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Autore: Anna Santarello

La crisi non ferma la solidarietà delle “vite preziose”

Di Cristiana Cella, L’Unità, 23 maggio 2012

Grazie a tutti i lettori che continuano generosamente, in un momento difficile anche per il nostro paese, a contribuire, con il loro sostegno, a cambiare la storia di 20 donne afghane. Pubblichiamo oggi gli aggiornamenti sulle vittorie quotidiane delle altre 10 donne che fanno parte del progetto (le prime dieci sono state pubblicate il 30/04). La strada è in salita ma la percorrono con coraggio. Ritrovano la forza di guardare davanti a sé, immaginare un tempo futuro diverso. Si sentono capaci, ci raccontano, per la prima volta, di fare qualcosa per se stesse e per i propri figli.

Speranza è la parola che ricorre più spesso nei messaggi che ci hanno mandato. Una parola smarrita, nella tragedia quotidiana, che ritorna dopo tanto tempo. Per sentirsi, per la prima volta, in grado di indirizzare un destino dal quale sono state escluse per nascita. E’ questo che stanno facendo i nostri lettori. Ed è un atto di resistenza. Perché la battaglia per i diritti umani riguarda tutti. Ingiustizia, brutalità e violenza di genere non hanno confini, purtroppo. Anche nel nostro civilissimo e democratico paese, ogni giorno le donne subiscono violenze fisiche e psicologiche. E muoiono per mano dei loro uomini, 54 dall’inizio dell’anno. Anche qui ci sono case protette per salvarsi la pelle e persone che sanno accogliere il dolore altrui. Controllo, possesso, disprezzo. Invece di amore, dignità e rispetto. Incapacità di accettare la libertà della propria donna, le sue scelte, l’abbandono.

Un problema culturale profondo che avvelena anche le società più avanzate, donne e uomini. Una cattiva educazione sentimentale. Anche qui le donne chiedono leggi più severe contro i femminicidi, la fine del silenzio e dell’indifferenza. In un paese devastato come l’Afghanistan, dove la maggior parte delle donne non ha diritti, non ha accesso alla salute, all’istruzione, alla giustizia, dove l’impunità diffusa giustifica e moltiplica i soprusi, la violenza diventa normalità, destino, dovere, legge. In questo contesto, il sostegno economico è molto importante, significa dare strumenti a chi è disarmato. Alle vittime che subiscono abusi e alle donne coraggiose che si battono per loro. 20 donne che ce la possono fare. Una goccia nel mare, si potrebbe dire, ma in questo mare nuotiamo tutti.

Chi vuole contribuire al progetto e sponsorizzare una ‘vita preziosa’ in Afghanistan può scrivere a: vitepreziose@gmail.com

BASERA

Basera, a 14 anni, è stuprata da un amico del padre. Lei lo sa, non troverà conforto nella famiglia. La vergogna, e la colpa ricadono quasi sempre, in Afghanistan, sulla vittima. Ha paura. Che il padre la cacci di casa, che la uccida. Succede. Così nasconde il suo dolore dentro di sé, difficile, alla sua età. Ma non può farlo a lungo. E’ incinta. La madre se ne accorge e decide di risolvere le cose, all’insaputa del padre, in casa, nella stalla, con un coltello da cucina. La ferita, ricucita alla meglio dal fratello, si infetta e Basera sta molto male. Il padre, dopo parecchi giorni, in cui rischia di morire, finalmente si decide a portarla in ospedale. Rimediano al peggio e, alle dimissioni, viene, per fortuna, affidata ad Hawca. Da più di un anno vive nella ‘casa protetta’. Non vuole tornare a casa. Ha paura di quello che il padre potrebbe farle. Le avvocate di Hawca riescono a far arrestare lo stupratore e il fratello, che va in prigione al posto della madre. Difendono Basera dalle insistenze della famiglia. Ma la ferita nel corpo, mal curata, è sempre una minaccia per la sua salute. Come quella nella mente. Curarla adeguatamente costa molto. L’aiuto di Ciro e Michela le ha permesso di essere assistita da medici e psicologi. Così, in poco più di un anno, si è completamente ripresa. Il dolore se n’è andato e può pensare al futuro. Va a scuola e continua, per ora, a vivere nella casa protetta. Ecco cosa ci ha detto: ”Avevo perso la speranza, non so davvero cosa avrei fatto senza questo aiuto. Avevo paura che quella ferita, un giorno o l’altro, mi avrebbe ucciso. Adesso posso ricominciare la mia vita senza paura. Ringrazio tanto le persone che mi stanno sostenendo e spero che continuino a farlo, fino a che sarò in grado di gestire la mia nuova vita da sola.”

SANIYA
Saniya vive adesso, finalmente, a casa del padre. Ora che ha di che vivere non è più un peso e la famiglia ha accettato, dopo molte discussioni, di riprenderla con sé. Ha lasciato lo shelter di Hawca , dove si era rifugiata dopo la fuga dalla casa del marito. 15 anni di matrimonio che le hanno lasciato ferite profonde, nel corpo e nell’anima. Saniya era stata venduta in sposa a 13 anni a un uomo sordomuto. Anzi, a tutti gli uomini di famiglia, suocero e cognati, che abusavano regolarmente di lei, la picchiavano e l’avevano avviata alla prostituzione. Elisa si occupa di lei fin dall’inizio del nostro progetto e , con il suo aiuto, ha potuto curare i gravi problemi ginecologici e mentali che le impedivano di affrontare una vita normale. Sta bene adesso, insieme al suo bimbo più piccolo, nato nello ‘shelter’. Quello un po’ più grande, adesso può andare a scuola. Ma Saniya di figli ne ha quattro, nemmeno sa di chi sono, sono solo suoi, dice. Quelli rimasti col marito le mancano da morire. Ma non tornerà mai più in quella casa, nonostante le richieste e le assicurazioni dei parenti. Il divorzio, che sembrava concluso, si è invece arenato. La procedura per una donna che vuole divorziare diventa sempre più difficile. Le avvocate stanno lavorando per abbattere gli ostacoli legali. Quelli maggiori riguardano la custodia dei figli. Possibile solo se dimostrerà alla Corte di avere una fonte autonoma di reddito per mantenerli. E’ questa, adesso che ha recuperato le forze, la sua sfida: costruirsi una piccola attività che le permetta di vivere insieme a loro. L’incubo è sempre lì, ogni giorno, ma è passato. Può guardare avanti, è serena. Un percorso che, continua a dire, non avrebbe potuto fare senza Elisa al suo fianco.

