortai, razzi o granate, talvolta in modo indiscriminato” e anche in zone residenziali.
”I livelli di violenza registrati in Afghanistan nel 2014 non devono essere ripetuti nel 2015”, ha detto il rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon in Afghanistan, Nicholas Haysom. ”L’aumento di morti e feriti tra civili nel 2014 attesta il fallimento dell’impegno per proteggere i civili afghani – ha aggiunto – Abbiamo bisogno di passi concreti per diminuire realmente il numero di vittime civili nel 2015”.
L’Onu attribuisce poi il 72 per cento delle vittime civili afghane ad azioni compiute dai Talebani o da altre forze anti governative.
Nella “palude” afghana – Nel suo progetto d’espansione ad ampio spettro l’Isis non risparmierebbe il martoriato territorio afghano. Almeno secondo quanto spera e afferma un sedicente portavoce dello Stato Islamico, Abu Muslim Khurasani, che tramite un video ha lanciato i suoi strali contro il governatore della provincia di Ghazni, accusato di corruzione e reiterate ingiustizie.
Questa provincia centrorientale è separata da quella di Kabul dall’area di Vardak. Il governatore in questione, tal Musa Khan Akbarzada, ha immediatamente risposto negando gli addebiti perché, a suo dire, non ci sarebbero stati investimenti né progetti con finalità speculative. L’attacco del portavoce del Daesh ha toccato gli stessi talebani che “sotto gli ordini dell’Isi (l’Intelligence pakistana, ndr) uccidono innocenti civili”.
Per tali motivi l’Isis programma di arrestare e impiccare questi comandanti, e minaccia conseguenze simili verso quei gruppi che s’opporranno allo Stato Islamico. Da parte talebana non c’è finora risposta. Chi ha commentato criticamente l’operato dei miliziani in nero è un jihadista doc, anche se ormai avanti negli anni, il signore della guerra Abdul Sayyaf, che riferendosi all’Isis ha detto: “Questo gruppo sta offrendo una pessima immagine dell’Islam. Le sue attività sono contro la nostra religione come dimostra la crudele uccisione del pilota giordano”.