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Autore: Anna Santarello

Rawa, la lotta all’egemonia imperialista

da Kabul Enrico Campofreda – 19 marzo 2013 – Contropiano

9dd28056cb4b9a909e856688ba2add55 LIl 1977 fu un anno simbolico anche per l’Afghanistan. In quel periodo un pugno di attiviste coordinate da Meena Kamal diede vitaal Revolutionary Association Women of Afghanistan, un movimento passato attraverso i quarant’anni di totale instabilità del Paese e delle sue guerre provocate e subìte.

Tramontati regimi e governi fantoccio, sorti purtroppo di nuovi questo coriaceo movimento femminile resta comunque vivo e attivo. La fondatrice venne assassinata nel 1987, altre presero il testimone.
È un gruppo indubbiamente minoritario ma puntuale nell’intervenire a difesa dell’oppressione delle donne e di strati sociali bisognosi nonostante le sue attiviste agiscano in una condizione di semiclandestinità. Offrono i minori indizi possibili agli organi repressivi, a cominciare dal loro nome che non è mai quello reale, chiamatelo nomignolo di battaglia se volete.

Di fatto sono appellativi normali e più che ammantarsi di retorica queste formidabili ragazze puntano alla concretezza dell’operato. Sono presenti in ogni provincia del Paese e nel vicino Pakistan nei cui campi profughi generazioni di militanti hanno sviluppato reclutamento, formazione e cultura.

Attiviste affidabili e determinate
Iniziano a responsabilizzarsi giovanissime, 13-14 anni, affiancando compagne più esperte e sottoponendosi con naturalezza a quel praticantato della militanza che le forgia e può portarle ai vertici del movimento e nelle istituzioni, com’è accaduto a qualcuna diventata celebre. Quel che evitano accuratamente è il personalismo, vero cancro di sedicenti antagonismi sparsi per il mondo che anziché praticare un impegno collettivo per finalità comuni insegue interessi individuali.

Rawa parla solo al plurale e ha radici fra la gente perché vive fra la gente. Incontriamo due di loro, sotto i trent’anni eppure preparatissime sia sul versante della professione acquisita, una è psicologa, sia da conseguire: l’altra si laureerà in legge. E ovviamente su questioni politiche. Iniziano a discorrere del futuro. “Non vediamo svolte a breve termine.
L’occupazione straniera continuerà seppure con nuove forme. Gli Usa lasceranno un numero limitato di truppe di terra. Notizie a nostra disposizione oscillano fra le 6 mila e 20 mila unità. Ma non è questo che fa la differenza. L’imperialismo statunitense continuerà a usare il nostro Paese per la sua strategia geopolitica, le basi di Herat e Khandar hanno finalità di guerra aerea e altre strutture sono in preparazione”.

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Afghanistan. “La Nato ha fatto gli stessi errori dei sovietici”

di: F.C. – 16 marzo 2013 – Rinascita.eu

francesiIn Afghanistan la Nato ha replicato gli errori dei sovietici negli anni ‘70-’80, cercando di imporre al popolo afgano un’ideologia straniera e cercando di sostenere un governo corrotto e impopolare. È un rapporto durissimo quello redatto dal think tank del ministero della Difesa britannico e pubblicato venerdì dal quotidiano Indipendent.

Con l’eloquente titolo “Lezioni dalla transizione sovietica in Afghanistan”, il documento descrive in maniera impietosa le similitudini tra le due – disastrose – campagne militari, quella sovietica e quella della Nato. “Il parallelo più importante – si legge – è che entrambe le campagne militari sono state concepite con l’intento di imporre un’ideologia straniera al popolo afgano: i sovietici speravano di creare uno Stato comunista, mentre la Nato puntava a instaurare la democrazia”.

Per far questo, sottolineano gli analisti britannici, “entrambi gli interventi […] hanno cercato di sostenere un governo corrotto e impopolare contro un movimento di rivolta locale che ha il sostegno della popolazione, una forte motivazione religiosa e santuari all’estero”.

Alla fine, tanto i sovietici quanto gli occidentali, si sono trovati costretti “ad abbandonare il proprio obiettivo una volta compresa che la guerra non si poteva vincere in termini militari e che il supporto della popolazione era essenziale”.

