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Autore: Anna Santarello

Afghanistan. Uno Stato “narcotizzato”?

Osservatorioiraq – 19 Aprile 2013 di Claudio Bertolotti

Primavera 2013. La bella stagione segna l’inizio dell’offensiva insurrezionale e della coltivazione di oppio: due fattori strettamente correlati anche nella provincia di Herat – area di operazioni del contingente italiano –, dove i talebani sono legati da un rapporto di collaborazione-competizione con i “warlord” e i “druglord” locali, e con le molteplici organizzazioni criminali.

Un recente report dell’Onu confermerebbe la correlazione tra la scarsa assistenza all’agricoltura e la coltivazione dell’oppio: i villaggi più ‘abbandonati’ ne produrrebbero di più rispetto a quelli che avrebbero ricevuto incentivi.

Nel complesso, le province di Farah, Baghdis e Nimroz sono quelle in cui è stato registrato un incremento moderato nella produzione di oppio, mentre un aumento significativo ha caratterizzato la provincia di Herat (area di Shindand).

In sintesi, riporta lo studio dell’Onu, le aree rurali classificate come “meno sicure” hanno una probabilità maggiore di coltivare l’oppio di quelle con migliori condizioni di sicurezza.

Le comunità rurali periferiche, dovendo scegliere tra il debole governo afghano e gli insorti, sulla base dei benefit e delle politiche adottate dall’uno e dagli altri, tenderebbero ad optare per la parte che è davvero in grado di sostenere l’economia locale.

I talebani si sarebbero così avvicinati alla popolazione civile con fine ed efficace azione di convincimento e propaganda, ma anche attraverso delle risposte concrete ai bisogni immediati di comunità ai margini di uno Stato a rischio di fallimento.

I numeri di questo fronte non secondario del conflitto afghano ci descrivono una situazione molto critica, tanto sul piano della sicurezza quanto su quello del disagio sociale.

L’Afghanistan produce il 90% di tutte le droghe oppiacee al mondo, sebbene sino a tempi recenti non ne fosse un importante consumatore.

Al contempo, in un anno la produzione di eroina è aumentata del 18%, portando da 131.000 a oltre 154.000 gli ettari di terreno agricolo dedicati alla coltivazione del papavero da oppio.

Secondo l’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), i talebani sarebbero attualmente in grado di ricavare economicamente dalla droga più di quanto non lo fossero durante il regime del loro Emirato islamico negli anni Novanta: un business che garantirebbe all’insurrezione entrate più che necessarie a sostenere una “macchina da guerra” funzionale ed efficace, tanto sul piano militare quanto su quello politico-economico.

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In Afghanistan si produce sempre più oppio

FRANCESCA MARRETTA – 16.4.2013 – globalist

00A798 NEWS 82185Dodici anni dopo la caduta dei talebani, il paese verso una produzione record dell’oppio. Secondo un rapporto dell’Onu l’Afghanistan è il primo produttore al mondo.

La produzione di oppio in Afghanistan è aumentata negli ultimi tre anni. Il livello attuale supera quello dell’era talebana. Lo dice un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato oggi dal titolo “Afghanistan Opium Risk Assessment 2013”. Il trend non è uguale in tutto il paese, che si conferma primo produttore mondiale della coltura da cui si produce eroina.

Tra le zone in cui si registra l’incremento delle aree destinate alla coltivazione di oppio figurano Helmand e Kandahar, in cui sono presenti forze britanniche e Usa. Secondo il rapporto anche aree in cui non esistono queste colture, come Balkh, Faryab e Takhar, sono destinate alla “conversione” dei raccolti.

L’indagine di Unodc, (United Nations Office on Drugs and Crime) attribuisce l’aumento della produzione di oppio al profitto competitivo della coltura in un paese in cui non esistono alternative migliori. Allo stesso tempo il rapporto evidenzia però che i prezzi quest’anno sono più bassi degli anni scorsi, ma più alti di quanto lo fossero tra il 2005 e 2009.

