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Autore: Anna Santarello

APPUNTI SULLA MORTE DI OSAMA BIN LADEN

Senza dubbio ci sarà tempo per riflettere più a fondo sulle parole pronunciate dal presidente Obama la notte scorsa. Al momento, penso sia utile annotare alcuni punti del suo discorso.

Da THE NEW YORKER – 2.5.2011 – Articolo di Steve Coll

compound 300x172Dove è stato trovato Osama:
Abbottabad è una città militare in Pakistan, sulle colline a nord della capitale Islamabad, una regione prevalentemente sotto il controllo dell´esercito pakistano e abitata da ex ufficiali.
Sebbene si trovi tecnicamente in quella che veniva chiamata la Northwest Frontier Province, la Provincia della Frontiera del Nord Ovest, la città è situata nella parte orientale della provincia, tra la regione del Kashmir sotto controllo pakistano e la città di confine, Peshawar. Abbottabad è nota per essere la sede della Pakistan Military Academy, la principale accademia di addestramento militare dell´esercito pakistano insieme a quella di West Point. Dalla cartina geografica e dalle immagini satellitari diffuse in rete la scorsa notte, si nota come l´enorme accademia militare si trovi in realtà a poche miglia di distanza dalla villa-fortino milionaria e super blindata costruita nel 2005 in cui Bin Laden ha vissuto negli ultimi anni. Nelle cartine che ho consultato ci sono alcuni terreni segnalati come `zone ad accesso limitato´, ovvero sotto il controllo militare. Sembra impossibile che una villa-fortino di tali dimensioni possa essere stata costruita e occupata da Bin Laden per sei anni senza destare alcun sospetto tra gli ufficiali dell´esercito pakistano.

Le prime prove suggerirebbero addirittura il contrario, ovvero che Bin Laden si sarebbe stabilito in quella casa sotto la protezione del governo pakistano. Il Pakistan negherà tutto, non è difficile prevederlo, e forse nessuna prova tangibile che confermi tale sospetto verrà mai a galla. Tuttavia, se io fossi un procuratore al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, non ci penserei due volte prima di interpellare un gran gurì. Chi possedeva il territorio sul quale è stata costruita la villa-fortino? Con che modalità e da chi è stato acquisito il terreno? Chi ha progettato la villa-fortino che sembra essere stata costruita appositamente per proteggere Bin Laden? Chi era il principale appaltatore? Chi ha installato il sistema di sicurezza? Chi vi lavorara all´interno? Ci sono testimoni che possono fornire informazioni relative a chi facesse visita all´abitazione, con quale frequenza e per quale motivo? Queste domande sono rilevanti non solo per le vittime dell´11 Settembre che da anni chiedono giustizia ma anche per tutte le vittime degli attacchi terroristici ideati o ispirati da Bin Laden durante gli anni della sua permanenza ad Abbottabad; tra queste vi sono numerosi pachistani, afgani, indiani, giordani, e inglesi, tutti soggetti per la legge criminale americana.

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Malalai Joya: una donna non “irrilevante”

Da: Defense Comittee for Malalai Joya – 25.4.2011

Noam Chomsky e Malalai Joya

Io e milioni di afghani  concordiamo con Malalai Joya sul fatto che non ci sono stati cambiamenti sostanziali nella nostra vita dopo l´occupazione dell´USA e degli Alleati

Nelofar Jawidana, IndyMedia, 25 Aprile 2011

noam chomsky malalai joya mar25 2011Ogni qualvolta Malalai Joya fa sentire più forte la sua voce e appare sulle prime pagine dei giornali, i signori della guerra afghani, i loro sostenitori e alcuni giornalisti pro-USA si mobilitano per distorcere il suo messaggio di libertà, giustizia, democrazia e in difesa dei diritti delle donne. Secondo me, questo è il più grande segno del suo successo.

A seguito del suo efficace tour di controinformazione in USA, che l’ha vista coinvolta anche in mobilitazioni sull’occupazione americana in Afghanistan al fianco di Noam Chomsky, ancora una volta un certo numero di sostenitori dei signori della guerra e dell’occupazione stessa hanno scritto contro di lei. Quasi tutti questi articoli riportano le stesse accuse e fanno riferimento l’un l’altro, pertanto mi concentro su quello più recente.