FARIYA
Fariya è vedova con nove figli. Una condizione difficilissima in Afghanistan. Sopravvivere in dieci è un’impresa superiore alle sue forze. Il suo lavoro di pulizie nelle case dei vicini non basta affatto. I bambini più grandi cercano di lavorare ma sono tutti malati e questo è un grosso ostacolo. Non ha nemmeno un posto dove vivere. Qualche parente, a turno, li ospita per un po’, in una stanza della casa ma anche loro vivono a stento e, ogni volta, sono costretti a riprendere il loro pellegrinaggio. Quando Fariya si rivolge al Centro Legale è senza speranza per il futuro dei suoi figli, non ce la fa più, ha 49 anni, tanti per il suo paese. Marisa e Italo, da quest’anno, si prendono cura di lei e della sua numerosa famiglia. Sta ancora cercando una casa dove vivere stabilmente, non è facile, gli affitti sono molto cari. Può però nutrirli a sufficienza, tutti, nove. E, la cosa per lei più bella e importante, adesso, può mandarli a scuola, invece che a lavorare o a mendicare. Ora può cominciare a curarli, hanno tutti bisogno di trattamenti medici. Ecco le sue parole piene di sollievo:” Non posso nemmeno immaginare cosa sarebbe stata la mia vita senza l’aiuto di Hawca e dei miei sponsors. Ero davvero disperata, mi capitava ogni giorno di piangere, pensando ai miei figli con la pancia vuota e con tanti problemi. Non potevo fare niente per loro. Adesso mi sento in pace, sono confortata perché possono mangiare, andare a scuola e avere un futuro.” Il cammino verso la sognata normalità è lungo e i problemi sono ancora tanti, ma Fariya non deve più portarli sulle spalle da sola. Ha ritrovato la fiducia, pensa davvero di potercela fare.
SHAZIYA
Insegnava Shaziya, un lavoro che le piaceva molto e le dava da vivere. Col matrimonio finisce tutto. La casa del marito si chiude su di lei. Il lavoro fuori casa è proibito. Eppure sarebbe una risorsa indispensabile. Il marito è malato e non può provvedere alla famiglia e anche Shaziya ha bisogno di soldi per i molti problemi fisici che l’affliggono. Hanno 4 figli e dipendono in tutto dalla famiglia del marito, per la quale sono un peso, a volte insostenibile. Riescono a stento a sfamarsi. Nessuna possibilità di vedere un medico. Entrambe temono per la propria vita e per il destino dei figli. Adesso, grazie all’aiuto di Maria Pia, di Laura e del Cisda, sono seguiti da un medico e si stanno curando. Il marito sta un po’ meglio ma la sua salute è ancora un grosso problema, dopo tanti anni in cui è stata trascurata. Anche Shaziya sta meglio e continua a seguire le cure necessarie. ”Questo sostegno- dice- ha salvato le nostre vite.” E le permette, adesso, di mandare a scuola i bambini invece di farli lavorare. E’ questo il suo sogno più grande, che siano istruiti, per un futuro diverso, quello che a lei è stato portato via. Spera di ottenere dai familiari il permesso di lavorare fuori casa, una volta guarita, e diventare indipendente economicamente. I suoi soldi mensili, che hanno migliorato la situazione della famiglia, sono un punto a suo vantaggio. Ma la battaglia è dura. Se non ce la farà, Hawca l’aiuterà a trovare un lavoro di cucito da fare a casa. E’ molto brava.
SHAFEYA
La vita di Shafeya, già difficile, diventa un inferno due anni fa. Il marito riesce a stento a sfamare la famiglia, cerca invano un lavoro migliore della sua bancarella per strada. Una ricerca frustrante e inutile. Vivono a casa del cognato, che impedisce a Shafeya di lavorare e si comporta con lei in modo brutale. Violenze verbali e fisiche sono quotidiane. Non hanno niente. Tanto meno il denaro per poter curare Shafeya che ha molti problemi di salute. Il marito crolla e comincia a drogarsi. Diventa violento, come il fratello. La picchia per strapparle i pochi soldi che riesce a guadagnare di nascosto, per il figlio. Se li spende in dosi. Scappa con il bambino a casa del padre. Ma non potrà restarci per molto, non c’è posto per altre bocche da sfamare. Dovrà tornare a casa del cognato, la sua paura è destinata a ricominciare. Ma, da quest’anno, la sua vita cambia. Isabella si prende cura di lei. Può restare a casa dei suoi, adesso che può mantenersi autonomamente. Può respirare di nuovo, lontano dalle urla, dagli insulti, dalle violenze dei due fratelli. Non vuole tornare a casa del cognato ma non vuole nemmeno il divorzio. Shafeya è una donna generosa, sa perdonare. Crede che il marito sia un brav’uomo, nonostante tutto, e non rinuncia alla speranza di strapparlo alla droga e di ricostruire la sua famiglia, per conto loro. Instancabilmente, cerca di portarlo in un centro di recupero per tossicodipendenti. Parte del sostegno che riceve serve per curarlo. E’ migliorato ma è ancora molto difficile vivere con lui. Per questo, per ora, resta con il padre. La sua famiglia vive meglio adesso, può permettersi di curarsi e le sue condizioni sono migliorate. Intanto vuole imparare qualcosa che le permetta di costruire la sua indipendenza economica. Ecco le sue parole: ” Sono immensamente grata alla mia sponsor e ad Hawca per avermi ridato la speranza. Questo aiuto ha cambiato la mia vita. I problemi sono ancora tanti e non è facile, per una donna afghana, vivere in modo indipendente. Ma adesso so che posso farcela e farò del mio meglio.”
SHOGOFA
La famiglia di Shogofa non ha mai avuto una casa. Hanno sempre vissuto sotto una tenda, davanti allo spazio usato per i combattimenti dei galli. E’ questo il mestiere del padre. Le donne devono contribuire al magro bilancio andando a mendicare. Shogofa si innamora di Anwar e sogna una vita diversa con lui. Ma il padre ha altri progetti, vuole sposarla a chi paga bene, forse potrà barattarla con qualche bel gallo litigioso e aggressivo come lui. Oppure resterà in famiglia, a mendicare come le altre sorelle. Shogofa non ci sta. Scappa per sposarsi con il suo amore ma il padre la ritrova. Minaccia di ucciderli entrambe. Si rifugia nella ‘casa protetta’. Le assistenti di Hawca cercano invano di farlo desistere dalle minacce e di convincerlo a lasciarla vivere in pace. Il sostegno di Cristina e Alessandra cambia le carte in tavola. Shogofa adesso aiuta la sua famiglia. Vivono meglio, grazie a lei, e le donne non sono più costrette a mendicare. Il padre, ora che i due ragazzi hanno di che vivere, sembra convincersi. Ma non vuole accettare la fuga della figlia con un uomo. Un marchio di vergogna, che ritiene insostenibile e che deve essere punito. I ragazzi si sposano lo stesso. Con il sostegno delle nostre lettrici potranno organizzarsi un lavoro, progettano, sognano, ma , ancora, ognuno per conto suo. L’iter formale del matrimonio non è ancora concluso. Finché non ci saranno tutti i documenti, Shogofa rimane nello shelter, al sicuro dalle minacce. Quando tutto sarà a posto il padre non avrà più il diritto di ostacolare la sua felicità. Manca poco.