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“Ricordarli vivi” e ricordare i vivi: l’importanza della testimonianza nel mondo

di Flavia Famà – 16 marzo 2013 – Liberainformazione

7641 103x72Un 16 marzo per camminare insieme ai familiari delle vittime delle mafie. Per chiedere di non dimenticare e di proseguire l’impegno. Ma anche per continuare a studiare. A conoscere. Così Libera ha organizzato per il pomeriggio del 16 marzo a Firenze 25 seminari. Su Libera Informazione il racconto.

Il primo a seguire a cura di Flavia Famà.

Quando l’antimafia si fa non violenta è il titolo del seminario organizzato dal settore internazionale di Libera che si è svolto questo pomeriggio in una sala gremita del centro anziani a Firenze. Ospiti d’eccezione Perez Esquivel, pacifista argentino, premio nobel per la pace nel 1980, per le denunce contro gli abusi della dittatura militare argentina negli anni settanta, una donna afghana che chiameremo Mariam, attivista dell’associazione RAWA rivolutionary association of women of Afghanistan e Davide Ziveri del Comitato Salvagente.

Perez Esquivel si è speso in prima persona nella tutela dei diritti umani durante gli anni del regime militare e per questo è stato imprigionato e torturato, ha dedicato e dedica la sua vita alla lotta per la giustizia e quando un giovane uditore gli chiede come si possa reagire alla violenza e cosa può fare ognuno di noi, lui ci regala un’immagine quella di una mano. Con un solo dito non si può far molto, con due forse si può afferrare qualcosa di piccolo, di leggero, con una mano intera riusciamo a stringere qualcosa, ma se dobbiamo sollevare qualcosa di pesante ci servono tante mani, insieme possiamo trasformare la società.

Aver paura, ci dice, non è un problema in se, è umano, ma non bisogna mai perdere la dignità e la propria identità e questo é possibile con la partecipazione e l’unione dei popoli.

L’idea che ‘l’unione fa la forza’ è stata il leitmotiv dell’incontro, anche l’attivista afghana, Mariam, ci ha testimoniato quanto sia fondamentale lavorare insieme sopratutto in una realtà in guerra.

Per capire gli ultimi quattro decenni di conflitto politico e caos in Afghanistan si deve studiare la sua collocazione geopolitica e l’influenza che l’occupazione dell’Unione sovietica prima e degli Stati Uniti dopo ha avuto nella nascita e nella persistenza dei fondamentalismi. Mariam ci racconta la realtà quotidiana che vivono le donne afghane, quella che purtroppo i media occidentali non raccontano e che le pone davanti a due nemici, gli USA occupanti che bombardano i villaggi e il Governo di Karzai composto da fondamentalisti e signori della guerra.

La realtà che ci viene raccontata è quella di un Paese che produce il 93% dell’oppio prodotto nel mondo anche grazie alla collaborazione di alcuni militari della Nato, le cui basi sono spesso diventate centri di smistamento della droga.

“La mafia è presente in ogni aspetto della nostra vita quotidiana, non è soltanto narcotraffico o tratta di esseri umani, ma anche controllo politico. I signori della guerra, war lords, sono parte della nostra classe politica, i membri del nostro Parlamento e del nostro Governo sono anche signori della droga, drug lords.” Emerge forte la denuncia di un sistema corrotto che per molti aspetti ritroviamo anche in Italia, quel compromesso, quella contiguità e quel controllo politico contro il quale combattiamo quotidianamente anche qui.

Ci racconta di un giornalista straniero che qualche anno fa ha provato a raccontare queste vicende ed è dovuto scappare via perché minacciato, l’interprete che lo accompagnava è stato ucciso.

In Afghanistan la situazione è drammatica ma anche li da tanti anni c’è un movimento non violento che cerca di resistere e di costruire un’alternativa. RAWA nasce nel 1977 a Kabul come associazione socio-politica indipendente di donne afghane in lotta per i diritti umani e la giustizia sociale. Fu fondata da un gruppi di donne intellettuali guidate da Meena, poi assassinata nel 1987 in Pakistan; la mamma di Mariam è un’attivista di RAWA e dopo l’omicidio del padre scappano in Pakistan dove RAWA è una realtà concreta di formazione e di educazione della popolazione ai diritti, obiettivo principale dell’associazione.