Io sono una dei milioni di donne afghane che considerano Malalai Joya come propria rappresentante e la ritengono la “donna più coraggiosa d’Afghanistan”, “icona della lotta per i diritti umani”, e “figura vincente della donna afghana”. Nell’articolo “Cara ai media occidentali, irrilevante in Afghanistan”, scritto da Abbas Daiyar del “Daily Outlook Afghanistan” di Kabul, l’autore sostiene tesi deliranti ed è difficile capire cosa voglia comunicare ai lettori attraverso le sue affermazioni contradditorie. 

Egli definisce Malalai Joya “irrilevante in Afghanistan”, e pensa quindi che sia irrilevante parlare contro i crimini commessi dal governo fantoccio filorusso [negli anni Ottanta, N.d.R.], contro i signori della guerra che sostengono la Jihad e i misogini e brutali talebani, o denunciare il silenzio sugli abusi e la violenza sulle donne, sulla povertà, sulla corruzione, sul traffico di droga gestito dalla mafia e sulla vera faccia dell’occupazione, sui bombardamenti e sulle morti civili per mano del governo americano? Se tutti questi argomenti sono irrilevanti, allora è rilevante nell’Afghanistan di oggi il fatto che lo si trasformi in una base militare americana, sono rilevanti gli esponenti del Khalq e Parcham, i signori della guerra, i tecnocratici, i talebani e Gulbudin Hekmatyar messi al potere con la libertà di governare liberamente ed abusare della nostra nazione, i loschi accordi del governo, l’aumento della produzione di droga e del numero degli abusi sessuali subiti dalle donne sotto gli occhi delle truppe straniere?

Questo sedicente giornalista definisce Malalai Joya “una starletta tra i circoli di sinistra occidentali contrari alla guerra” e sostiene che le sia stato concesso il visto per gli USA a seguito di pressioni fatte da uno di questi gruppi. Prima di scrivere questa articolo, Abbas avrebbe dovuto guardarsi in giro un po’ di più e avrebbe scoperto che Malalai Joya non è sostenuta solo dagli esponenti di sinistra, ma da tutti coloro che amano la libertà, da persone indipendenti e democratiche e da organizzazioni di vario tipo sparse per il mondo.

È bene che si sappia che recentemente, quando il governo degli Stati Uniti ha cercato di fermare la campagna di controinformazione negli USA di Malalai Joya, diversi gruppi, tra cui The American Civil Liberties Union [un’organizzazione non governativa orientata a difendere i diritti civili e le libertà individuali negli Stati Uniti, N.d.T], l’American Association of University Professors (AAUP) e  la PEN American Center [organizzazione per la difesa della libertà di stampa e di espressione, N.d.T.] hanno inviato un appello al Segretario di Stato Clinton deprecendo la decisione di rifiutarle il visto.

Perfino alcuni membri del Congresso si sono espressi negativamente in merito al rifiuto di concederle il visto: il Deputato McDermott ha scritto una lettera, sottoscritta anche dai senatori Patrick Leahy, Patty Murray e Bernie Sanders, e dai deputati Jay Inslee, Keith Ellison, Peter Welch, Betty McCollum e Bill Pascrell, chiedendo di riconsiderare la richiesta del visto, dichiarando di essere profondamente contrariati dalle motivazioni avanzate dall’Ambasciata.

Il noto scrittore Robert Dreyfuss, che ha incontrato Malalai Joya nel Maryland, ha scritto in un articolo per “The Nation”: “definire difficile il contesto in cui Malalai si muove in  Afghanistan è un eufemismo.” Carol Rose del “The Boston Globe” ha scritto: “Il mancato rilascio del visto per Malalai Joya è solo l’ultimo esempio di “esclusione ideologica”, il metodo del nostro governo di ostacolare coloro che hanno il coraggio di criticare le politiche degli Stati Uniti.”