LENA
La vita della famiglia di Lena è molto dura, come tante altre nel suo sfortunato paese. Vivono in una casa diroccata, distrutta dalla guerra, per la quale pagano l’affitto. Nessun lavoro possibile per il padre, debole e malato. Così i ragazzini più grandi vanno a mendicare e a frugare nelle discariche, se ne vedono tanti, come loro, in Afghanistan. Il padre non ce la fa più e prende una decisone: venderà in sposa la figlia di 14 anni, il loro unico bene, per campare meglio, almeno per un po’. Lena ha sopportato tutto ma questo no, non può. Sacrificare sua figlia è troppo. Chiede aiuto al Centro Legale di Herat e lo trova in Francesca. Con il suo aiuto, la ragazzina è salva dal matrimonio forzato. Non è più necessario venderla, le condizioni di vita della famiglia migliorano, e il padre, per ora, si convince a tenerla con sé e a permetterle di andare a scuola. Promette anche di lasciarle finire gli studi prima di pensare a sposarla. Anche gli altri figli adesso vanno a scuola. Per Lena è un grande sollievo non vedere più i bambini, ogni giorno, per la strada, a stomaco vuoto. E, soprattutto, è felice per la sua bambina. E’ lì, accanto a lei, e studia per un futuro, spera, diverso.
BEHNAZ
Behnaz, 22 anni, suo marito lo amava. Si volevano bene ed era lui a proteggerla dalla sua brutale famiglia con la quale devono vivere. Dopo la morte del marito, resta sola e prigioniera, con le sue due bimbe, della trappola familiare. Dovrà sposare suo cognato, è così che si fa. Non c’è scelta, non c’è mai per le donne. Il ricatto è chiaro: se se ne andrà o sposerà qualcun altro perderà per sempre le figlie. Figlie del padre e, di conseguenza, responsabilità della sua famiglia. La madre non ha voce in capitolo. Ma Benhaz si ribella. Il brutale cognato ha già due mogli, vittime delle sue quotidiane violenze. Non lo sposerà mai. Scappa dal padre che non si può far carico del loro mantenimento, così la rispedisce sempre indietro. Quando arriva il sostegno di Annalisa le cose cambiano. Il padre, adesso che non è più a carico loro, ha finalmente accettato di farla stare stabilmente nella casa dei genitori. E’ qui che vive adesso, con le due bambine, molto sollevata. Può curarsi, sta meglio, e armarsi per la battaglia in corso. “Quando mio marito è morto ero disperata, per me e per le mie figlie. Pensavo che non sarei mai stata una buona madre perché non potevo fare niente per loro e per il loro futuro. Questo aiuto ha cambiato completamente la mia vita. Mi ha dato il coraggio di continuare a lottare per una vita nostra.” La sua battaglia, quella di sfuggire al ricatto, è in corso ed è molto difficile. La famiglia del marito non demorde. O sposerà un cognato o perderà le figlie. Punto. La sfida è questa: riuscire, in questo tempo tranquillo a casa dei suoi, a trovare un lavoro per convincere i giudici che è in grado di occuparsi delle bambine. Ci sta provando.
SEEMA
La paura più grande per Seema è quella per il destino delle sue figlie. Il marito è tossicodipendente e violento. Seema lavora di nascosto, nasconde anche i soldi, per mandare a scuola le figlie. Poi, le cose peggiorano. Lui si accorge del suo lavoro, con la violenza le strappa il denaro per la droga. Niente più scuola e botte anche per loro. Ma la minaccia peggiore è che il marito possa vendere le ragazzine per la prostituzione, è questo che fa adesso. L’aiuto di Francesca, gestito da Hawca, libera Seema da questa angoscia. Adesso le figlie possono mangiare a sufficienza e hanno ripreso la scuola. Sono sorvegliate perché il padre non le faccia sparire. E’ il primo passo, l’urgenza, ed è già molto nella sua situazione. Il sollievo è enorme, anche se i problemi sono sempre gravi. Intanto le avvocate stanno cercando di farle avere il divorzio. Anche Seema ha cominciato a studiare, con la speranza di trovare un lavoro decente che le permetta di portare via le figlie da quella casa. Non essere più sola le dà il conforto e il coraggio per farlo.
MALEYA
La vita di Maleya non è molto diversa da quella di Seema. E’ sposata dal padre a un cugino tossicodipendente a 12 anni. Niente lavoro per lui, solo la rabbiosa ricerca della dose quotidiana che lo riducono una larva. Rimane l’energia per la violenza quotidiana sulla moglie, quella non manca mai. Il marito sparisce per tre anni. Maleya spera di non vederlo più. Ma il fratello lo ritrova e tutto ricomincia, peggio di prima. Ha tre figlie. Per loro lavora di nascosto come cuoca, le cresce e le manda a scuola. Da un anno la situazione peggiora. L’uomo le chiude in casa. Maleya riesce lo stesso a lavorare ma meno di prima e a rischio di scatenare la violenza del marito. I soldi sono pochi e deve scegliere: pagare l’affitto o la scuola delle figlie. Con la morte nel cuore, le ritira da scuola. Il marito continua a gridare che il suo lavoro fuori casa è una vergogna per lui. Così decide di procurargliene uno a domicilio e porta a casa degli uomini, per lei e per la figlia maggiore. L’aiuto di Maria Adele comincia a tamponare l’emergenza. La figlia più grande adesso può curare i danni della sua vita in famiglia, va ogni giorno all’ospedale e sta meglio. Non sarebbe stato possibile senza il sostegno. Costa molto curarsi. E le ragazze vanno di nuovo a scuola. Maleya è felice che adesso possano sperare in un futuro migliore del suo: ”Se avessi avuto almeno un’istruzione, avrei potuto lasciare mio marito e trovare un lavoro buono e una vita migliore per le mie figlie. Glielo dico sempre: studiate, solo così potrete essere indipendenti e non soffrire quello che ho sofferto io.” Le avvocate stanno cercando di ottenere il divorzio. Intanto, il denaro che riceve, gestito da Hawca e al sicuro dal marito, rende anche possibile un controllo sul padre, impedendo la prostituzione forzata. La strada è ancora lunga ma Maleya, adesso, può permettersi di sperare.