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Roshan, la voce del dissenso

Contropiano da Kabul – Enrico Campofreda – 17 marzo 2013

Roshan 150x150Belquis Roshan è stata eletta come indipendente nella provincia di Farah e siede nella Mehrano Jirga, la Camera Alta. È una delle 22 donne presenti in quel ramo del Parlamento afghano e una delle pochissime, se non attualmente l’unica, a esprimere energicamente il proprio dissenso alla politica dell’Esecutivo che ha conferito la carica di vicepresidente a due feroci Signori della guerra: Mohammed Fahim e Karim Khalili.

Per il ruolo ricoperto costoro si sono trasformati in Signori del business anche grazie agli assist ricevuti dall’occupazione occidentale. Roshan, formatisi nel movimento Rawa (Revolutionary Association Women of Afghanistan), è stata per un lungo periodo nella segreteria di Malalai Joya. Il padre anziano e cieco le diceva sempre di tenersi lontana dalla politica, lei caparbia ha fatto di testa sua. Ora che è entrata nella massima struttura legislativa del Paese l’ha convinto della bontà di scelte piene di profondo valore sociale.

Senatrice Roshan, lei non lesina aperte critiche al sistema Karzai, che futuro vede per il Paese?
Il futuro appare nero. Nerissimo. Non credo che il tanto sbandierato definitivo ritiro occidentale ci sarà perché ci sono troppi interessi strategico-militari e anche economici. Gli americani stanno lavorando per una riduzione cospicua delle truppe di terra che hanno incamerato sconfitte e registrato morti. Obama o chiunque per lui non può più giustificare così tante vittime verso la propria opinione pubblica. Gli Stati Uniti si concentreranno sulle basi aeree, controllando il territorio con l’uso dell’altissima tecnologia. 

Nel qual caso c’è chi ventila l’ipotesi di una riedizione della guerra civile.
È un’ipotesi sciagurata che nessun afghano vorrebbe, compresi taluni Signori della guerra ora molto occupati negli affari perseguiti con varie attività interne (commercio, edilizia, appalti) che gli fruttano capitali esportati all’estero e nei paradisi fiscali. Un nuovo conflitto interno, che peraltro non manca perché alcune province sono sotto il controllo talebano, è considerato da qualche osservatore uno spettro con cui intimorire la gente per lasciare inalterato l’attuale panorama. Il pericolo maggiore per il Paese è proprio rappresentato dal conflitto sospeso e protratto nei decenni a venire che blocca tutto e non risolve i problemi reali.

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Crimini di guerra in Afghanistan, il passo alterno delle Nazioni Unite

Contropiano – da Kabul, Enrico Campofreda – 16 marzo 2013

213f2d15c20f1ef86c85520cdb33bae1 720x300Il Saajs (Social Association of Afghan Justice Seekers) si occupa dal 2007 di crimini di guerra, soprattutto di vittime di quella civile e del governo talebano. Weeda Ahamad e’ la responsabile dell’associazione e ha attorno uno staff  composto non solo di giovani che stanno conoscendo le miserie della nuova occupazione ma, non senza difficiltà, raccolgono le testimonianze delle violenze trascorse.

“È un lavoro difficile – commenta Weeda – le persone che pure hanno subito tanti soprusi cercano di rimuovere e dimenticare oppure non si fidano. Quando all’inizio bussavamo alle porte non ci aprivano perche’ pensavano fossimo agenti del governo. Molti non vogliono puntare il dito su guerrafondai e assassini  perche’ continuano a temerli per il ruolo istituzionale oggi ricoperto”.

Del resto basta ascoltare il racconto di una di queste persone, il signor Esatollah, che a un certo punto ha iniziato a collaborare col Saajs. L’uomo, anche per l’età, é il decano gruppo. Grazie al radicamento nella città vecchia ha raccolto da solo 400 atti d’accusa che costituiscono quasi la metà del dossier dell’associazione.

Durante il conflitto civile compreso fra il 1992 e il 1996 l’intera Kabul visse un assedio peggiore di quello che in contemporanea subiva Sarajevo. Lì morirono in 12.000 a Kabul fra le 60 e le 80.000 persone. La città bassa era continuamente battuta dall’artiglieria che vedeva contrapposte le truppe dell’unico Signore della guerra osannato come un eroe nazionale, Ahmad Massoud, disposte a ovest sull’Aasmaee Mountain e quelle guidate da Rasul Sayyaf schierate sull’altura opposta. Posizioni mantenute a lungo mietendo vittime e non erano gli unici comandanti a combattersi.