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Messaggio del Partito Afghano per la Solidarietà (Hambastagi)

Non solo abbiamo sempre cercato di condannare i crimini commessi in occasione del 27 Aprile 1978 (giorno in cui il PDPA, partito socialista filo-comunista, diede vita alla cosiddetta “Rivoluzione di aprile” N.d.T.) e del 28 Aprile 1992 (giorno in cui l’Alleanza del Nord prese il controllo di Kabul N.d.T.), ma abbiamo anche sempre considerato questi due giorni una pagina vergognosa della storia del nostro tormentato Paese, nonché l’inizio di tutte le disgrazie che continuano a colpire il nostro popolo stremato. Oggi, dopo anni di sofferenza, anziché vedere quei criminali jihadisti e appartenenti al Khad [servizi segreti afghani, N.d.T.] con un cappio al collo o dietro le sbarre, li vediamo occupare gli incarichi più alti di questo stato di mullah e mafiosi, sotto la protezione dei politici occidentali, in particolare, degli invasori americani.

Queste gang criminali che agiscono da veri nemici del popolo afgano e fanno invece da braccio destro ai russi, agli americani e ai saccheggiatori locali non hanno mai perso occasione per devastare il nostro amato Paese, soffocando la voce indipendentista del nostro popolo e inculcando le nostre menti di pericolose dottrine fondamentaliste.

I criminali e traditori del 27 Aprile 1978 si sono prostrati al socio-imperialismo sovietico inneggiando il noto grido di vittoria “evviva” e lo slogan “casa, vestiti, pane”. Hanno torturato bambini, i figli della nostra patria, nelle macabre camere di tortura delle prigioni del Khad per poi freddarli nei campi di sterminio. Nonostante ciò, la fiamma della straordinaria resistenza del nostro popolo – che brucia inesauribile dalle hitleriane prigioni dei Khalqi e Parchami [fazioni comuniste con corpi paramilitari degli anni Settanta e Ottanta, N.d.T.] agli angoli più remoti del Paese – ha incenerito gli aggressori e i loro mercenari locali.

Il governo di sanguinari criminali e traditori instaurato dai fondamentalisti – di gran lunga più cruento del “democratico” regime dei Khalqi e dei Parchami – ha comportato carneficine, stupri, saccheggi e barbarie paragonabili all’invasione di Gengis Khan. Le atrocità commesse dai fondamentalisti sono passate alla storia come le più deplorevoli barbarie. I crimini commessi il 28 Aprile 1992 – resi possibili dagli Stati Uniti e promossi dal Pakistan e dal regime dittatoriale iraniano – furono perpetrati proprio da questi predecessori. Il frutto maturato da questi semi pestilenziali fu la distruzione totale della città di Kabul, la decimazione di oltre 65 000 mila abitanti, un’enorme ondata di profughi, il saccheggio dei beni materiali della nostra gente e dei beni storici e culturali del Paese – in breve, la devastazione di tutto ciò che l’Afghanistan possedeva e che si poteva definire patrimonio nazionale. I saccheggi e le distruzioni non sono terminate, anzi, perdurano tutt’oggi. I fondamentalisti, figli illegittimi della CIA, dell’intelligence pakistana ISI e dei servizi segreti iraniani VEVAK, hanno rappresentato una cintura di sicurezza nella regione del Sud Asia allo scopo di combattere l’avanzata sovietica. È per questo motivo che gli Stati Uniti hanno cominciato ad armare e finanziare costoro allo scopo di rafforzare il controllo sulla regione e poter contare su di loro nel perseguimento della propria politica aggressiva e cospiratoria. Questi pericolosi gruppi jihadisti ritenevano che fosse un dovere sacro assassinare le figure democratiche e nazionaliste, e sotto questo mandato annientarono – con la benedizione degli Stati Uniti – un imprecisato numero di nazionalisti, rivoluzionari e patrioti. Non solo soffocarono le voci coraggiose e gloriose di resistenza del popolo afgano, ma fomentando l’intolleranza tra differenti etnie, gruppi linguistici e religiosi e alimentando inevitabili conflitti e ostilità interne, compirono crimini di violenza inaudita contro la nostra nazione. Il popolo afgano non dimenticherà mai né perdonerà mai tali crimini fino a che il sangue dei propri figli non sarà vendicato con la cattura dei leader dei gruppi “democratici” Khalqi e Parchami, dei fondamentalisti jihadisti e talebani.