Analizzando i dati si osserva un incremento tendenziale delle aree di coltivazione, mentre l’andamento dei prezzi negli ultimi tre anni si sviluppa a serpente: nel 2010 l’oppio afghano costava tra i 60 e gli 85 dollari al chilo, nel 2011 tra i 300 e il 600 dollari, mentre l’oscillazione tra il 2012 e inizio 2013 è tra 160 e 440 dollari al chilo.

Esponenti di Ong che lavorano coi contadini afghani su progetti per la produzione di colture alternative all’oppio sostengono che il problema principale sia l’accesso ai mercati, che resta proibitivo, almeno se comparato agli oppiacei. Non è certo contro i contadini afghani che si può puntare il dito per questa situazione, ma al fallimento delle politiche adottate (o non adottate) per affrontare il problema. Una responsabilità che ricade in primis sul governo di Kabul, ma che allo stesso tempo evidenza il fallimento, almeno nelle zone in cui la produzione di oppio è aumentata, dell’azione svolta dalla macchina di assistenza internazionale.

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Afghanistan. Sull’attacco a Farah, morte e terrore fra i civili

di Enrico Campofreda – 11 aprile 2013 – Contropiano

b3eced3e21d89a99cf55c232f494d9cc LUn comunicato ufficiale del Partito afghano della Solidarietà (Hambastagi) fa sapere che le persone uccise nell’attentato al Tribunale di Farah del 3 aprile scorso, inizialmente conteggiate in 44, sono in realtà 60.

Molti erano civili, un congruo numero di dipendenti della struttura giuridica: un magistrato, quattro procuratori, un segretario.

Fra le vittime due donne e anche lo zio della senatrice della provincia Belquis Roshan, una delle personalità politiche intervistate nel nostro recente viaggio a Kabul. Qari Ahmadi, presentatosi come portavoce dei talebani, con un volantino lasciato presso le sede della televisione locale aveva rivendicato l’attacco.

A realizzarlo otto kamikaze che, vestendo divise dell’esercito, erano penetrati nell’edificio e s’erano fatti esplodere. Per Ahmadi l’azione mirava a liberare alcuni guerriglieri incarcerati e presenti in tribunale per il processo.

Invece le autorità afghane hanno dichiarato che nel luogo preso di mira non c’era nessun taliban. Da parte sua Hambastagi condanna fermamente la strage: “Gli organizzatori di questo terribile attentato sono terroristi contro l’umanità.

Hanno portato un profondo lutto alla popolazione di Farah e all’intero popolo afghano, hanno colpito tutti coloro che si definiscono esseri umani. Gli afghani odiano i talebani e sono furiosi verso Karzai che ha la sfrontatezza di chiamare costoro “fratelli” nonostante siano nemici dell’umanità e del progresso. Qualche giorno addietro il presidente ha addirittura invitato il capo di questi assassini a candidarsi alle prossime elezioni. Così i taleban si sentono ancor più incoraggiati a uccidere i civili e rafforzare il loro fascismo”.

«Possibile un governo taleban, ma favorevole all’Occidente». Intervista a Mariam Rawi

INTERVISTA di Giuliana Sgrena – Il manifesto – 4 aprile 2013 – 09 INTERNAZIONALE

net3mariam 0Abbiamo incontrato Mariam Rawi di Rawa, Associazione rivoluzionaria delle donne afgane, in Italia su invito del Cisda per una serie di conferenze sulla situazione dell’Afghanistan alla vigilia del ritiro delle truppe straniere.

Nel 2014 gli Stati uniti dovrebbero ritirarsi, ma se ne andranno veramente? Tra l’altro si rifiutano di consegnare agli afgani i prigionieri stranieri di Baghram.
Dopo 12 anni di occupazione dell’Afghanistan, miliardi di dollari spesi, la costruzione di molte basi militari, il nostro paese non potrà essere indipendente. Nel 2014 è possibile che la maggior parte delle truppe lasci l’Afghanistan, ma questo non vuol dire che lasceranno il controllo del paese: resteranno molti uomini dell’intelligence, hanno già contrattato molti fondamentalisti che lavoreranno per loro e poi il governo sarà comunque un fantoccio nelle loro mani.