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Kabul. Hambastagi, lotta democratica a un passo dalla clandestinità

Contropiano – Da Kabul – Enrico Campofreda – 14 marzo 2013

4b003daa7d290675c622cc35c52a05d8 720x300Dopo la manifestazione dell’8 marzo dedicata alla questione femminile ma con l’occhio sempre rivolto alla realtà del Paese – meeting che  ha raccolto una delegazione di seicento persone  rigorosamente al chiuso per ragioni di sicurezza – incontriamo alcuni dirigenti del partito Hambastagi in una delle sedi-appartamento nella periferia della capitale. La formazione politica è legale ma il livello di guardia è altissimo. L’establishment di governo cerca ogni pretesto, giuridico o generico, per ostacolarne l‘attività.

Un anno fa proprio uno dei giovani dirigenti presenti fu arrestato nel corso d’una protesta organizzata davanti al ministero dell’Interno; venne rilasciato dopo diverse settimane a seguito di un’ampia pressione politica internazionale. E non sono mancate aperte minacce ai militanti piu’ noti col preciso scopo di spezzare il rapporto che il partito cerca con la popolazione.

Colpire la dirigenza e intimorire i simpatizzanti ha la finalità d’isolare questa forza democratica apertamente schierata contro Karzai e i suoi vice, Fahim e Khalili, noti ed efferati Warlords.

Signori Afisullah, Saman Basir, Tufenda nel giorno del vostro appuntamento politico si è verificato un attentato in pieno centro, che situazione c’è attualmente?
Era un’azione talebana rivolta al capo del Pentagono in visita a Kabul. Tutto e’ diventato  precario, il governo maschera un controllo del territorio ma esso e’  relativo nella stessa capitale. Negli ultimi mesi la situazione e’ peggiorata, s’inizia a respirare l’aria del parziale  ritiro del contingente Isaf e i politici locali che non hanno corpi paramilitari non si sentono sicuri. I funzionari dell’apparato straniero non si fidano dell’esercito afghano. Il ministero della Difesa recluta da due anni una gran quantita’ di  giovani, ma selezione ed esercitazione lasciano a desiderare. Per i talebani è facile infiltrare uomini, come dimostra piu’ di un attentato. Parecchi vestono la divisa perché avranno pasti e uno stipendio, in tanti casi si tratta di soggetti senza scrupoli, ladri e criminali.

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Opawac, impegno anziché lacrime

Contropiano – Da Kabul – Enrico Campofreda – 14 marzo 2013 

6cddb40e9484f734ee65b71f05c3e74d 720x300Per Najla, Nasrin, Samira, Arzoo  l’emancipazione passa per l’antica arte del cucito e altre forme artigianali che imparano in una delle scuole tenute da Opawac (Organization Promoting Afghan Women’s compatibilities) nella capitale afghana.

La struttura è in una traversa fangosa di una delle cinque grandi arterie asfaltate che portano in centro. S’impartiscono lezioni di alfaberizzazione a certe bambine e donne adulte finora private  dell’educazione primaria, e corsi professionali della durata di nove mesi per ragazze dai 14 anni in su. Alla fine giunge un attestato di abilitazione a cucito, ricamo, artigianato e avviamento informatico.

Le insegnati sono tre donne determinatissime e due giovani uomini, il clima e’ partecipato e festoso. Il governo afghano, tramite il ministero dell’Istruzione, spedisce periodiche ispezioni di verifica ma non elargisce nessun finanziamento. Questi giungono solo da Ong amiche come l’italiana “Insieme si puo’” e un’associazione australiana. La responsabile di Opawac è Latifa Ahmadi, trentuno anni, tre figli e un amore immenso per le donne del suo Paese che accompagna per mano nella ricerca di normalità.

Dice “L’istruzione è l’obiettivo primario, quel diritto che i talebani avevano tranciato durante i cinque anni del loro governo e che le forze conservatrici dell’attuale regime Karzai cercano di limitare. Non è un caso che un recente editto della Shura degli Ulema, che vuole impedire il lavoro misto di donne e uomini, sia stato firmato dall’attuale presidente afghano”.