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Un leader senza popolo

Oliver Roy, New Statesman (da Internazionale 6/12 maggio 2011)

Bin Laden era già morto, almeno politicamente, prima che i soldati statunitensi attaccassero il suo rifugio. La morte politica di Al Qaeda è avvenuta il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, in Tunisia, quando Mohamed Bouazizi si è dato fuoco. Il suo suicidio, indipendentemente dalle motivazioni personali, è stato un evento politico. Ma non aveva nulla a che fare con il terrorismo, con l’ostilità verso gli Stati Uniti, la lotta contro il sionismo o la creazione di un grande califfato. La rivolta democratica del mondo arabo ha mostrato fino a che punto Al Qaeda fosse emarginata.
Questa emarginazione corrisponde a un cambiamento di paradigma politico (ma anche religioso) nel mondo arabo. La richiesta di libertà e democrazia in un quadro nazionale ha preso il sopravvento sull’immaginario della umma, la comunità dei fedeli islamici, in lotta contro il mondo occidentale. E le figure autoritarie e carismatiche non affascinano più una gioventù individualista e pragmatica. Da molto tempo, ormai, Al Qaeda riusciva a reclutare nuovi militanti solo nelle frange marginali del mondo musulmano (e cioè in occidente!). Ma la coincidenza tra morte politica e morte fisica è troppo eclatante per non sollevare alcuni interrogativi.

Il primo riguarda il Pakistan. È impossibile che i servizi segreti pachistani non sapessero dove si trovava Bin Laden: forse non lo sapevano in ogni istante, ma sicuramente lo individuavano più volte all’anno. È impensabile che siano stati tenuti completamente all’oscuro dell’operazione condotta ad Abbottabad. Quindi il Pakistan inizialmente ha protetto Bin Laden e poi ha deciso di abbandonarlo. Perché? Innanzitutto per i motivi che ho appena detto: Bin Laden non era più una forza politica nel mondo musulmano. Ma anche perché il movimento dei taliban, sia afgani sia pachistani, si era dissociato da Bin Laden. Non per motivi ideologici o politici, ma perché Bin Laden non aveva più nulla da offrire ai taliban: né denaro né armi né volontari né strategia politica. È significativo, poi, che Bin Laden si fosse rifugiato in una zona fuori dall’influenza dei taliban.

Via dall’Afghanistan

La sua morte apre prospettive nuove sul conflitto afgano. In fondo l’obiettivo strategico delle forze occidentali, quando hanno invaso l’Afghanistan nel 2001, era la distruzione di Al Qaeda e la morte o la cattura del suo leader. L’obiettivo è stato raggiunto, quindi perché restare? Anche se i governi occidentali nel 2001 hanno dato una giustificazione più ampia dell’intervento – bisognava liberare le donne afgane dalla dittatura maschilista dei taliban – oggi nessuno è più disposto a battersi per impedire che a Kabul siano imposti la sharia o il burqa. Ormai è difficile giustificare la presenza occidentale a Kabul. Si può invece proclamare a testa alta che la missione è compiuta.
Ed è proprio quello che vogliono l’establishment e l’opinione pubblica del Pakistan. È uno dei motivi per cui Bin Laden è stato abbandonato: non solo non serviva più da vivo, ma da morto potrebbe consentire al Pakistan di restare l’unico padrone del gioco in Afghanistan.
Nei suoi obiettivi strategici, il Pakistan si è mostrato costante fin dall’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979: vuole un potere amico a Kabul ed è convinto che solo un potere pashtun e islamico risponda a questo requisito. Il legame etnico con i pashtun pachistani, influenti nei servizi segreti e nelle forze armate, è considerato una risorsa. Le altre etnie, specie quelle di lingua farsi, sono percepite come potenziali agenti dell’Iran. Secondo Islamabad, il riferimento islamico consente di ridimensionare un nazionalismo afgano che potrebbe spingere Kabul a un’alleanza con l’India. Fino al 1993 la carta fondamentalista era incarnata dallo Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar. Dal 1994 è rappresentata dai taliban afgani.