Paradossalmente adesso sembra Karzai il più ostile agli americani…
Le contrapposizioni tra Karzai e gli Usa non sono così profonde, lui cerca di rivendicare una propria sovranità, vuole dimostrare alla gente che è indipendente, ma in realtà non è così, le sue decisioni non sono prese liberamente. Basti citare l’ultimatum di due settimane (il 25 febbraio 2013, ndr) dato da Karzai alle forze speciali straniere perché lasciassero la provincia di Maidan Wardak dopo che gli abitanti avevano denunciato continui raid, saccheggi, molestie e torture da parte delle truppe straniere.

Una donna, che ho incontrato mentre andavo a Peshawar, mi ha raccontato tra le lacrime di essere stata picchiata dai militari senza nessuna ragione mentre si trovava al mercato. C’è stata anche una manifestazione degli anziani a Kabul per protestare contro questi maltrattamenti e chiedere il ritiro delle forze speciali dalla loro provincia. Ma l’ultimatum è scaduto e le forze speciali non si sono ritirate.

C’è ancora un futuro per Karzai?
Il presidente è già al secondo mandato e quindi non potrebbe più essere rieletto, ma tutto può essere cambiato se conviene agli Usa. Si tratta per cercare un accordo con tutti i fondamentalisti, il prossimo potrebbe anche essere un governo taleban, ma sarà sicuramente pro-occidentale.

Pare che gli Usa abbiano ripreso i negoziati con i taleban in Qatar…
È chiaro che l’intervento Usa in Afghanistan dopo l’11 settembre non era per portare la giustizia, l’obiettivo era strategico. In tutti questi anni hanno capito che l’importante è che al governo ci sia chi può servire meglio gli Usa. Del resto Jo Biden, durante la sua visita a Kabul, ha detto che i taleban non sono nemici degli Usa, basta che non appoggino i terroristi e un accordo si può trovare.

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Nuova vita per Manizha. Un’altra giovane afghana salvata dalla violenza.

l’Unità – 31 marzo 2013 di Cristiana Cella

31marzo 150x150Grazie ai nostri lettori che sostengono il progetto «Vite preziose» è stata messa in salvo questa ragazza massacrata dal marito.

ABBIAMO RACCONTATO, IN FEBBRAIO, LA TERRIBILE STORIA DI QUESTA GIOVANE DONNA, INSERENDO D’URGENZA IL SUO CASO, SU RICHIESTA DI HAWCA, nel progetto «Vite Preziose».Due anni di matrimonio, passati, per la maggior parte, legata, in una cantina, picchiata, frustata, torturata dal marito, dal suocero, da tutta la famiglia.

Abbiamo chiesto aiuto ai nostri lettori e agli sponsor che già partecipano, da due anni, al progetto. La risposta è stata generosa e immediata. I contributi raccolti, nelle mani di Hawca, hanno permesso a Manizha di essere curata in un buon ospedale e la stanno aiutando nel suo cammino di ritorno alla vita. Carla Dazzi e Patrizia Fiocchetti, socie dell’associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), hanno incontrato, a Kabul, per noi, Manizha e la sua famiglia.

Una casa di mattoni, pulita, dignitosa. È qui che abita adesso Manizha, dimessa dall’ospedale, con la sua famiglia. Un rifugio sicuro, scelto da Hawca, in un quartiere protetto, innumerevoli cantieri, dove il padre ha trovato lavoro. L’indirizzo è segreto, Patrizia e Carla devono entrare in fretta, per non insospettire i vicini con la loro visita. Manizha è stata curata bene, ha ritrovato il suo bel viso, incorniciato da uno scialle nero, lo sguardo di bambina. Sembra più giovane dei suoi 20 anni. Ma è ancora sotto shock, stranita, lontana dalla realtà, spaventata.