Afghanistan, c’è chi dice no

Enrico Piovesana, Eilmensile, 23.5.2012
Il neoeletto presidente francese François Hollande è andato a Chicago a comunicare agli americani e agli alleati della Nato che la Francia si chiama fuori dalla guerra in Afghanistan. “Una decisione già presa e non negoziabile”, ha chiarito il nuovo inquilino del’Eliseo.
Su ordine del nuovo ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian, i 3.400 soldati d’oltralpe hanno già cessato le operazioni di combattimento e stanno già iniziando a smobilitare, per tornare tutti a casa entro la fine dell’anno. Nelle aree di competenza del contingente francese subentrerà l’esercito afgano.
“Abbiamo fatto il nostro dovere e anche di più. La nostra missione di combattimento è terminata – ha spiegato Hollande – e il prossimo anno rimarranno in Afghanistan solo gli uomini indispensabili per l’addestramento delle forze di sicurezza afgane”.
Obama non ha battuto ciglio, e il presidente Karzai ha commentato l’annuncio del ritiro francese dicendo: “Non siamo pronti per questa evenienza, ma la giudichiamo come una buona decisione”.
Nessuna tragedia, quindi, ma un semplice “atto di sovranità” – come l’ha definito lo stesso Hollande – accettato da tutti come tale. Come era già avvenuto quando altri importanti membri della Nato hanno preso la stessa decisione: l’Olanda nel 2010 e il Canada nel 2011.
In Italia, invece, l’idea di ritirare anticipatamente dal fronte di guerra afgano i nostri 4.200 soldati (che ci costano oltre 2 milioni al giorno) rimane un tabù. I nostri governanti, politici e tecnici, soffrono di una strana sindrome da ‘sovranità autolimitata’: ritirarsi subito dall’Afghanistan? Impossibile, non possiamo – rispondono tutti.
“Non è assolutamente vero”, chiarisce a E – il Mensile il generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo. “La partecipazione alla missione Isaf non comporta nessun vincolo: ogni nazione ha la piena libertà di decidere se mandare truppe da combattimento, se mandare contingenti solo simbolici o anche solo offrire un sostegno finanziario”.
“Le modalità e i termini di partecipazione di un membro della Nato a una missione è del tutto negoziabile”, continua Mini. “Ogni iniziativa dell’Alleanza atlantica è frutto di compromessi tra le volontà politiche dei singoli Stati membri”.
“Rispetto alla volontà della potenza statunitense i francesi si sono sempre posti in maniera molto autonoma. L’Italia tende invece ad essere molto zelante nei confronti di Washington. Vista l’attitudine particolarmente filoamericana dell’attuale ministro della Difsa, non mi stupirebbe – conclude il generale – se avessimo segretamente offerto agli Stati Uniti di tappare i buchi che lasceranno i francesi”.

Le scuole clandestine per ragazze sfidano i divieti dei Talebani

(Kevin Sieff, The Washington Post, 25 aprile 2012)

Tutte le mattine a Spina, villaggio dell’Afghanistan orientale, circa cinquanta ragazze sgusciano di soppiatto attraverso un’apertura in un muro di fango, sfidando così un editto talebano.
Una scuola finanziata dagli USA a poco più di un chilometro di distanza è stata distrutta dai Talebani nel 2007, solo due anni dopo la sua inaugurazione. I fondamentalisti hanno poi avvisato chiaramente la popolazione che non importa il nuovo governo di Kabul o gli sforzi internazionali compiuti per l’istruzione delle ragazze: le ragazze delle famiglie di Spina dovevano stare a casa.

E per un po’, tutti hanno obbedito.

Ma poi, due fratelli di una delle poche famiglie con un po’ di istruzione nel villaggio hanno cominciato in sordina a insegnare un po’ di matematica, di lettura e scrittura alle ragazze loro parenti, in una stanza in un edificio decentrato al confine del villaggio. Nelle loro intenzioni queste lezioni dovevano restare limitate a poche ragazze – raccontano – in modo da sfuggire ai controlli dei Talebani. Ma presto si è visto che era impossibile.

Negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno speso milioni di dollari per finanziare l’istruzione delle ragazze, e i politici afgani e internazionali hanno sottolineato i miglioramenti in questo campo come uno dei cambiamenti più promettenti dell’era post talebana. Secondo le stime del Ministero dell’Istruzione pubblica afgano, il numero di ragazze iscritte nelle scuole pubbliche è salito da 5000 del tempo del regime talebano a circa due milioni e mezzo.

Ma l’Afghanistan è pieno di posti come Spina, dove tutti gli sforzi compiuti per offrire istruzione alle ragazze si sono alla fine sbricolati. Quasi due milioni di ragazze in età scolare non vanno a scuola, e le ragazze che ci vanno vengono spesso minacciate.
Secondo un portavoce del Ministro dell’Istruzione, Amanullah Iman, la settimana scorsa, fondamentalisti hanno intossicato più di 100 ragazze di una scuola del Nord dell’Afghanistan. Mentre si cerca di individuare i colpevoli, le ragazze fortunamente si stanno rimettendo.

Vidhya Ganesh, direttore dell’UNICEF per l’Afghanistan, fa notare che, negli ultimi mesi, molte scuole nella regione orientale dell’Afghanistan sono state chiuse a causa delle minacce, invertendo quella che era una tendenza positiva (all’apertura di nuove scuole).

I fondamentalisti hanno obbligato alla chiusura decine di scuole femminili, a partire dal 2005 circa, quando le milizie talebane hanno cominciato a rientrare nel paese. La maggior parte di quelle scuole, costruite con finanziamenti degli Stati Uniti, non riapriranno mai più. In alcuni villaggi, le scuole hanno continuato nella clandestinità, nascoste in locali segreti o nelle pensioni, come era successo durante il regime dei Talebani.
“E’ pericoloso per gli insegnanti ed è pericoloso per le studentesse, ma queste scuole clandestine dimostrano quanta sete di istruzione ci sia sotto i Talebani” dice Shukriya Barakzai, una deputata che a sua volta aveva insegnato in una scuola segreta quando Kabul era sotto il controllo talebano negli anni Novanta del Novecento.
“Non è molto diverso da com’era in quegli anni” dice uno dei due fratelli-insegnanti del villaggio di Spina, infestato di Talebani. “Siamo ben distanti da ogni democrazia o libertà.”

[Per continuare a leggere l’articolo in inglese, vai al sito del Washington Post]

Interrogazione parlamentare a sostegno di Hambastagi

Al ministro degli Affari Esteri Al Ministro della Difesa

[Considerato che] il Partito democratico afghano Hambastagi (Partito della Solidarietà) il 30 aprile scorso ha organizzato una partecipata manifestazione nel ventesimo anniversario della presa del potere di Kabul da parte delle milizie fondamentaliste, per chiedere giustizia per le vittime civili e la deposizione dei warlords che siedono in Parlamento afghano.
Ora quegli stessi criminali vogliono togliergli legittimità annullando il loro status giuridico e chiedendo che vengano messi sotto processo per avere insultato la “jihad”.

[Considerato che] la manifestazione di Kabul ha ottenuto un grande successo e Hambastagi ha ricevuto un sostegno enorme da afghani all’interno del paese e all’estero; tuttavia hanno ricevuto minacce da parte dei signori della guerra sia per telefono che per e-mail.

[Considerato che] il Partito ha dichiarato ufficialmente in una nota che i signori della guerra che siedono in parlamento e senato hanno condannato la loro manifestazione e hanno chiesto che il partito venga messo fuori legge e sotto processo per aver insultato la “Jihad”.  I rappresentanti di Hambastagi sono stati ufficialmente chiamati in Senato per rispondere alle accuse e il canale televisivo statale ha annunciato che la registrazione del Partito della Solidarietà è stata annullata, notizia che tuttavia ancora attende ufficialità.
[Considerato che] anche il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), che sostiene attivamente questo giovane partito democratico afghano, ha raccolto il loro appello e chiede che venga inviata una breve nota di sostegno ad Hambastagi da parte di Governi, istituzioni, Partiti, Associazioni, giornali.

[Si chiede] se il Governo sia a conoscenza delle informazioni citate in premessa e se non ritenga di dover intervenire a sostegno del partito democratico afghano Hambastagi (Partito della Solidarietà) affinché il Governo afghano ponga fine ad un modus operandi che va contro una libertà di opinione e di espressione indispensabile per costruire uno Stato democratico e autonomo a tutela e sostegno dei cittadini.

Di Stanislao

Arsala Rahmani, criminale fondamentalista, non uomo di pace

Il signore della guerra talebano Arsala Rahmani, membro del cosiddetto Alto consiglio per la pace in Afghanistan, è stato ucciso il 13 maggio a Kabul: un sicario gli ha sparato mentre Rahmani era in automobile e si recava nel suo ufficio. Subito i media di tutto il mondo hanno commentato la notizia come una grave perdita, ricordando il ruolo di Rahmani nel preteso processo di pacificazione e riconciliazione con i talebani voluto da Karzai e dalla NATO, Stati Uniti in testa.

Il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) ancora una volta si dissocia con forza da questa visione ipocrita e imperialista, denunciando la storia criminale di questo talebano, ex ministro dell’Istruzione e ministro degli affari religiosi durante uno dei regimi più oscurantisti, misogini e fascisti della storia mondiale recente, e protagonista della politica interna dell’Afghanistan post-11 settembre per scelta di Karzai, che nel 2005 lo chiamò a far parte della Camera alta del Parlamento, nella quota di deputati che vengono nominati direttamente dal presidente.

Come subito denunciato da Human Rights Watch in occasione di quel riconoscimento, Arsala Rahmani era responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, nonché di limitazioni estreme delle libertà fondamentali, soprattutto ai danni delle donne. La sua funzione all’interno del cosiddetto Alto consiglio per la pace in Afghanistan non era dissimile da quello di un altro sanginario signore della guerra, Burhanuddin Rabbani, anch’egli ucciso recentemente (il 20 settembre 2011) e anch’egli ricordato come uomo di pace: ovvero, fare finta di avviare colloqui di pace con i compagni criminali talebani, per convincere i finanziatori statunitensi della possibilità per le truppe NATO di andarsene dal paese lasciandolo “pacificato”, anche se con decine di basi militari permanenti, a salvaguardia di una “pace duratura”.