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Malalai, la combattente della ragione

Contropiano – Da Kabul – Enrico Campofreda – 12 marzo 2013 

6fc2bb70aafbba4de37b3e59b52890fb 720x300Da Kabul una interessante intervista alla ex deputata afghana che dopo aver puntato il dito contro alcuni criminali seduti in parlamento vive da anni sotto la costante minaccia dei signori della guerra.

La voce di Malalai è sempre dolce e determinata e il monito simile all’annuncio dato tempo fa al mondo di un impegno “finché avrà voce”. Ma da quella primavera del 2003 quando puntò il dito contro taluni criminali seduti in Parlamento la sua vita é itinerante, a Kabul, in certe province come nelle trasferte che periodicamente affronta per cercare sostegno alla causa di un Afghanistan democratico. Malalai Joya, la combattente della ragione, é costretta a un’esistenza clandestina per la minaccia alla sua incolumità, attentata ben otto volte, dai nemici giurati. Assalti fortunatamente falliti.

Come sta signora Joya?
“Finora posso dire bene, grazie. Purtroppo so quel che rischio, ma non rinuncerò al ruolo che mi compete e alle aspettative del mio popolo. Da quando non posso apparire in pubblico (in Afghanistan sono diversi anni che vive scortata da un nugolo di fidatissimi attivisti armati, ndr) galoppano dicerie e false notizie: Malalai è fuggita all’estero, Malalai  vi ha tradito. Niente di tutto questo.
Mi conforta sapere che chi mi è vicino non cade nel tranello e il movimento ha sempre nuove leve. Nonostante l’occupazione militare permanente e una specie di normalizzazione inventata dal governo Karzai, in tante  province cresce il malcontento contro tale gestione dello Stato. Il nostro impegno e’ indirizzare la rabbia verso soluzioni democratiche, soprattutto fra le fasce piu’ povere che possono cedere alle lusinghe talebane”.

E come fate, vivendo in una clandestinità forzata?
“Non tutti lo siamo. Negli ultimi due anni stanno aumentando desiderio e coscienza di una politica pulita alla luce del sole che ponga al centro il tema della giustizia contro le distruttive soluzioni già provate: Taliban, Signori della guerra, governi servili e piegati all’Occidente. Certo dobbiamo affrontare situazioni molto dure. Le forze talebane, oltre all’organizzazione militare, mostrano capacità di propaganda e analisi politica. Mentre i gruppi paramilitari interni sono radicati in certe aree perche’ ne controllano l’economia illegale basata su produzione e traffico dell’eroina (e non sono gli unici, ndr). La stessa ipotesi che, dopo il ritiro delle truppe Isaf, possa scoppiare un nuovo conflitto interetnico simile  a quello degli  anni Novanta è uno spettro che cerca d’intimorire la gente con una situazione senza sbocchi”.

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La speranza nelle mani delle ragazze di Kabul

Il Manifesto 9/3/2013 – intervista di Massimo Annibale Rossi

malalai joya bonn 400 150x150«Vorrei riunire le menti liberali per ricostruire il nostro paese, superando l’attuale servitù» «Nei media e nelle università, la presenza iraniana è sempre più aggressiva»
È una donna minuta, con uno sguardo intenso e un vestito di cotone colorato, che scandisce le parole, irrompendo in un gentile sorriso. È stata minacciata dai talebani quanto dai mujaiddin. Scampata a numerosi attentati, è divenuta un simbolo in questo Afghanistan senza requie.

È Malalai Joya, la giovane delegata che nel 2003 all’Assemblea del popolo di Kabul osò puntare il dito contro i Signori della guerra. Fu espulsa dal Parlamento nel 2006 ed ha continuato la sua lotta con un seguito senza pari nelle province di Herat e Farah, della quale è originaria. Sostiene che l’Afghanistan debba autodeterminarsi, chiede il ritiro delle “truppe di occupazione”, la fine della discriminazione delle donne e un pubblico processo per i War Lord che siedono in parlamento.

Cosa pensa dell’attuale Afghanistan?
Il nostro è un governo fantoccio e rappresenta interessi mafiosi: undici anni di false speranze hanno mutato il paese in un centro per la produzione di droga. La situazione della donna rimane catastrofica come al tempo dei Talebani e l’Afghanistan continua ad essere una delle più corrotte nazioni al mondo.