Difficile parlare di quello che le è successo. Scoppia a piangere e continua a ripetere una domanda che non trova risposta: «Perché mi hanno fatto questo? Io non ho fatto nulla di male».

Il marito è suo cugino primo. Le violenze, raccontano, peggiorano quando il suocero si ammala di cancro. La disperazione, la rabbia, trovano un capro espiatorio. Manizha si dà da fare per curarlo ma viene accusata e punita, ogni giorno.
È stata proprio la malattia del fratello a portare il padre della ragazza a Ghazni, dove abita la famiglia. L’incontro con la figlia lo sconvolge. È irriconoscibile. Così decide di portarsela via, con una scusa. Manizha, nipote, cugina, nuora e moglie massacrata, non tornerà mai più in quella casa. Un gesto temerario, un affronto per le feroci regole tribali che se ne infischiano della legge e infierisco, soprattutto sulle donne.

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A Kabul non arriva la Primavera. Festa delle donne in Afghanistan dove si lotta per restare vive

l’Unità – 13 marzo 2013 di Cristiana Cella

13marzo 150x150Nonostante i divieti dei talebani il Partito della Solidarietà che si batte contro i fondamentalismi e per i diritti ha riunito 1500 esponenti. «L’Occidente non si dimentichi di noi»

Ben 1500 donne sono arrivate nella sala di un hotel di Kabul, da tutte le province afghane, con ogni mezzo, da tutte le province afghane. Attiviste e cittadine comuni, che si stringono, una accanto all-altra, che ascoltano commosse, si abbracciano, condividono una giornata e un impegno per il futuro. Ci sono anche i bambini, nelle prime file, e molti uomini, al loro fianco.

Da festeggiare c’è poco. L’8 marzo a Kabul, ha un forte significato di lotta e di denuncia per Hambastagi, il Partito della Solidarietà, che ha organizzato venerdì scorso, un grande evento nella capitale. E non potrebbe essere altrimenti date le condizioni di violenza e ingiustizia in cui è costretta a vivere la maggior parte delle donne afghane. Un evento molto impegnativo per un partito con pochi mezzi, che conta solo sui suoi aderenti e sul sostegno di movimenti democratici occidentali, ma che raggiunge nel paese più di 30.000 iscritti.

Poco conosciuto sui media occidentali, il Partito di sinistra, fondato nel 2004, si batte contro ogni forma di fondamentalismo islamico, contro l’occupazione straniera e per una democrazia laica che garantisca diritti a tutti, specialmente alle donne. Valori difficili da affermare, oggi, in Afghanistan.

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Il disastro infinito della guerra in Afghanistan: la produzione di eroina cresciuta di 40 volte dal 2001

greenreport.it – 3 aprile 2013

La guerra in Afghanistan, un conflitto mai dichiarato al quale partecipa, con un insostenibile contributo di sangue e denaro, anche l’Italia è sprofondata ormai da anni in una palude labirintica dalla quale gli occidentali non sanno come uscire senza perderci la faccia, dopo averci perso qualsiasi credibilità, visto che era nata per cacciare i talebani, armati dallo stesso occidente per sfrattare il regime filosovietico e i carri armati dell’Armata Rossa, e poi Osama Bin Laden che se ne stava al calduccio nella sua villa pakistana premurosamente assistito dai servizi segreti di Islamabad.

Ora i russi si tolgono qualche sassolino dalla scarpa afghana e sciorinano cifre che documentano il fallimento di una guerra che era anche guerra alla droga (quella per l’emancipazione femminile è stata subito accantonata), all’eroina usata dai mujahedin e talebani per comprare armi ed avvelenare l’occidente. Ma era stato proprio il regime integralista del Mullah Omar, alleato di Bin Laden, a distruggere i campi di papavero da oppio, che sono tornati a fiorire come non mai con l’occupazione Nato.