Una farsa che il popolo afgano sarà il primo a pagare, come sempre, sulla propria pelle, quando il processo già in atto di ritorno alla misoginia di Stato, alla teocrazia fondamentalista dei mullah e alla violenza fascista che fa affari con il narcotraffico e con il business delle armi avrà compimento, grazie all’appoggio della NATO e degli Stati Uniti e alla colpevole acquiescenza della comunità internazionale.

Sarà difficile, allora, inventarsi un altro slogan come “liberare le donne afgane”, quando le potenze mondiali le avranno consegnate, quelle donne, direttamente nelle mani di sanguinari personaggi come Arsala Rahmani, colpevoli di crimini contro l’umanità.

Afghanistan, i Signori della Guerra attaccano l’opposizione parlamentare

Contropiano, 12 Maggio 2012 di  Enrico Campofreda
Sta costando carissimo al partito afghano della Solidarietà (Hambasteghi) l’ultima inziativa propagandistica contro i Signori della Guerra. Hambasteghi denuncia la prosecuzione della carneficina di civili e i “mafiosi che si fingono democratici e continuano a perseguire fini criminosi con la complicità statunitense”.

Il 30 aprile militanti e centinaia di cittadini avevano sfilato per le strade di Kabul bruciando immagini dei capi delle fazioni che dal 1992 si sono spartite il Paese, e contro i quali nulla ha fatto né può fare la missione Isaf se non patteggiare accordi e vederli ministri del governo Karzai. L’iniziativa di Hambasteghi protestava contro le date storiche del conflitto infinito: il 27 aprile 1978 che segnò il colpo di Stato delle forze filosovietiche e il 28 aprile 1992 inizio dell’intervento jihadista che ampliò la guerra interetnica sfociata con la presa del potere talebano. Gli slogan gridati “abbasso i criminali” e i falò delle foto hanno scatenato la dura reazione dei soggetti additati che hanno minacciato militanti e deputati di Hambasteghi. Alcuni parlamentari della Camera Bassa che fungono da collegamento coi warlords hanno proposto la messa fuorilegge del partito impegnato nel progetto di una democrazia perlomeno istituzionale. Sulla vicenda le molte emittenti del network Killid non hanno proferito parola.

Un comunicato di Hambasteghi lanciato sul web, pur non elencando esplicitamente i responsabili, usa la metafora dei “mafiosi che si fingono democratici e continuano a perseguire fini criminosi con la complicità statunitense”. “Hanno abbandonato barbe e abbigliamento jihadi, si sono tagliati i capelli alla moda, indossano giacca e cravatta ma continuano a perpetrare violenza”. Gli attivisti del partito rispediscono agli avversari l’accusa di aver insultato chi ha lottato contro l’invasione sovietica, dicono che i partiti Khalqis e Parchamis, che pure s’erano opposti a quell’invasione, hanno poi intrapreso la via del sopruso, dell’oppressione e delle stragi di civili come mercenari di altre nazioni (Pakistan, Iran) che vogliono un Afghanistan diviso e debole. Questi politici accettano la presenza imperialista statunitense e occidentale che ha trasformato il Paese in un’immensa base militare. Gli attivisti di Hambasteghi credono in una possibile “primavera” afghana, scrivono “la nostra sfortunata nazione ha bisogno anche di persone che hanno il coraggio di accettare tutti i rischi e proteggono la libertà contro i traditori”. Sfidando dunque la minaccia delle misure “legali” nei loro confronti.

Proprio un anno fa alcuni membri del partito della Solidarietà erano stati bloccati e imprigionati dalla polizia di Karzai, quegli uomini che la missione Isaf contribuisce a “formare”. L’accusa era la diffusione in alcuni mercati di Kabul di volantini che anche allora accusavano i crimini passati e presenti dei Signori della Guerra seduti nei luoghi istituzionali del Paese: Wolesi Jirga e governo. Personaggi che hanno più dimestichezza coi kalashnikov che con le parole, come hanno dimostrato impugnando le armi, durante l’attacco che i taliban hanno portato il mese scorso sin nel cuore della capitale. In più Hambasteghi denuncia la prosecuzione della carneficina di civili; l’ultimo massacro, come sempre di tanti bambini, è avvenuto nei giorni scorsi con un’incursione aerea statunitense a Bala Murghab la zona controllata dall’italiana Task Force North. Una delle decine di stragi periodiche cui i nostri media non dedicano attenzione perché non coivolge militari italiani che ultimamente richiedono ai deputati di Montecitorio di usufruire anche di un appoggio di caccia tricolori. E li chiamano ancora peacekeepers.

Afghanistan: criminali e warlords cercano di liquidare Hambastagi (il partito della solidarietà)!!!

Ieri abbiamo ricevuto da Rasikh del partito democratico afghano Hambastagi (Partito della Solidarietà) un’allarmante comunicazione, che trovate già tradotta più sotto.

Per riassumere gli eventi: il 30 aprile scorso hanno organizzato una partecipata manifestazione (vedi comunicato di Hambastagi tradotto per osservatorioafghanistan) nel ventesimo anniversario della presa del potere di Kabul da parte delle milizie fondamentaliste, per chiedere giustizia per le vittime civili e la deposizione dei warlords che siedono in Parlamento afghano.

Ora quegli stessi criminali vogliono togliergli legittimità annullando il loro status giuridico e chiedendo che vengano messi sotto processo per avere insultato la “jihad”!!

La libertà politica e di opinione in Afghanistan è ancora un optional…

Il CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane – che sostiene attivamente questo giovane partito democratico afghano, chiede che venga inviata una breve nota di sostegno ad Hambastagi da parte di Partiti, Associazioni, giornali agli indirizzi che seguono:

TESTO DELLA LETTERA DI PROTESTA:

We learned that after the April 30 rally in Kabul, organized against the afghan fundamentalist criminals, the democratic Party  of Solidarity-Hambastagi faces threats every day and risk losing its legal status. We express support to the Solidarity Party of Afghanistan (Hambastagi) and ask your government to defend freedom of expression of one who only wants justice for the victims of these criminals!