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Afghanistan, operazione Isaf contro gruppo di insorti. Muore anche una donna. Feriti 7 civili

Da: PEACEREPORTER – 4.5.2011

49325 202x300In Afghanistan militari della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (Isaf, sotto comando Nato) e militari afgani hanno ucciso ieri nella provincia orientale di Paktia un gruppo di militanti della cosiddetta Rete Haqqani in una operazione in cui però ha perso la vita una donna e sette altri civili sono rimasti feriti. Lo rende noto un comunicato Isaf, secondo il quale l’azione è scattata dopo aver avuto informazioni riguardanti la preparazione nel distretto di Zurmat di un attacco al governatore di Paktia.

Nel tentativo di procedere all’arresto di un gruppo di persone che si nascondevano in un edificio, i militari sarebbero stati attaccati con armi automatiche, mitragliatrici e lanciarazzi. Nello scontro a fuoco che ne è seguito è intervenuto anche un elicottero che ha colpito le posizioni nemiche, con un bilancio di numerosi insorti uccisi e uno ferito. Quando alcuni soldati sono entrati nell’edificio, dice infine l’Isaf, “è stato scoperto il cadavere di una donna, mentre a terra giacevano sette feriti, fra cui tre donne e quattro bambini, che sono stati prontamente soccorsi”.

Il Frankenstein creato dalla CIA

Da PEACEREPORTER

040226bin ladenFiglio di un magnate delle costruzioni di origine yemenita (Mohammed Awad Bin Laden) e di una donna di origine siriana, Osama nasce il 10 marzo 1957 a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. All’età di 13 anni perde il padre. A 17 si sposa con la prima delle tre mogli, una ragazza siriana, sua parente. Il matrimonio a una così giovane età fa parte – per il suo carattere di protezione dalla corruzione e dall’immoralità – della rigida educazione religiosa che gli viene impartita. Compie tutti i suoi studi nelle scuole della città di Gedda, fino a conseguire la laurea in Management ed Economia all’università Re Abdul Aziz.

In questo periodo si accosta al movimento della “Fratellanza musulmana” e, negli anni che seguono, inizia a stringere sempre più stretti contatti con numerosi gruppi di integralisti islamici. Oltre che ad accumulare una discreta fortuna occupandosi della gestione dell’impresa paterna. Abbandonerà tale attività nel 1979 quando, a seguito dell’invasione dell’Afghanistan da parte di truppe sovietiche, si dedicherà ad aiutare i fratelli musulmani contro i “senzadio” comunisti. Inizia infatti ad investire le proprie ricchezze per reclutare volontari, e, in seguito, per addestrarli e per fornirgli le armi necessarie per combattere al fianco dei mujaheddin afgani. Crea così il gruppo del “Fronte di salvezza islamico”, potendo tra l’altro contare, oltre che sui propri fondi, anche sull’aiuto economico proveniente dagli Stati Uniti e sul appoggio della Cia (vedi sotto “Blowback”).

 Vinta la battaglia contro l’Unione Sovietica, nel 1991 fa ritorno in Arabia Saudita. Vi trova stanziate le forze armate statunitensi impiegate nella prima guerra contro l’Iraq. Questo fatto lo colpisce profondamente, ritenendo un’ingiustizia la presenza di truppe infedeli sul sacro suolo del Profeta Maometto. Si convince così che è arrivato il momento di combattere l’altra superpotenza infedele, quegli stessi Stati Uniti che lo avevano in precedenza sostenuto e finanziato. Fonda così Al Qaeda (la Base), un’organizzazione del terrorismo integralista islamico che compirà attentati tanto all’interno quanto all’esterno dei confini statunitensi.

Fra gli altri si ritiene siano opera di tale organizzazione l’attentato dell’ottobre 2000 contro l’incrociatore statunitense Cole, nei mari dello Yemen (in cui persero la vita 17 marinai americani) e i due attentati dell’agosto 1998 contro le ambasciate Usa di Nairobi, in Kenya, e di Dar-es Salaam, in Tanzania, che provocarono la morte di 224 persone. Cacciato dal Sudan nel 1996, dov’era stato ospitato per alcuni anni, trova rifugio nell’Afghanistan del talebani, dove rimane fino all’attacco americano successivo alle stragi dell’11 settembre, di cui è ritenuto il mandante.