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Afghanistan: l’acqua, la guerra del futuro

Osservatorioiraq – 26.3.2013 – di Anna Toro

AfghanCon il prossimo ritiro delle truppe Nato, il controllo delle fonti d’acqua e la costruzione delle infrastrutture idriche rischiano di diventare la principale causa di conflitto, sia interno che con i paesi vicini.

L’Afghanistan è in gran parte un paese agricolo, perciò gli investimenti nel settore idrico dovrebbero essere una priorità naturale per uno sviluppo economico sostenibile del paese, specie dopo decenni di conflitto. Tuttavia, questo non è avvenuto.
Nella strategia nazionale di sviluppo e nel quadro di riferimento per l’assegnazione degli aiuti internazionali, l’acqua non figura come un settore di base su cui puntare.
Negli ultimi dieci anni, infatti, solo il 5% degli investimenti in Afghanistan sono stati indirizzati al settore idrico.
Il governo si è impegnato concretamente per un cambiamento in questo senso solo di recente, e ciò ha portato alla nascita di attriti molto forti con i paesi vicini, in particolar modo con l’Iran e il Pakistan.
Il problema dipende dal fatto che tutti e due i paesi a valle dipendono dagli stessi fiumi, ed entrambi hanno paura che qualsiasi riduzione del flusso potrebbe avere effetti economici e geopolitici negativi per tutti.
Per decenni, i paesi vicini non hanno mai dovuto preoccuparsi dell’acqua che scorre dall’Afghanistan, dal momento che l’hanno potuta sfruttare a piacimento sfruttando delle infrastrutture essenzialmente inesistenti.

È così che l’Afghanistan ha sempre visto circa i due terzi del proprio oro blu prelevato ogni anno a beneficio di terre straniere, senza che la popolazione abbia mai potuto fare nulla per usufruirne.
“Siamo dotati di molta acqua, e solo noi possiamo gestirla. Attraverso un corretto uso di questa risorsa, saremo in grado di affrontare anche i pericoli legati ai cambiamenti climatici globali in atto”, ha detto finalmente Karzai alla Terza conferenza nazionale per lo sviluppo delle risorse idriche tenutasi a gennaio.
Ecco però che, non appena Kabul ha messo in chiaro che intende andare avanti con i suoi piani per la costruzione delle dighe e dei sistemi di irrigazione interni, le ostilità si sono accese.
Secondo Iran e Pakistan, questi progetti causeranno enormi sconvolgimenti, senza contare che la mancanza di accordi sui corsi d’acqua transfrontalieri ha già portato a episodi di violenza lungo i confini.
Il governo afghano, dal canto suo, accusa i due paesi di orchestrare queste violenze proprio per fermare i suoi progetti idrici.

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Afghanistan: “No burqas behind bars”

Osservatorioiraq – 24.03.2013 di Maria Letizia Perugini

Vincitore del premio speciale della giuria al Festival del cinema sui diritti umani di Parigi, “No burqas behind bars” racconta le storie di diverse detenute afghane, e di come la società tenga ancora in scacco le sue donne, impugnando contro di loro “la morale”.

Dopo Love Crimes of Kabul, ecco un altro documentario che offre uno scorcio particolare sulla vita delle donne afghane: anche le voci delle protagoniste di questa intervista corale arrivano da una prigione.

 Si chiama “No burqas behind bars”, e racconta la vita e le storie di donne detenute nel carcere di Takhâr, a nord di Kabul, spesso con dei bambini nati dietro le sbarre. I reati per i quali sono state condannate sono per la maggior parte delitti contro la ‘morale’: 10, 15, 16 anni di carcere per aver tentato di fuggire dalle violenze del focolare domestico.
Donne vendute bambine a uomini con il triplo della loro età, condannate a subire trattamenti inumani, che hanno cercato una via di fuga e per questo sono state punite.
O anche donne che, coraggiosamente, hanno seguito il cuore, fuggite perché innamorate di qualcuno che non era l’uomo a cui la famiglia le aveva destinate.