INDIRIZZI E-MAIL A CUI INVIARE LA LETTERA DI PROTESTA:

Presidente Karzai
president.pressoffice@gmail.com
Justice Ministry of Afghanistan:
spksperson@gmail.com
Afghan Parliament (Meshrano Jirga or Upper House):
asmatullah.latifi@gmail.com
kamelahmadahmadi@gmail.com
Afghan Parliament (Wolesi Jirga or Lower House):
parliament.press@gmail.com

e in copia per conoscenza SEMPRE a:

solidarity.party.afghanistan@gmail.com

Traduzione del comunicato che ci ha inviato Hambastagi:

“La nostra manifestazione di protesta del 30 aprile a Kabul ha ottenuto un grande successo e ha spaventato warlords e criminali: stanno infatti facendo pressioni affinché venga annullato il nostro status giuridico.

Abbiamo ricevuto un sostegno enorme da afghani all’interno del paese e all’estero, ma purtroppo abbiamo anche ricevuto minacce da parte dei signori della guerra nei giorni scorsi, sia per telefono che per e-mail. I signori della guerra che siedono in parlamento e senato hanno condannato la nostra manifestazione e hanno chiesto che il nostro partito venga messo fuori legge e sotto processo per aver insultato la “Jehad”!

Siamo stati ufficialmente chiamati in Senato per rispondere alle accuse e il canale televisivo statale ieri sera ha annunciato che la registrazione del Partito della Solidarietà è stata annullata, anche se non abbiamo ancora ricevuto alcuna notifica ufficiale.

ABBIAMO BISOGNO DEL VOSTRO AIUTO ORA! Tutte le istituzioni democratiche, le associazioni, i sostenitori, del nostro partito devono immediatamente inviare lettere di protesta a entrambe le camere del parlamento afghano, al presidente, al ministero della giustizia.

In solidarietà, Rasikh

Il Partito della Solidarietà – Afghanistan”

Comunicato del Partito della Solidarietà Afghano

Il Partito della Solidarietà Afghano non si farà intimidire dalle minacce dei criminali!
9 Maggio 2012

Rompendo il silenzio sulla tirannia dei criminali e dei traditori dell’Afghanistan, il Partito della Solidarietà dell’Afghanistan ha mobilitato centinaia di persone a Kabul in una manifestazione contro i responsabili della lunga tragedia della storia recente, che si riassume dei giorni simbolici del 27 Aprile 1978 [colpo di Stato e presa di potere delle forze filosovietiche, N.d.T.] e il 28 aprile 1992 [presa di Kabul da parte dei gruppi jihadisti, che scatenarono la devastante guerra fazionale durata fino al 1996, N.d.T.]  e per la prima volta bruciato i ritratti dei leader dei partiti filosovietici Khalq e Parcham, dei Jehadi fondamentalisti e dei criminali leader talebani per le strade di Kabul. Questa azione di chiara condanna ha sfidato il clima apertamente intimidatorio degli ultimi tre decenni.

I cosiddetti Jihadisti e i loro intermediari religiosi ora vedono il loro potere mafioso minacciato, per voce delle stesse vittime delle loro atrocità, e sembrano spaventati dagli slogan “Abbasso i Criminali” che risuonano per le strade di Kabul. Nei giorni scorsi, il Partito della Solidarietà è stato il bersaglio di attacchi di uomini politici e funzionari dello Stato, che hanno cercato di contrastare le nostre azioni. Alcuni signori della guerra in Senato hanno chiesto al governo di dichiarare illegale il nostro partito, criticando la direzione della Sicurezza Nazionale per non aver preso provvedimenti contro il nostro partito. Nello stesso tempo, alcuni signori della guerra deputati hanno protestato in Parlamento con schiamazzi e urla contro di noi, chiedendo che il Partito della Solidarietà venisse sciolto. Alcuni criminali ci hanno fatto telefonate di minaccia, convinti che dopo tre generazioni di tirannia avrebbero potuto intimidirci.

Al contrario, il Partito della Solidarietà ha ricevuto grande sostegno da parte di cittadini e associazioni: la nostra casella di posta si è rapidamente riempita di un gran numero di messaggi di solidarietà provenienti sia dall’Afghanistan sia dall’estero. Con questi messaggi, molti hanno dichiarato il loro supporto alle nostre azioni e hanno espresso la volontà di stare al nostro fianco. Questo sostegno senza precedenti e questa solidarietà ci danno la forza per rafforzare la nostra posizione e non mollare.

Questi mafiosi che fingono di essere pro-democrazia sono in realtà dei lupi travestiti da agnelli. Con la complicità degli Stati Uniti, questi delinquenti stupratori hanno abbandonato le loro barbe e l’abbigliamento Jehadi, si sono tagliati i capelli in fogge alla moda e hanno indossato giacca e cravatta, ma continuano ad esercitare i loro crimini e i loro volti non sono cambiati. Accettano a parole la libertà di espressione e la democrazia solo quando questo non minaccia il loro potere e usano queste parole d’ordine solo per mantenere gli interessi acquisiti.

Questi criminali raccontano menzogne sull nostra manifestazione di piazza: sostengono che il Partito della Solidarietà ha insultato tutta la resistenza afgana contro gli aggressori russi. La verità è che abbiamo sempre sostenuto che la sconfitta degli aggressori russi è stata il risultato dei sacrifici fatti dal nostro popolo e che questo ha costituito il momento più nobile della nostra storia. Il nostro messaggio è chiaro: questo branco di cosiddetti leader Jehadi, mercenari di Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Regno Unito e Stati Uniti, si sono appropriati di questo successo, che rivendicano solo a sé, e hanno tradito gli afghani. Dopo la caduta del regime del Dr. Najibullah, insieme con coloro che avevano svenduto il paese alla Russia (i partiti filosovietici  Khalq e Parchami), questi jehadi hanno commesso crimini efferati per due decenni; crimini e tragedie per le quali il nostro popolo soffre ancora. I responsabili di questa distruzione hanno ancora oggi in mano il potere. Non appena hanno occupato i loro seggi in Parlamento, hanno proclamato un’amnistia per loro stessi, per sfuggire all’ira delle loro vittime, che potevano testimoniare dei loro crimini contro innocenti.