La maggior parte dei dollari ricevuti dalla comunità internazionale per la ricostruzione sono finiti nelle mani dei War Lord. Qui l’80% della popolazione è sotto la soglia di povertà e ci sono madri, come accaduto di recente a Kabul, che devono vendere i propri figli perché non possono mantenerli. Dietro la maschera della democrazia, Usa e Nato hanno ucciso migliaia di persone innocenti , hanno bombardato civili e mantenuto l’occupazione militare. Ora annunciano impunemente che i Talebani, che furono causa dell’ intervento, non sono più nemici.

Li fanno rilasciare dalle prigioni, trattano con loro, li accolgono a Kabul a spese del governo. Credo che questo tipo di pace sia più pericoloso della guerra, perché unisce i nemici dell’Afghanistan e consolida un falso governo. Grazie alle forze Nato, oggi è inoltre più semplice eliminare gli oppositori. Gli afgani stanno comprendendo di avere una grande responsabilità: la democrazia non si può esportare. Ogni popolo deve liberare se stesso.

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Campo Parwan, gli afghani dimenticati

Contropiano 11 marzo 2013 – Da Kabul, Enrico Campofreda

f9b7058ea12ac1c43ecb9bbcf10ae631 720x300“Ci vivono in circa cinquecento, appartenenti a cinquantacinque famiglie con un mare di bambini  esposti a ogni genere di malattia”.

L’abbandono degli ultimi fra gli afghani ha le piaghe di una bimba di quattro anni, una scabbia lacerante e non sappiamo oltre per mancanza di competenze dermatologiche. Né lo sa il padre e neppure Imam, un quarantaduenne dignitoso responsabile del campo profughi di Parwan, impiantato ai margini di Kabul da dodici anni.

Ci vivono in circa cinquecento, appartenenti a cinquantacinque famiglie con un mare di bambini  esposti a ogni genere di malattia. Un focolaio di contagio perenne perche’ in quello spazio di capanne di fango e sterco di vacca, ristretto sempre piu’ dall’assedio di nuove costruzioni, c’è solo una bocca d’acqua che non disseta nessuno dei presenti perché non è potabile.

Il prezioso liquido, primo passo per l’igiene come recita un cartello dell’Unicef affisso su una baracca, viene elemosinata nel quartiere circostante, di porta in porta in casupole povere ma almeno coi  mattoni che sopperiscono all’assenza di fontane nelle strade della capitale. I profughi provengono da nord, Parwan appunto, e nord-est le province di Jalalabad, Kapisa e Laghman.
Sono qui perché hanno perso tutto: abitazione, terra, animali per colpa delle guerre infinite che straziano il Paese. L’ultima è  la nostra, l’Enduring Freedom bushiana fatta sua dall’intero Parlamento italiano che dal 2004 vota compatto per la “Missione di pace”. Anche di recente i bombardamenti Isaf  hanno provocato lutti a Laghman e raso al suolo il tetto di chi ora è ridotto allo stremo in quest’angolo alle porte Kabul.

Zero infrastrutture
I cooperanti veri, che vivono a contatto con casi di discriminazione assoluta, affermano che situazioni del genere sono rare in qualsiasi parte del mondo. Dell’acqua sapete, fogne neanche a parlarne e figurarsi se è presente energia elettrica. Questa comunità è dimenticata da tutti, dagli stessi progetti della Comunità Internazionale che qui s’è fatta viva solo con una Ong tedesca che ha montato due tende per una scuola frequentata in due turni, 8-12 e 12-16, da cento maschietti e sessanta bambine dai sei ai quindici anni. A seguirli due giovani insegnanti afghani di buona volontà: Faisallah e Nur Apha. Dice Imam “Cosi’ almeno i nostri figli potranno imparare a leggere e scrivere.
Nella scuola statale non li volevano perché sono malvestiti e puzzano. Il governo non ci fa neppure l’elemosina. L’anno passato ogni famiglia ha ricevuto un sacco di grano e cinque litri d’olio dall’Onu poi nulla piu’. Noi uomini cerchiamo lavoro ma e’ difficile avere continuità. Possiamo fare per qualche giorno i facchini però quel poco che guadagnamo non basta per vivere. Ho parlato coi capi famiglia per aiutare quelle donne che non hanno nessuno accanto, raccogliamo cio’ che possiamo per sostenerle”.

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