Sono queste alcune delle storie che i due registi iraniano-svedesi, Nima Sarvestani e Maryam Ebrahimi, hanno raccolto dalle voci dirette delle protagoniste. Sono serviti due mesi di contrattazioni con le autorità locali per riuscire ad ottenere la possibilità di entrare nella prigione con una telecamera.
Qui, i detenuti sono più di 500, le donne quaranta. La prima cosa che sorprende è la possibilità di vedere i loro volti. Solcano l’ingresso del carcere con il tradizionale velo azzurro e le manette ai polsi, poi si spogliano di ogni ‘protezione’.

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Quando Mah Gul è stata decapitata…

The Post Internazionale

Una giovane donna afgana aveva rifiutato di prostituirsi… ma il mondo ha ignorato la sua vicenda.

La maggior parte di noi non saprà mai chi è Mah Gul o si dimenticherà molto presto di lei. Mah Gul era una giovane donna di 20 anni e viveva ad Herat, in Afghanistan. È stata decapitata dalla famiglia di suo marito, nell’ottobre del 2012, per aver rifiutato di prostituirsi.

Quando Mah Gul è stata decapitata

Il mondo non ha tremato.
Quando Mah Gul è stata decapitata, nessuno ha acceso una candela. Nessuno ha pregato per lei. Nessuno le ha scattato una foto. Nessuna città ha esposto manifesti con sopra il suo nome e la sua foto. Nessuno ha raccontato la storia della sua vita, i suoi sogni, la sua felicità, la sua tristezza, il suo sorriso o il modo in cui osservava il mondo.
Quando Mah Gul è stata decapitata, nessuno ha elogiato la sua integrità, il suo coraggio, la sua moralità.
Quando Mah Gul è stata decapitata, i miei amici di Facebook scrivevano dei loro cibi preferiti o delle loro difficoltà quotidiane.
Quando Mah Gul è stata decapitata, gli spensierati ragazzi afgani definivano una giovane donna come una ‘puttana’.
Quando Mah Gul è stata decapitata, i talebani usavano le donne come copertura per portare i loro feriti agli ospedali.
Quando Mah Gul è stata decapitata, gli stanchi poliziotti afgani fumavano in cima alla collina Maranjan.
Quando Mah Gul è stata decapitata, un poeta descriveva il sapore che avevano le labbra della sua amata.
Quando Mah Gul è stata decapitata, i reportage parlavano del dibattito presidenziale in America.
Quando Mah Gul è stata decapitata, un soldato in Afghanistan scriveva una lettera a suo figlio.
Quando Mah Gul è stata decapitata, gli insegnanti afgani ricopiavano per l’ennesima volta una storia noiosa e distorta sulle lavagne.
Quando Mah Gul è stata decapitata, una prostituta di Kabul era appoggiata a un muro freddo, piangendo dalla fame.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le emittenti televisive afgane trasmettevano le soap opera indiane.
Quando Mah Gul è stata decapitata, il nostro vicino stava picchiando di nuovo sua moglie.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le donne di Herat stendevano le camicie ad asciugare, sperando di sentirsi un giorno libere.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le donne americane facevano yoga per alleviare lo stress.
Quando Mah Gul è stata decapitata, un “intellettuale” afgano commentava il fatto che oggi le donne indossano veli più piccoli, e un mullah locale predicava di come il lavoro alle donne promuove la prostituzione.
Quando Mah Gul è stata decapitata, Angelina Jolie non lo sapeva.
Quando Mah Gul è stata decapitata, le nostre allieve non hanno indossato veli neri in segno di lutto.
Quando Mah Gul è stata decapitata, il presidente era molto impegnato.
Quando Mah Gul è stata decapitata, il mondo non ha tremato. In ogni parte del pianeta, le persone continuano la catena di montaggio delle loro vite.
Quando Mah Gul è stata decapitata, sua madre ha sorriso, perché sua figlia era finalmente libera.

Dal blog di Noorjahan Akbar per The Post Internazionale
Traduzione di Federica Flisio