Da allora scompare nel nulla, anche se i servizi segreti Usa ritengono si nasconda sulle montagne al confine tra Afghanistan e Pakistan assieme al suo braccio destro, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri. Vivrebbe protetto dai talebani in caverne naturali attrezzate però con le più moderne e sofisticate apparecchiature tecnologiche. le sue condizioni di salute sembra siano tutt’altro che buone.

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L’altro Afghanistan: crescere ed istruire i bambini

 Newsletter AFCECO – Gennaio 2011

foto afceco 1 300x197 copyDopo un anno, il 2010, segnato da conflitti, da capi politici e organizzazioni umanitarie che lottano per trovare soluzioni e spiegazioni, un anno in cui la guerra sembrava sotto alcuni aspetti giungere ad una tregua e per molti altri invece peggiorare, rendendo ogni prospettiva sempre più incerta, ebbne oggi possiamo dire apertamente che una soluzione efficace l´abbiamo trovata. Tutto ciò è stato possibile grazie ad AFCECO che non solo è riuscita a superare quest´anno tumultuoso, ma è perfino cresciuta: sei nuovi orfanotrofi sono stati aperti e ospitano ora trecento bambini e bambine, e questo non è che l´inizio. Vorremmo ricordare in questa newsletter tutti gli obiettivi raggiunti nel 2010, un´ulteriore dimostrazione di come l´impegno vostro e di AFCECO sia senza alcun dubbio un modello di cambiamento positivo, e se poi qualcuno di voi è alla ricerca di una soluzione positiva ai problemi attuali in Afghanistan, allora vi consigliamo vivamente di seguire le nostre attività negli orfanotrofi.

 Il 2010 è cominciato con l´assegnazione del premio Global Leadership Award of Vital Voices 2010 alla nostra direttrice Andeisha Farid presso il Kennedy Center di Washington D.C. Di lì a breve, l´evento ha avuto un seguito: Andeisha è stata infatti invitata a numerose conferenze in India, Turchia, Italia e Nepal. In ognuna di queste occasioni Andeisha è riuscita a conqiustare una piccola parte di mondo, condividendo la storia di AFCECO a tutti i presenti.
Verso la metà del 2010, Andeisha è stata invitata al summit per le donne più influenti al mondo – il Fortune Most Powerful Women Summit 2010 – in occasione del quale ha ricevuto un premio assegnatole dalla Goldman Sachs e dalla rivista Fortune che le ha consentito di avviare un progetto pilota di finanziamento per gli studi universitari delle ragazze più meritevoli. In quell´occasione Google si è offerto di contribuire al progetto, finanziando dei fondi gestiti interamente da AFCECO. Andeisha è stata inoltre invitata al summit sull´imprenditoria presentato dal presidente Barack Obama, il quale ha trovato la storia di Andeisha così avvincente da dedicarle un discorso davanti ad una vastissima platea: `Andeisha Farid, una donna afgana straordinaria, ha rischiato la propria vita per educare le future donne del paese, una per una; Insieme, lottano per un futuro di successi collettivi e di risultati a lungo termine´.

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DONNE AFGHANE UCCISE DA FORZE MILITARI STRANIERE

DA: RAWA.ORG

Nella provincia di Kunar, al confine con l’Afghanistan, le forze di occupazione straniere hanno provocato numerose vittime civili.

La International Security Assistance Force della NATO (ISAF) ha dichiarato oggi che due donne afghane sono state uccise durante un’operazione militare nell’Afghanistan orientale che ha visto la morte anche di 17 ribelli.

Le autorità locali avevano già riportato che la scorsa settimana due donne e un bambino avevano perso la vita nel distretto di Dangam, nella provincia di Kunar.

La dichiarazione dell’ISAF riporta: “Le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco uccidendo un rivoltoso e due donne che si nascondevano dietro a lui”.

Aggiunge che durante l’operazione le truppe ISAF “hanno ucciso 17 rivoltosi, inclusi combattenti stranieri, e hanno imprigionato un ‘sospetto ribelle’ poiché stavano cercando uno dei leader più importanti di Al Qaeda”.

Il problema delle vittime civili è causa di serie tensioni tra il presidente afghano Hamid Karzai e i suoi sostenitori occidentali e scatena frequenti proteste.