Noi non diamo alcun peso alle minacce infantili che ci vengono da questi traditori. Se hanno il coraggio di portarci a processo nella loro corte corrotta, li invitiamo a tenere le porte aperte in modo che tutti possano giudicare se il partito di solidarietà viene condannato per un crimine reale o solo evitare che smascheri le atrocità dei jehadisti al potere, che questi hanno fatto di tutto per coprire e oscurare. Questi criminali, che hanno conquistato il potere con la violenza e il sangue di vittime innocenti e grazie ai finanziamenti dall’estero, hanno paura delle porte aperte, e quindi tentano di chiudere la bocca con la forza all’opposizione, facendo affidamento sul ostegno dei padroni stranieri. Il Partito della solidarietà non li teme e si dichiara pronto a confrontarsi con loro, sicuro del sostegno della maggioranza della popolazione, che vive nella miseria.

Pur di sfuggire alla giustizia, i criminali dei partiti filosovietici e della polizia segreta Khalq e Parcham, i Jehadi e i talebani si sottomettono e si legano in schiavitù con ’Iran, il Pakistan, gli Stati Uniti e il Regno Unito, appoggiandosi ai loro padroni stranieri per abbaiare contro di noi. Dovrebbero capire che gli afghani sono uniti e si stanno sollevando, e che le possenti macchine da guerra della NATO e dei servizi segreti pakistani e americani non possono proteggere questi criminali dalla collera della gente.

La storia ci ricorda che i semi della vera democrazia, della libertà e della giustizia richiedono sempre sacrificio. Come il giovane tunisino che ha ispirato la “Primavera araba”, la nostra sfortunata nazione ha bisogno di persone che abbiano il coraggio di accettare i rischi e difendano la libertà contro i traditori. Opponendoci al potere dei violenti, accenderemo la speranza di una “Primavera Afghana”. Il Partito della Solidarietà sta lavorando per questo obiettivo e invita tutte le forze democratiche del paese a fare sentire la propria voce. Il Partito della Solidarietà si impegna a lavorare su obiettivi concreti, non su astratte teorie, e a concentrarsi sulla formazione politica della gente comune.

I traditori hanno ufficialmente venduto il nostro paese agli Stati Uniti, hanno minato l’unità dell’Afghanistan facendo leva sulla varietà etnica perché sfoci in guerra interetnica, hanno creato uno Stato mafioso, instaurato il regime più corrotto e infido della storia, e hanno portato il paese sull’orlo del collasso. In queste circostanze, coloro che non fanno sentire la propria voce saranno da considerarsi anch’essi colpevoli. Noi non vogliamo questo giudizio dalla storia. Abbiamo quindi il dovere di andare avanti e non smettere fino al raggiungimento dell’indipendenza, della libertà e della prosperità per il nostro Afghanistan sotto assedio. Tendiamo le nostre mani per stringere alleanza con tutte le forze che lottano per il nostro paese in questi tempi pericolosi.

Il Partito della Solidarietà Afgano

Manifestazione del partito della solidarietà afghana a Kabul

KABUL (PAN)
I sostenitori del Partito della Solidarietà Afghana (ASP) il 30/4 hanno organizzato una manifestazione a Kabul contro i leader jihadisti e chiedendo il loro processo.

SPA 150x150Il corteo è partito dal Cinema-i-Pamir e si è conclusa nella zona Maiwand, dove i manifestanti esponevano foto dei leader jihadisti con una croce rossa sul viso. Hanno cantato “no America, no alla NATO e morte ad entrambi.”

Mentre incendiavano le loro foto, hanno anche condannato gli episodi del 27 aprile 1978 [colpo di Stato e presa di potere delle forze filosovietiche, N.d.T.] e il 28 aprile 1992 [presa di Kabul da parte dei gruppi jihadisti N.d.T.] quando  i mujaheddin entrarono a Kabul innescando una lunga guerra civile.

Hafizullah Rasih, un sostenitore ASP, ha condannato i due giorni di disordini politici e ha chiesto un processo per gli autori. “Lo scopo della nostra protesta è quello di condannare le marionette degli Stati Uniti e della Russia.” La manifestazione era stata inizialmente prevista il 27 aprile, ma il ministero degli Interni non ha consentito a causa di rischi per la sicurezza.

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Afghanistan, raid Usa fanno strage di civili

E-il mensile, 9/5/2012 – Enrico Piovesana

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Pochi giorni dopo la firma dell’accordo strategico bilaterale Usa-Afghanistan, che prevede il prolungamento dell’occupazione militare americana del Paese almeno fino al 2024, almeno ventiquattro civili afgani sono rimasti uccisi in una serie di bombardamenti aerei condotti dall’aviazione statunitense. La strage più sanguinosa è avvenuta in un distretto sotto comando italiano.

Una madre e i suoi cinque bambini, tre femmine e due maschi, sono rimasti uccisi in un bombardamento venerdì notte a Sangin, provincia meridionale di Helmand. Altri quattro civili sono morti sotto le bombe Usa sabato nella provincia orientale di Kapisa. E domenica notte quattordici civili, tra cui diverse donne e bambini, sono rimasti uccisi e altri sette gravemente feriti in un raid aereo su un villaggio della provincia settentrionale di Badghis.

Il villaggio di Nawboor, dove secondo i comandi Isaf si nascondeva il capo talebano Mullah Abdullah Soori, si trova nel distretto di Bala Murghab, controllato dalle truppe italiane della Task Force North, appartenenti al 8° reggimento bersaglieri di Caserta agli ordini del colonnello Massimiliano Forza.
“Le nostre forze non hanno preso parte in alcun modo all’operazione aerea condotta domenica notte a Bala Murghab – assicura a E-il Mensile Online un ufficiale dell’ufficio stampa dello Stato Maggiore della Difesa – nemmeno a livello di supporto tecnico-logistico”.

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