La provincia di Kunar, al confine con il Pakistan, dove le forze militari straniere combattono costantemente i rivoltosi, ha visto una notevole quantità di vittime civili, inclusi nove bambini uccisi in un bombardamento aereo, per cui gli Stati Uniti si sono “scusati” il mese scorso.

Sono circa 130.000 i militari stranieri in Afghanistan che combattono la rivolta talebana, in atto ormai da circa 10 anni.

Afghanistan: in aumento la violenza sulle donne

Da: RAWA.ORG

Nel 2010, 69 donne hanno perso la vita a causa di violenze domestiche e vendette familiari, in aumento rispetto alle 64 del 2009.

Sultana Rahi

foto sito RAWA 300x267AIHRC (Afghanistan Independent Human Rights Commission)  ha dichiarato che 75 donne si sono auto-immolate lo scorso anno in Afghanistan a causa della violenza in costante aumento.

La funzionaria di AIHRC Latifa Sultani ha riportato a Pajhwok Afghan News che il comitato di controllo ha ricevuto segnalazioni da tutte le aree del paese per un totale di 2.765 casi di violenza contro donne e ragazze.

Mariam sta piangendo al capezzale di sua figlia Najiba, di 13 anni. Najiba, sposata da sei mesi, ha accusato la suocera di averla cosparsa di benzina e averle dato fuoco. Tuttavia, sia la madre che le infermiere non credono fino in fondo al suo racconto e sospettano che si sia auto-immolata in un tentativo di suicidio.

I casi riportati includono 144 auto-immolazioni, 261 tentativi di suicidio, 237 matrimoni forzati, 538 episodi di percosse e 45 omicidi. Le auto-immolazioni hanno causato 75 morti e 20 invalidità permanenti. 22 persone sono state ricoverate.

Delle violazioni di diritti umani riportate alla commissione, 2.269 riguardavano la violenza, inclusi 23 suicidi, 119 auto-immolazioni, 134 omicidi e 909 casi di forti percosse.

Inoltre, nell’intero paese le donne sono soggette a rapimenti, vendite di vedove, matrimoni infantili, matrimoni forzati e violenze sessuali.

Il Dr. Arif Jalali dell’Ospedale Civile di Herat riporta che all’ospedale sono arrivate dalle aree occidentali del paese 90 donne che si sono auto-immolate. 51 di loro non sono sopravvissute.

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Affari di guerra: firmato a Kabul il primo accordo economico tra Italia e Afghanistan

Di: Enrico Piovesana – PEACEREPORTER

48004 copyPetrolio e gas, miniere e marmo, strade e aeroporti, energia e agricoltura. È ricco e variegato il menù del primo accordo quadro di cooperazione economica firmato martedì a Kabul tra governo italiano e governo afgano.

La delegazione commerciale guidata dal ministro per lo Sviluppo Economico, Paolo Romani, era composta, tra gli altri, da rappresentanti di Eni, Enel, Enea, Gruppo Trevi (perforazioni petrolifere), Gruppo Maffei (estrazioni minerarie), Iatt (pipeline sotterranee), Fantini (segatrici per marmo), Assomarmo, Margraf e Gaspari Menotti (estrazione del marmo) e AI Engineering (costruzioni).

Il protocollo d’intesa prevede che investimenti italiani nell’estrazione di petrolio (nel nord dell’Afghanistan ci sono giacimenti da 1,6 miliardi di barili, per un valore di 85 miliardi di euro), gas naturale (nella stessa zona vi sono riserve da 16 miliardi di metri quadri, per un valore di 39 miliardi di euro), risorse minerarie (oro, rame, ferro, carbone e il prezioso litio, forse presente nei laghi prosciugati della provincia di Herat) e pietre preziose (smeraldi e lapislazzuli).

Il ministro afgano delle Miniere, Wahidullah Sharhani, ha inoltre chiesto all’Italia di partecipare alla realizzazione della famosa pipeline transafgana (Tapi) che porterà in Pakistan e India il gas trukmeno attraversando la provincia di Herat. Il progetto, di difficile realizzazione per ovvi motivi di sicurezza, potrebbe beneficiare dell’innovativa tecnica di posa condutture ‘trenchless’ (senza scavo a cielo aperto) della Iatt.

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